C’è una parola-chiave che, ripetuta e inflazionata, ha attraversato la filosofia del Novecento. Parliamo di “tecnica”. Max Scheler nella sua Sociologia del sapere individua la confluenza di ragion scientifica e tecnica nell’atteggiamento che la nuova umanità borghese intrattiene con il mondo. Nel sociologo tedesco Werner Sombart, tecnica significa parimenti un insieme di conoscenze che ci permettono di produrre merci con un approccio razionale, scientifico, nei termini di una visione meccanica che pone la natura a disposizione delle manipolazioni umane. Qui, come in molti altri autori, tecnica indica ancora genericamente industria, ma è già qualcosa in cui si palesa la volontà di dominio illimitato della natura. Notoriamente, è con Heidegger che il termine tecnica assume un significato rinnovato e originali prospettive d’indagine. Nelle conferenze heideggeriane sul tema in questione, ricorre più volte un esempio: una centrale idroelettrica sul Reno. La terra viene obbligata dalla tecnica a presentarsi come avente risorse, e conseguentemente assalita in vista dello sfruttamento, sicché l’uomo riduce l’essente a fondo manipolabile da cui trarre potenza. Il fiume viene ridotto a generatore di energia. Apriamo allora Il tramonto dell’Occidente di Spengler e leggiamo:

Il tecnico autentico in una qualche fa­mosa cascata non vede uno spettacolo incomparabile della natura, bensì un puro quantum di energia non sfruttata.

Sono quasi le stesse parole, tanto che Massimo Cacciari ha suggerito che l’immagine del Reno ridotto a produttore di energia per la centrale elettrica venga direttamente da Spengler. Teniamo questi due estremi, da una parte Spengler e dall’altra Heidegger, due autori dissimili, con profili non facilmente conciliabili. Come arriviamo dall’uno all’altro, senza limitarci a uno sterile esercizio storiografico di ricerca di “parentele filosofiche”?

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Iniziamo da Spengler. Il Tramonto è un’opera che cerca di comprendere se l’Occidente è destinato alla fine. Spengler ha due obiettivi polemici. Da una parte, non vede affatto la storia come il percorso dello spirito, al modo di Hegel; dall’altra, rifiuta l’idea marxista di una storia guidata da leggi meccaniche, cioè letta in prospettiva materialista. Non c’è una classe, il proletariato, che da subalterna subentra a quella dominante come una lancetta che scorre sul quadrante dell’orologio. Non ci sono nemmeno delle epoche, delle fasce temporali che noi applichiamo al divenire storico per avere dei criteri interpretativi (medioevo, storia antica, storia moderna e così via). Per Spengler ci sono le civiltà, cioè dei grandi organismi viventi (le culture indiana, cinese, greco-romana, babilonese, eccetera). In quanto organismi, le civiltà nascono, fanno il proprio corso e infine muoiono. La cultura di cui egli prevede il tramonto è quella occidentale, da lui detta faustiana. Ora, la civiltà faustiana occidentale è destinata – attenzione a questo termine, destino – a prendersi il mondo, a divenire la civilizzazione mondiale. Ma come, domandiamo, non si preconizza invece il suo tramonto? Non abbiamo forse a che fare con la fine dell’Occidente?

Apriamo il Tramonto dell’Occidente e leggiamo:

Imperialismo è pura civiltà. Ora, proprio tale forma è l’ineluttabile destino dell’Occidente.

Il destino dell’Occidente è l’imperialismo. Il suo futuro è la conquista imperiale di ogni spazio presente sul globo. Ma allo stesso tempo sta per giungere al tramonto. Siamo di fronte a una ricostruzione forse complicata, certamente contorta. Ancora:

La storia universale è il tribunale universale: ha sempre dato ragione e diritto di esistere a chi è più forte e pieno di vita.

La cultura vittoriosa è quella più forte e piena di vita, non quella che esprime i migliori poeti, i più grandi pensatori, gli artisti impareggiabili. Poesia, metafisica e arte sono ciò in cui, nella sua giovinezza, ovvero nel suo glorioso passato, la civiltà occidentale si è prodotta. Il tramonto di poesia, metafisica e arte corrisponde alla vecchiaia. Questa cultura, ormai decrepita e priva di forza creativa, trapassa e si trasforma in qualcos’altro, e questo altro non viene dall’esterno, ma è covato all’interno della cultura occidentale stessa. Da civiltà si passa a civilizzazione. Spengler vede già che per l’uomo del suo tempo un complesso industriale ha un’importanza maggiore di ogni museo e di tutte le metafisiche d’accademia. “Esaurite, scadute, superflue”, così sono descritte la filosofia e l’arte, meri giocattoli per il divertimento del graeculus histrio. Nè la bellezza né i valori morali contano di fronte al tribunale della storia universale. Lo ripetiamo, ciò che conta è unicamente pienezza di vita.

Il destino degli animali - Franz Marc (1913)

Il destino degli animali – Franz Marc (1913)

Se è vero che l’uomo pratico [ossia il tecnico] e il poeta non si comprenderanno mai, da quale parte stare? Nell’occaso non si dà libertà di scelta, non possiamo perseguire questo o quel destino, bensì l’unico che ci è assegnato: o nulla, oppure quel che è necessario. Di fronte a queste a affermazioni comprendiamo la logica di Spengler, che è la stessa della retorica dominante del nostro tempo, la medesima che ci ricorda a ogni piè sospinto che si devono tenere i conti in austero ordine, o si muore, che non c’è alternativa ai mercati globalizzati se non la nostra scomparsa; che la precarizzazione del il lavoro e la riduzione dei diritti sociali sono l’unica via per non essere schiacciati dai competitori. Come scrisse Spengler medesimo ne L’uomo e la tecnica,

al posto del ‘deve essere così’ o del ‘dovrebbe essere così’ s’inserisce l’implacabile ‘è così’ e ‘sarà così’.

Uno dei padri della Rivoluzione Conservatrice, Arthur Moeller van den Bruck, in uno scritto del 1920 colse un punto fondamentale, cioè che Spengler esortava i tedeschi a dire sì al proprio “ineluttabile destino” imperiale, esortandoli a lasciarsi alle spalle la propria cultura – poesia, arte, metafisica – per abbracciare la civilizzazione. In termini più pratici, a diventare “tecnici, mercanti, navigatori, grandi imprenditori”, insomma “dominatori delle moderne forme di civilizzazione” (Spengler contro Spengler). O nulla, oppure ciò che è necessario, vale a dire la tecnica.

Spengler si ferma qui. Chi porta avanti questo discorso fino all’estremo è un autore più giovane di Spengler, Ernst Jünger. All’inizio degli anni Trenta, Jünger pubblica tre testi che si richiamano alla visione spengleriana del destino: La mobilitazione totale, L’operaio, Sul dolore. Concentriamoci sul più corposo dei tre, L’operaio. Dominio e forma. In questo libro, Ernst Jünger prefigura l’avvento di un nuovo tipo umano, di una nuova umanità, che egli chiama Arbeiter, lavoratore. Il lavoratore supera l’età del borghese, cioè l’età delle lettere, del discorso, della mediazione e della sua forma politica, la democrazia parlamentare. Il borghese non è più in grado di far fronte a ciò che verrà, per due motivi: egli non può dominare le forze scatenate dalla guerra mondiale, forze a cui Jünger dà il nome di “elementare”, e che sono costituite dalla triade avventura-pericolo-dolore (da cui appunto il terzo stato si sottrae). Per quanto pretenda di ricondurre tutto nelle maglie della razionalità, il borghese non può eliminare la possibilità del conflitto, come aveva in precedenza segnalato Carl Schmitt. E nel momento in cui il conflitto sorge e diventa globale e totalizzante, il borghese lascia il posto all’operaio.

Ernst Jünger

Ernst Jünger

Cosa significa conflitto totalizzante? Innanzitutto, la guerra non riguarda ormai soltanto due o più eserciti regolari, ma comprende tutta la popolazione, alla quale sono richiesti immensi sforzi lavorativi. Jünger dice che persino il bambino nella culla o la domestica a casa sono compresi nello sforzo. Ogni aspetto della vita viene orientato al fine di una guerra non più parziale, bensì totale, divenuta “un gigantesco processo lavorativo” in cui sopravvive chi è in grado di essere l’esercito del lavoro in assoluto. Perché il lavoro sia totalizzante, va eliminato lo scomodo ostacolo delle pretese dell’individualismo e della mediazione borghese, al fine di permettere all’uomo di disporre di se stesso, di mettere la propria individualità al servizio del lavoro, al servizio della totalità. Ecco, l’operaio delineato da Jünger è il Typus capace di incarnare la Gestalt del lavoratore. Non è operaio nel senso del marxismo, cioè operaio per concrete condizioni economiche o discutibili rapporti di forza. È operaio in senso metafisico. Incarna la forma del lavoro e a quella orienta la sua concretezza di uomo, le sue possibilità, i suoi sforzi, il suo lavoro.

Delio Cantimori, che in Italia è stato uno dei primi a commentare L’operaio, sintetizza nel modo seguente il passaggio dal borghese al lavoratore:

Non è più l’unicità della propria esperienza che conta, ma l’univocità, la precisione del tipo; il rango di una persona è determinato dalla misura nella quale essa incorpora l’idea del Lavoratore.

Il lavoratore è il ‘tipo umano’ che può accedere alla sovraindividualità per mobilitare il mondo. La frase maggiormente ripetuta da Jünger, “la tecnica è il modo in cui l’operaio mobilita il mondo”, racconta di un evento che ha una portata simile alla comparsa della polvere da sparo: una volta che questa nuova tecnologia entra nell’arte bellica, nessuno può permettersi di rifiutarla, e gli eserciti di ogni Stato devono dotarsi di fucili e cannoni a polvere, pena la scomparsa, la sicura sconfitta. Come la polvere da sparo impone un aut-aut (o ne fai uso, divenendone in qualche modo schiavo, o perdi), così la tecnica stessa dimostra una potenza tale da imporre all’uomo di esserne subordinato. Tale potenza tuttavia non appartiene a questa o a quell’altra nazione, a questo o a quell’altro impero, a questo o a quell’altro esercito, bensì è la tecnica in sé che sistematicamente conquista sul globo ogni terreno vergine. Non esiste una resistenza al suo avanzamento, o meglio la qualsiasi resistenza alla tecnica, fosse anche portata avanti da interi popoli, è votata al fallimento.

Donbass - Aleksandr Deyneka (1932)

Donbass – Aleksandr Deyneka (1932)

In altre parole, Jünger intuisce un cambiamento epocale. La tecnica non è un mezzo di cui l’uomo può decidere di far a meno. È il destino stesso dell’uomo, e per compiere tale destino l’uomo deve essere operaio. La tecnica è il modo dell’attuarsi della mobilitazione totale per mezzo della quale l’uomo concepisce tutto come lavoro. Mobilitazione totale, espressione che è anche il titolo di uno dei saggi fondamentali di Jünger, significa mettere in moto tutto, far diventare il mondo intero lavoro. Ogni atomo deve essere destinato al lavoro. Spengler diceva della cascata: ebbene, la cascata in un mondo del genere non può essere oggetto di contemplazione. Deve venire sfruttata, produrre energia. Più qualcosa sprigiona potenza, disponendosi a vantaggio della mobilitazione, più risponde alle logiche del lavoratore. Non vengono dunque coperti soltanto aspetti relativi all’economia, ma tali da riferirsi a ogni campo dell’agire umano. Ci sono nell’Operaio pagine sociologiche degne di un Simmel. Per esempio, cambia lo stile nel suo complesso. Più l’uomo risponde al profilo del lavoratore, più si uniforma. Vengono dismessi gli abiti borghesi, appariscenti, con le particolarità individuali, e prendono il sopravvento le uniformi da battaglia e da lavoro. Lo sport perde la dimensione greca di competizione per la gloria, perde la dimensione agonistica, ne guadagna una tecnica, cioè diventa il perseguimento di record da superare sempre più, sottoponendo il corpo a pressioni per superare il limite, come se fosse una macchina.

È un automatismo che sfocia nella mortificazione. Nell’età del lavoro il corpo è un oggetto che il soggetto usa, uno strumento di cui l’io dispone. I precursori del lavoratore, le sue figure archetipiche, sono infatti per Jünger il guerriero e il monaco, coloro che disponendosi a rigida disciplina si staccano dai dolori e dalle passioni del corpo per un fine superiore. Il guerriero usa il proprio corpo per esercitarsi, per fare la guerra; il monaco mette la carne al servizio di qualcosa di più alto. Chi ha letto le passioni dei martiri o le pagine di Cassiano sulle istituzioni monacali e cenobitiche sa che ricorre spesso questa espressione, mettere la carne al servizio del supremo. Il cambiamento epocale riguarda anche la politica. La prima guerra mondiale sotto tale riguardo è stato un conflitto anomalo. Che guerra è quella in cui i formali vincitori vedono gradualmente scomparire le proprie istituzioni, le proprie compagini statali? Pensate alla Russia e all’Italia, vincitrici che vedono distrutto il precedente ordinamento. Jünger interpreta tale anomalia in questo senso: a vincere non è una bandiera. A vincere è la tecnica stessa, il modo in cui la potenza emerge in guerra. In quanto vincitrice, la tecnica porta mutazioni politiche a tutte le forze in campo, sia quelle formalmente vincitrici che quelle vinte. Scompaiono monarchie e imperi, crollano usi e abitudini dell’Europa pre-bellica.

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Il ragionamento di Jünger può comprensibilmente apparire assurdo, nel senso che potremmo dire: la tecnologia è in atto soltanto perché qualcuno la usa. Come fanno una fabbrica, un mortaio, una bomba atomica a non essere mezzi, strumenti in mano di qualcuno? Se una bomba uccide delle persone, la responsabilità morale oggettiva dell’uccisione ricade su chi ha lanciato la bomba. Siamo tutti d’accordo su questo. Jünger di fronte a questa obiezione tentenna, ma cerchiamo di seguirne il ragionamento. Lui ricorre a un esempio spiazzante. Dice: all’uomo dell’età del lavoro sembra assurdo che si muoia in un duello per una questione d’onore. Vero. Però, continua, perché le vittime del traffico stradale non danno luogo ad analoghe controversie? L’atteggiamento che considera ovvie le vittime della tecnica moderna è lo stesso che considera aberranti le morti per i duelli d’onore, o le sofferenze che i monaci si sono inflitti per secoli all’ombra dei conventi. I morti della tecnica (i morti sul lavoro, i morti in fabbrica, i morti per incidenti stradali, e così via) sono noti con precisione statistica, vengono da noi considerati nell’ordine delle cose. Sappiamo che ogni anno morirà un numero più o meno definito di persone per incidente. Sono morti quasi “naturali”. Gunther Anders ebbe un carteggio con il pilota statunitense che sganciò la bomba su Hiroshima. Nelle lettere il militare, poi finito in cura psichiatrica, cerca di comprendere il suo gesto. Dice che era consapevole dell’atto che stava per compiere, cioè sterminare in un colpo migliaia di persone, però allo stesso tempo era incosciente. Non sentiva la responsabilità del massacro, si sentiva anzi guidato da una volontà superiore, non individuale.

Jünger è pienamente nichilista. Non crede che la morale possa giudicare l’uso della tecnica, non per una generica e improvvisata amoralità, quanto per la  sua stessa concezione della tecnica, derivata dall’insegnamento “o ciò che è necessario, o nulla”, ricevuto da Spengler. Scrive Jünger:

La misura in cui l’uomo si pone in relazione con essa secondo criteri decisivi, la misura in cui egli non viene distrutto ma potenziato da essa, dipende dal grado in cui egli rappresenta la forma dell’operaio. In questo senso, tecnica è padronanza del linguaggio valido nell’ambito del lavoro.

Concentriamoci su quest’ultima frase: la tecnica è padronanza del linguaggio valido nell’ambito del lavoro. Non facciamoci ingannare dal termine padronanza. Ciò che importa, qui, non è la macchina in sé, l’apparato tecnologico in quanto tale, né l’uso che l’uomo ne fa; questi sono meri organi che esprimono il linguaggio del lavoro. La tecnica non è prodotto o creatura, bensì modo dell’attività del tipo umano che incarna la forma del lavoratore e che aggredisce “rapporti e vincoli estranei all’ambito del lavoro”. Se la tecnica fosse immediato prodotto dell’uomo, egli potrebbe valutarla secondo i criteri economici, estetici, etici. Ma così non è. La mobilitazione della Gestalt la sottrae a ogni valutazione perché il rapporto tra l’uomo e la tecnica non è libero, anzi: non è diretto, non è immediato, bensì è mediato dalla forma del lavoratore, cioè dalla disposizione metafisica del suo esserci. Non è l’uomo a porre in essere la tecnica, è piuttosto la forma a esigere quel particolare linguaggio, la tecnica. Queste sono sommariamente le tesi che Jünger sviluppa negli anni Trenta e che rivaluta successivamente. Il secondo Jünger è come un’immagine in negativo del primo: da una parte la filosofia della necessità, del sì a tutto, dall’altra la produzione post-1939, che è una filosofia della libertà, del no.

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Quando L’operaio viene pubblicato nel 1932, ottiene molto successo ma quasi nessuno capisce la portata rivoluzionaria dell’opera. Lo stesso Spengler scrive una lettera a Jünger dicendogli che il libro è da marxisti, da concubini del bolscevismo, e vede nel culto dell’operaio una grave devianza. C’è un filosofo che, nel silenzio, legge gli scritti jüngeriani e li comprende appieno. È Martin Heidegger, la cui produzione filosofica sulla tecnica è ben nota da decenni. Heidegger studia L’operaio, La mobilitazione totale, lo scritto Sul dolore, e da grafomane qual è stato stende una mole massiccia di riflessioni e appunti su Jünger. Alla fine degli anni Trenta tiene addirittura dei seminari privati, in un circoletto ristretto di colleghi, sul Lavoratore. È un fatto tanto più rilevante quanto più sappiamo che non sono numerosi gli autori contemporanei che catturano l’attenzione e la fatica di Heidegger. Nel memorandum in cui lui ripercorre quegli anni, dice dei libri di Jünger:

Molti altri hanno letto in quegli anni quei libri; ma al pari di altre cose di grande interesse, si è preferito metterli da parte; non li si è compresi nella loro autentica portata.

Domandiamo ora perché Heidegger dia un giudizio così lusinghiero di Jünger e come interpreti le sue tesi. Forzando a unità le sue riflessioni estemporanee, private, di difficile lettura (disponibili nel volume 90 della Gesamtausgabe), ricaviamo due considerazioni. In primo luogo, Jünger è il vero successore di Nietzsche e nessuno se n’è accorto. Ritiene che “i fini dell’ente sinora dati sono caduti” non per il semplice passaggio da alcuni valori ad altri, ma per lo sradicamento dei valori da ciò che fino ad allora aveva fornito loro legittimità, ossia il soprasensibile. L’ente non riceve valori dall’alto, ma i valori provengono dall’ente stesso come volontà di potenza. Il diritto medesimo si origina dalla potenza. Da dove viene la legittimità delle istituzioni umane? Non dalla vecchia morale universalista, non da Dio e dal Diritto Naturale, non dalla volontà popolare in sé, ma unicamente dalla potenza. Volontà di potenza, secondo Heidegger, significa ammaestramento del globo, dominio – Herrschaft, uno dei sottotitoli dell’Operaio jüngeriano.

In secondo luogo, con Jünger la tecnica non viene vista più soltanto come uno strumento. Egli scopre il carattere meta-strumentale della tecnica. Significa prima di tutto che non basta indicare la tecnologia, gli apparati e i dispositivi tecnologici, per spiegare la tecnica. Per comprendere cosa significa dobbiamo rivolgerci ad Aristotele, che nel libro settimo della Politica dedica alcune righe a formare uno schema con due gruppi di termini polari: da una parte mette le cose necessarie (anankaia, es. la guerra, pólemos, il lavoro e l’occupazione, ascholìa), dall’altra le cose belle (kalà, es. la pace, eirene, il tempo libero ben impiegato per la virtù, scholé). Il filosofo greco dice che le cose necessarie sono le condizioni per realizzare le cose belle (se non si è in grado di condurre la guerra, non si avrà la pace). Se noi pensiamo alla tecnologia in tali termini, essa andrebbe nel gruppo delle cose necessarie per arrivare ai nostri scopi, alle cose belle, al progresso, alla civilizzazione. Così è sempre stato. Heidegger invece ci mette in guardia, dicendo che con Jünger la tecnica non viene concepita per giungere a uno scopo, ma viene pensata come fine in sé, in quanto potenza. La tecnica non è mediazione funzionale al mondo dell’uomo. Commentando L’operaio, Heidegger scrive che la potenza è “l’essere medesimo […] in cui ogni ente oscilla”. Quello che prima si pensava come padrone della tecnica, e che l’ideologia maschera come possessore di un mezzo orientato a determinati fini – siano essi la società senza classi o il dominio del proletariato nel caso sovietico, la garanzia di libertà dell’individuo di produrre e scambiare merci nel caso del capitalismo, la realizzazione di una società monolitica soggetta allo Stato o al partito, nel caso dei fascismi – non è che il sottoposto della tecnica. È schiavo della metafisica della volontà di potenza che esige la tecnica.

Martin Heidegger

Martin Heidegger

Nei Quaderni neri Heidegger riflette sugli effetti della tecnica sul proprio tempo, che è il tempo in cui la politica non viene pensata affatto con una visione del buon vivere in comunità, ma come metodo di organizzazione delle risorse del lavoro col fine di istituire un sistema di organizzazione del popolo in grado di garantire le prestazioni più elevate possibili. La politica si snatura, da ricerca del buon vivere comune diviene organizzazione delle risorse lavorative (uomo-lavoratore) e materiali (natura). È una riduzione dell’uomo a materia impiegabile fornitrice di energia. Poiché bisogna seguire gli interessi tecnici, alla filosofia sono altresì sottratti gli spazi per pensare quale ordine e forma la comunità politica debba assumere, o quali buone decisioni debba prendere. La tecnica si impone come l’unico ordine e indica quali sono le uniche decisioni politiche legittime (quelle che vanno verso più-tecnica). La filosofia di Jünger ha inaugurato tutto ciò, concependo la tecnica come destino, secondo le categorie attinte al Tramonto dell’Occidente di Spengler. Heidegger scrive:

Ciò che Ernst Jünger pensa nei concetti della signoria e della forma del milite del lavoro, ciò che intravede alla luce di tali idee, è nient’altro che il dominio universale della volontà di potenza nella storia, vista quest’ultima in una prospettiva planetaria. E a tale realtà va oggi ricondotto tutto – lo si chiami comunismo o fascismo o democrazia.

Lo scontro delle ideologie sul ruolo del capitale, delle divisioni di classe, della discriminazione razziale e della prevalenza dello Stato sulla società o di un solo partito sullo Stato, insomma su tutto ciò in cui esse non convergono, è nulla di fronte alla pressante invasività della tecnica, alla quale in egual misura si sono sottoposti comunismo, fascismo, liberalismo democratico.

Oswald Spengler

Oswald Spengler

In conclusione, spendiamo alcune parole sul tema che il sottotitolo del convegno ci impone, vale a dire l’attualità di Spengler a 100 anni dalla pubblicazione de Il tramonto dell’Occidente. Nel 2015, su le Figaro i filosofi François-Xavier Bellamy e Michel Onfray (il quale pubblicò più tardi per Flammarion il suo Décadence) discussero di fine della civiltà occidentale. Sulle stesse colonne, in seguito, Luc Ferry accusò Onfray di “spenglerismo”, come se utilizzare le categorie di Spengler fosse un’infrazione, una malattia, un tarlo del pensiero. Nel mio intervento ho cercato di rintracciare l’eredità del Tramonto in Jünger e, per via di questo, in Heidegger. Dire che un autore è attuale può sembrare banale e superfluo. Cosa resta di Oswald Spengler? Nel Tramonto dell’Occidente, il termine “tecnica” compare prevalentemente nel senso di “tecnica di”, ossia come “tecnica della costruzione”, “tecnica della conoscenza”, “tecnica della matematica”, “tecnica monetaria”, “tecnica narrativa”, “tecnica pittorica”. Prima eccezione è un passo in cui Spengler afferma una differenza insanabile tra la logica tragica e la logica tecnica. Questa, in estrema sintesi, è una delle lezioni più importanti di Spengler: esiste una tensione irriducibile tra la logica della tecnica (che domina l’età attuale) e la logica tragica della cultura occidentale. Ogni alta civiltà è una tragedia; la storia dell’uomo in complesso è tragica (L’uomo e la tecnica). Tragica nel senso greco, cioè il senso che riferisce della particolarità dell’uomo all’interno del cosmo, e nel senso cristiano dell’uomo come ens creatum. Quando dico tragico e greco penso non soltanto alla letteratura della Grecia antica ma soprattutto all’idea che Anassimandro per primo ha messo a tema: gli esseri hanno origine dall’infinito, e in quell’infinito si distruggono.

Gli esseri devono inevitabilmente pagare un debito per il fatto di esistere, hanno la colpa (amartìa) di essere nati. Per i Greci la morte è l’evento che ricompone l’equilibrio del cosmo e garantisce la misura, “la perfetta rotondità dell’essere”, per dirla con Sergio Givone. Con tragico cristiano intendiamo qualcosa di diverso: sì l’uomo pecca, sì l’uomo ha colpa, ma ha anche la possibilità della redenzione nel mondo, e la possibilità del perdono. Il tragico greco si basa su una misura, su un equilibro, quello cristiano si basa su una dismisura. Ecco, Spengler mostra questa idiosincrasia tra la visione tragica, cioè l’idea che la vita che ha un limite invalicabile nella morte, e la visione tecnica, cioè la onni-potenza dell’uomo, quella volontà di dominare su tutto che in Jünger è il carattere del tipo-umano lavoratore. L’Occidente orientandosi alla tecnica decade, tramonta, rinnega se stesso, eppure trionfa proprio perché la tecnica apre la possibilità del dominio globale. Perde come cultura, vince come civiltà della tecnica. Nell’introduzione al Tramonto, Spengler scrive:

Se per effetto di questo libro uomini della nuova generazione si dedicheranno alla tecnica invece che alla lirica, alla marina invece che alla pittura, alla politica invece che alla critica della conoscenza, essi faranno proprio ciò che io desidero, né si potrebbe desiderare per essi nulla di meglio.

In tema di attualità, possiamo ben dire che il suo invito è stato accolto.


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Il presente scritto è una rielaborazione dell’intervento al convegno intitolato “Il secolo del tramonto. Attualità di Oswald Spengler a cent’anni dalla pubblicazione de Il tramonto dell’Occidente”, tenuto in data 12 aprile 2018 a Milano, presso L’Università Cattolica del Sacro Cuore.