Marx e l’estetica
di MICRO MEGA (Rolando Vitali)
Recentemente, l’editore Bloomsbury di Londra ha pubblicato un volume dal titolo “The Aesthetic Marx”, curato da Samir Gandesha e Johan F. Hartle, nel quale il pensiero di Karl Marx viene sottoposto a un’originale lettura. Tentando di sottrarre l’interpretazione dell’opera di Marx alle letture canoniche, i curatori percorrono una via diversa, risalendo alle origini filosofiche del pensiero marxiano e affrontando certi suoi caratteri a partire da una prospettiva specifica e inedita: quella estetica.
L’interesse per il pensiero di Marx sembra davvero rivivere una nuova primavera: dopo esser stato rimosso – anche in senso psicanalitico? – da tutti i settori di ricerca per decenni, a partire dallo scoppio della crisi economica, sociale e politica iniziata con il collasso dei mercati finanziari nel 2007, il suo fantasma sembra essere riapparso all’interno del dibattito culturale contemporaneo, prima sporadicamente, poi in maniera sempre più esplicita. In ambito economico e sociologico, ma anche all’interno delle discipline storiche e antropologiche, è possibile riscontrare un interesse crescente per il suo pensiero. Paradossalmente, però, proprio all’interno dell’ambito proprio di Marx, quello della filosofia, la sua presenza sembra restare irrigidita all’interno di letture specifiche che, per quanto fertili, appartengono ad un’altra stagione: è proprio in ambito filosofico, infatti, che la sua interpretazione resta per lo più ferma al passato: da un lato, alle categorie delle tradizioni post-operaiste e post-strutturaliste; dall’altro, alle elaborazioni del marxismo classico novecentesco. Più interessate a sviluppare un discorso filosofico e politico autonomo piuttosto che a restituire il pensiero marxiano nella sua posizione storica e filologica, sia il marxismo classico, sia il post-operaismo e le correnti post-strutturaliste, hanno finito per privilegiare concetti determinati e specifici del pensiero marxiano (si pensi all’appropriazione del termine general intellect), rendendole organiche alle elaborazioni di queste tradizioni, senza preoccuparsi di affrontare il pensiero di Marx nella sua organicità. Dall’altra parte, uno strano effetto di straniamento ha fatto sì che dallo studio della tradizione marxista classica ed eterodossa scomparisse paradossalmente proprio il riferimento a Marx. Lo spazio del dibattito pubblico e della ricerca accademica si sono così polarizzati, contribuendo per un verso a circoscrivere lo studio diretto dell’autore all’interno di circoli di esclusiva ispirazione filologica e, per un altro, a trasmettere una figura di Marx stereotipata o pesantemente ipotecata da un gergo filosofico specifico.
All’interno di questo quadro, la recente pubblicazione del volume collettaneo The Aesthetic Marx, curato da Samir Gandesha e Johan Hartle, segna una novità significativa. Il volume, infatti, tenta di liberare il pensiero di Marx dalle strettoie interpretative della tradizione post-operaista così come da quelle del marxismo classico. Pur mantenendo con esse un dialogo proficuo, il tentativo del libro è di tornare a interrogare la filosofia di Marx direttamente e senza rigidi presupposti teoretici. Questo ritorno all’autore non vuole però limitarsi a un recupero solo filologico del testo, ma riaffrontarne il contenuto filosofico più autentico: come i due curatori scrivono nell’Introduzione, il volume cerca di superare le rigidità interpretative del marxismo, senza con ciò ricadere in un’analisi «puramente marxologica [marxological]» votata ad un «esercizio esegetico» (xiii) sui testi. Il volume riesce a far ciò articolando il discorso su Marx a partire da una questione specifica e squisitamente filosofica: quella estetica. Com’è noto, il pensiero di Marx non si occupa quasi mai esplicitamente di temi estetici in senso strettamente disciplinare: la scelta di trattare Marx a partire dal problema estetico potrebbe allora sembrare arbitraria o frutto di un vezzo interpretativo ma, come vedremo, la sua marginalità è solo apparente. Il tema estetico risulta significativo sul doppio versante della forma e del contenuto: non solo, infatti, un’analisi estetica e stilistica dell’opera di Marx è capace di gettare nuova luce su aspetti centrali del suo pensiero (uno fra tutti, il rapporto tra teoria e prassi) ma, come vedremo, il tema specificamente filosofico dell’estetico, considerato nella sua ampiezza, permette un accesso privilegiato al contenuto essenziale del pensiero marxiano. Bisogna poi sottolineare come, nonostante l’estraneità di Marx ai temi classici dell’estetica, per un «gran numero di marxisti culturali altamente educati del ventesimo secolo» (basti pensare a Lukács, a Benjamin o ad Adorno) la proficuità di un’interrogazione estetica in rapporto a Marx «poteva apparire quasi scontata» (xii). Come riconoscono esplicitamente i curatori, «la lista di teorici dell’estetica marxisti o ispirati dal marxismo […] è troppo lunga anche solo per essere accennata» (xii). Essi segnalano però come si sia troppo spesso data per scontata «l’identificazione di Marx con l’estetico» (xii), senza preoccuparsi di interrogare direttamente la questione del loro rapporto. Non è sufficiente «tradurre» le categorie proprie di Marx – come ad esempio “merce” o “feticismo” – in «termini estetici», applicandole al «campo dell’arte» (xii): in questo modo, infatti, la domanda intorno al senso che il problema estetico riveste in Marx resta inevasa. In altri termini, benché si sia assistito a una vastissima appropriazione delle categorie marxiane all’interno della riflessione sui fenomeni estetici, è mancata sino ad ora una messa a tema del rapporto specifico tra la questione estetica, compresa in senso ampio, e il pensiero di Marx. Facendo propria questa esigenza, il volume si pone in maniera diversa rispetto al marxismo classico: non compie un’analisi marxiana dell’estetica ma interroga direttamente il rapporto del suo pensiero con la problematica estetica, mettendo in discussione entrambi. Ciò non significa allora procedere a una «ricostruzione delle affermazioni esplicite di Marx a proposito di arte e letteratura» (xiii). Nel confronto con Marx anche la questione estetica come tale deve esser messa in discussione criticamente: ogni lettura puramente documentaria, infatti, non potrebbe che presupporre il problema estetico così come esso viene definito all’interno della divisione del lavoro filosofico, per poi rintracciarne la trattazione nel testo marxiano. Entrambi gli approcci, marxista e filologico, presuppongono allora l’estetica come quella «disciplina filosofica che riguarda le condizioni di possibilità dei giudizi di gusto […] e che si confronta con i criteri normativi per valutare le forme dell’esperienza e gli sviluppi artistici» (xiii). Rispetto a queste due opzioni interpretative, The Aesthetic Marx vuole mettere in gioco entrambi i poli senza presupporne nessuno: solo in questo modo, infatti, sarà possibile non solo scoprire in che misura il pensiero di Marx possa essere proficuo rispetto ai problemi di estetica, ma anche e soprattutto in che misura il problema estetico come tale si trovi ad essere trasformato a partire da un confronto con il contributo marxiano. Proprio in questa scelta ermeneutica risiede, a nostro avviso, la dimensione più originale e innovativa del volume: la capacità di mettere a tema e di trasformare i termini del problema estetico, aprendolo a nuove dimensioni inedite attraverso il confronto con Marx e, contemporaneamente, di scoprire nuove potenzialità del pensiero di Marx a partire da un’interrogazione estetica del suo pensiero.
Questa impostazione viene definita dai curatori come «meta-estetica» e «marxiana»: «meta-estetica», in quanto intende «andare oltre la fissazione sull’estetico così come appare sotto le condizioni di una formazione economico-sociale» (xiv), riscoprendo la centralità della dimensione sensibile e percettiva, recuperata nel campo semantico dell’aisthesis. Ciò significa mettere a tema sia la disciplina estetica (aesthetics), sia l’estetico (aesthetic), come modi della dimensione estesa del sensibile, mostrando come proprio il pensiero di Marx permetta una via di accesso privilegiata per un’articolazione dei due ambiti. In quest’ultimo senso deve essere intesa la qualifica «marxiana» data a tale impostazione: «questo libro», scrivono i curatori, «tenta di ricostruire uno spirito marxiano (inseparabile così com’è dalla lettera degli scritti di Marx)» e, allo stesso tempo, di mettere a tema «la formazione di oggetti estetici e del campo specifico dell’arte a partire da questo ampio orizzonte materialistico» (xiv). La dimensione materialistica dell’esperienza e la disciplina estetica vengono allora ricondotti ad un piano analitico comune, che si sviluppa a partire dal recupero feuerbachiano della sensibilità e delle qualità percettive radicalizzato dal giovane Marx. Ribadendo la centralità della dimensione corporea e sensibile dell’umano, la riflessione estetica marxiana permette di riconfigurare lo spazio estetico liberandolo da ogni riferimento normativo astratto. Per questo gli autori rilevano come il pensiero di Marx trovi la propria giusta collocazione al centro del «paesaggio post-nietzschiano del pensiero contemporaneo» (xiv), nel quale il rapporto tra la dimensione corporea e sensuale della percezione e i temi classici dell’estetica – come la natura del bello o la verità dell’arte – è divenuto problematico. L’estetica marxiana e l’operazione nietzschiana, pur nella loro radicale differenza, sono unite nel riportare la riflessione dal cielo delle idee di bellezza, forma e perfezione, verso la terra, a riscoprire il corpo e la sensibilità come sede autentica del sapere estetico.
La «versione di Marx dell’estetica» – intesa come antropologia materialista – eredita da Hegel una «visione storicizzante dell’organizzazione dei sensi e della relazione tra sensi ed intelletto» (xiv): questa storicizzazione del sensibile corporeo, se da un lato libera la riflessione sulla natura umana da ogni ipostatizzazione – comprese quelle di tipo naturalistico –, individua nell’estetico il campo strategico per descrivere e determinare i caratteri della stessa dimensione storica. Il modo di produzione capitalistico, fondato sul lavoro astratto e sulla forma merce, viene interpretato come regime estetico che modifica coercitivamente l’organizzazione sensibile dell’umano, configurandone modalità e funzioni. Per chi si confronta con i processi di disciplinamento e di formazione della sensibilità umana propri del modo di produzione capitalistico, l’ambito estetico diviene strategico non solo «come strumento analitico per semplicemente comprendere il capitalismo», ma anche «in termini normativi» (xxxix) come punto di raccordo del progetto di cambiamento sociale che il pensiero antropologico marxiano implica. In altri termini, un’estetica emancipata implica contemporaneamente un’umanità liberata e viceversa. Già nel Marx dei Manoscritti «la riflessione sulla storicità dei sensi umani è strettamente connessa ad un programma estetico-politico: “l’abolizione della proprietà privata è quindi la completa emancipazione di tutti i sensi e delle qualità umane”» (xxxix). Così come il lavoro salariato ottunde i sensi, il lavoro liberato li emancipa, riconsegnando all’uomo l’interezza di se stesso e del proprio operare. Il programma di un’umanità liberata coincide con quello di un libero gioco delle facoltà umane e della sua sensibilità. In questa rivendicazione è evidente l’ascendente esercitato sul pensiero di Marx dalla tradizione estetica classica tedesca. Anche questi temi vengono approfonditi nel volume: il saggio di Daniel Hartley, incentrato sul rapporto con Schiller, così come quello di Anna-Katharina Gisbertz, che analizza la posizione di Marx rispetto alla riflessione di Vischer, mettono a fuoco proprio gli stretti rapporti tematici, nonché i punti di rottura, con la riflessione estetica dell’idealismo e del classicismo tedeschi.
Nel momento in cui si sia affrontata adeguatamente un’analisi fenomenologica della sensibilità nel tardo capitalismo e si sia compresa la sua funzione coercitiva nei processi di soggettivazione, la riflessione sull’estetico nelle sue molteplici diramazioni acquisisce allora una valenza strategica. Il capitalismo istituisce una sua propria distribuzione del sensibile, stabilendo codici espressivi e strutturando la ricettività dei soggetti. Il volume si muove quindi in continuità critica con le riflessioni di Rancière: se, da un lato, gli autori riconoscono a Rancière di aver individuato il campo del sensibile come luogo di affermazione di un modo di vita – fatto di pratiche di soggettivazione e codici di espressione dei soggetti –, dall’altro ne criticano il rifiuto di ogni analisi sociologica ed economica del campo sociale che non ne riconosca il primato. Ranciére, infatti, critica Marx laddove i residui dialettici del suo pensiero sottometterebbero la molteplicità dei regimi estetici ad una dinamica economico-sociologica, riducendoli a mera sovrastruttura. I curatori del volume rivendicano invece la «fondamentale natura estetica del progetto di critica e di emancipazione sociale di Marx» (xliii), senza però «rifiutare in partenza, come sembra fare Rancière, un’analisi sociale scientifica dell’ineguaglianza sociale come riproduzione strutturale delle diseguaglianze discorsive» (xliii). In altri termini, per un’analisi radicale dei diversi regimi estetici nella società capitalistica è necessario ampliare lo sguardo prendendo in considerazione la totalità dei rapporti sociali. Invece che capovolgere l’opposizione tra struttura e sovrastruttura è piuttosto necessario dialettizzarla.
La prima sezione del volume affronta nei diversi saggi ospitati il tema estetico rispetto ad alcuni nodi essenziali del pensiero di Marx e, in particolare, rispetto al problema dell’emancipazione. Soprattutto il primo dei saggi, firmato da Samir Gandesha, tenta di fornire una panoramica del senso dell’estetico in Marx e delle sue trasformazioni. La prima considerazione è che, come abbiamo detto, l’estetico riacquista con Marx una significazione vasta, legata al campo ampio della sensibilità umana. A partire da qui vengono individuati tre momenti differenti di elaborazione dell’estetico nel pensiero marxiano: «la liberazione e la riconfigurazione della sensibilità umana» come «base per una concezione trasformata del lavoro» (17) nella critica a Hegel; il rapporto inscindibile tra trasformazione sociale capitalistica e riconfigurazione dello spazio del sensibile nel Manifesto; infine, il rapporto tra immaginazione estetica ed emancipazione, in particolare nel Diciottesimo Brumaio di Luigi Bonaparte. Come mostra Gandesha, la funzione e le potenzialità dell’estetico, pur cambiando di valore nel corso dell’elaborazione di Marx, mantengono però sempre un valore strategico irrinunciabile in tutti e tre i momenti presi in considerazione. Se nel Manifesto le trasformazioni repentine imposte dall’affermazione del modo di produzione capitalistico fanno cadere le illusioni, smascherando la realtà agli occhi delle persone e innescando un conseguente rivolgimento, nel successivo Diciottesimo Brumaio è piuttosto l’immaginazione di una «poesia del futuro» a ribadire la possibilità di una vera rivoluzione a venire, anche davanti alla ripetizione farsesca della Rivoluzione Francese messa in scena da Luigi Bonaparte. In entrambi i casi è il piano estetico della rappresentazione, della finzione e dell’immaginazione a configurare lo spazio di affermazione dell’intero sociale in cui si inserisce l’azione del proletariato. Anche gli altri contributi insistono nel mostrare come il pensiero di Marx, sia rispetto alla tradizione filosofica classica (ad esempio Aristotele nell’articolo di Henry W. Pickford), sia rispetto ad altre correnti del pensiero contemporaneo (ad esempio Freud nell’articolo di Johan F. Hartle), individui nel campo estetico un luogo strategico di lettura e di critica della realtà. L’analisi della forma merce – affrontata nel contributo di Sami Khatib concernente Marx e Benjamin – non può prescindere da un’analisi estetica del rapporto di reciproca estraneazione tra valore d’uso sensibile e astrazione del valore di scambio. La forma merce contiene in sé tre dimensioni distinte: la forma sensibile della merce, il valore di scambio astratto e i rapporti materiali di produzione che essa nasconde. Un’analisi che li voglia comprendere nella loro reciprocità non può non considerare anche il piano estetico, nella misura in cui la merce viene definita, proprio da Marx, come «cosa sensibile sovra-sensibile» (56). I rapporti sociali in essa contenuti non appaiono come tali, ma sussistono come lavoro astratto nella forma sensibile della merce. Un’estetica del mondo delle merci implica allora un superamento dell’estetica come «filosofia delle belle arti, del giudizio estetico del bello, o delle forme trascendentali della sensibilità» (68), per costituirla piuttosto come strumento della comprensione dei rapporti sociali e dei loro modi di apparizione. Un’estetica di questo tipo diviene strategica in quanto, riferendosi «all’interezza delle relazioni verticali e orizzontali di astrazione e significazione» (69), riesce ad articolare i diversi momenti del mondo capitalistico del consumo.
Ma una comprensione adeguata del tema estetico investe non soltanto il contenuto del pensiero marxiano ma, in maniera altrettanto importante, anche la sua dimensione formale. Alcuni dei contributi della seconda sezione del volume (in particolare quelli di Hyden White e di Terrel Carver) sono dedicati proprio ad un’analisi stilistica e performativa dell’opera di Marx. Dalla lettura del saggio di Carver, ad esempio, risulta evidente come nella scelta stilistica di sostituire al libro o al trattato il pamphlet, il manifesto o il resoconto giornalistico si esprima un’esigenza fondamentale e nient’affatto frivola. Tale esigenza, pur agendo sulla forma estetica, investe immediatamente il rapporto tra teoria e prassi, cambiando materialmente la posizione del filosofo rispetto alla dinamica sociale. La scelta stilistica permette allora di comprendere il passaggio alla prassi nella sua concretezza, al di là di ogni sua invocazione ancora una volta esclusivamente teorica: non a caso, la forma giornalistica privilegiata da Marx come azione militante di intervento teorico nel corpo della società sarà di esempio per molte figure centrali del primo marxismo, da Lenin a Gramsci. Il saggio di Terrel Carver, che mette a tema lo stile di Marx nel Diciottesimo Brumaio di Luigi Bonaparte, chiarisce in maniera inequivocabile che cosa significa «l’estetica come pratica», come «modalità di intervento politico» (150). Anche il saggio di White, che analizza il discorso storico di Marx attraverso le forme retoriche che esso impiega, mostra come la forma del discorso marxiano permei essenzialmente la sua concezione di fondo della dinamica storica. In entrambi i casi la dimensione formale ed estetica impatta direttamente sul contenuto e sull’effettualità della teoria, dimostrandosi così come elemento essenziale ed imprescindibile di ogni comprensione del pensiero di Marx.
La terza sezione, infine, si caratterizza per l’originale tentativo di considerare la presenza di Marx all’interno delle stesse pratiche artistiche, mostrando l’organicità del progetto di trasformazione sociale delineato da Marx con una riconfigurazione concreta delle pratiche estetiche. In particolare il primo saggio di Boris Groys, che analizza le avanguardie sovietiche e il loro sviluppo, sottolinea come proprio il necessario confronto con l’ambizione marxiana di una trasformazione radicale del campo sensibile abbia portato queste correnti a mettere progressivamente in discussione il senso e la posizione dell’opera d’arte nella società. L’aspetto più interessante messo a fuoco da Groys non sta soltanto nel superamento sovietico della posizione individualista dell’artista borghese, sostituita dall’artista “produttore” situato all’avanguardia del cambiamento sociale, quanto piuttosto nel riconoscimento dell’impatto marxiano sulla pratica e sulla forma artistica stessa di queste avanguardie. Infatti «Marx ed Engels richiedevano e predissero lo spostamento dalla contemplazione dell’opera d’arte individuale verso una riflessione del contesto della loro produzione, distribuzione, successo di pubblico e così via» (187): proprio questa autoriflessione sulle pratiche e lo spostamento da un paradigma rappresentazionale dell’arte – proprio dell’opera individuale da contemplare – ad uno performativo – caratteristico dell’installazione e della performance – saranno i punti sui quali si innesterà l’avanguardia non solo sovietica ma dell’intero Novecento. Più in generale, i saggi della terza sezione sottolineano come il confronto con Marx abbia costretto le pratiche artistiche a confrontarsi con quanto esula da una concezione strettamente rappresentazionale dell’opera: pubblico, mercato, forme della presentazione dell’opera, politica ecc. Ogni ambito dell’intero sociale, compreso il mondo dell’arte stesso con i suo rituali e le sue istituzioni, entra a far parte della riflessione artistica mettendone in questione il primato e l’autonomia. Per questo, scrive Hartle nel saggio conclusivo dedicato alla presenza di Marx nell’arte contemporanea, le opere che si richiamano esplicitamente alla sua figura lo fanno utilizzandola come «metonimia per la critica istituzionale dell’arte contemporanea, nella sua natura commerciale o nel suo carattere di classe» (266).
Il volume The Aesthetic Marx presenta, oltre ai contributi esplicitamente citati qui, molti altri saggi degni di nota: in questa breve disanima abbiamo cercato, per quanto possibile, di restituire quello che crediamo sia il carattere complessivo del libro, piuttosto che intraprendere una ricognizione tematica dei singoli lavori. Si è scelto di operare in questa maniera per rispondere a quella che ci è parsa l’ambizione dei curatori di inaugurare una prospettiva che, nella molteplicità delle eventuali declinazioni, mantenesse un’unità d’intenzione e d’interpretazione. A questa intenzione corrisponde però un risultato estremamente composito e variegato, sia per scelta tematica che per giudizio interpretativo. All’unitarietà e alla solidità ermeneutica espressa nell’Introduzione dai curatori, corrisponde un insieme meno coerente di quello che essa lascia intendere: quest’ultimo aspetto, però, non deve esser considerato uno svantaggio o una pecca; anzi, proprio la molteplicità d’interpretazioni e di modulazioni che il pensiero di Marx ispira rispetto alla questione estetica, testimonia ancora una volta della ricchezza del suo pensiero e dell’attualità delle sue categorie interpretative. Soprattutto, testimonia della proficuità dell’intuizione fondamentale del libro: interrogare Marx e l’estetica rimettendo entrambi in discussione. Se, infatti, il Marx che esce da questo volume mostra una molteplicità di sfaccettature inaspettate, altrettanto la disciplina estetica ne esce trasformata. Dalla sua lettura risulta chiaro come solo un’estetica che recuperi l’ampiezza di sguardo implicata dal campo semantico dell’aisthesis – ossia di interrogazione del sensibile in senso lato – risulti adeguata a comprendere non solo i prodotti artistici ma, più in generale, l’esperienza della nostra epoca. Come affermano i curatori in apertura del libro, «il capitalismo è divenuto estetico […] nella misura in cui la produzione del valore ricorre massicciamente a “industrie creative”, al lavoro di “classi creative”, a strategie estetiche di distinzione e di modulazione degli affetti» (xi): proprio per questo, allora, un’estetica trasformata dal confronto con Marx può essere un primo passo per restituire alla filosofia la capacità di pensare la concretezza del vivere sociale, senza attardarsi in speculazioni autoreferenziali, sempre meno capaci di «apprendere il proprio tempo nel pensiero».
* Rolando Vitali attualmente è Fellow in Residence presso l’Archivio Nietzsche di Weimar e dottorando all’Università di Jena.
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