La diversa logica del maggioritario e del proporzionale
di ALDO GIANNULI
I partiti italiani, con il passaggio al nuovo sistema elettorale, avrebbero dovuto passare da una logica maggioritaria ad una logica proporzionale, cercando in Parlamento le alleanze necessarie, questo non è accaduto. Perché? La risposta è molto semplice: perché un partito educato da un sistema maggioritario, ha un modo di essere e di pensare completamente diverso da quello di un partito che agisce in regime proporzionale: cambiano le strategie comunicative, la cultura politica, il rapporto con l’elettorato, soprattutto il modello organizzativo; passare da un modello all’altro non è affatto semplice ed indolore. Per capirlo vale la pena di analizzare la diversa logica dei due sistemi.
Nel sistema parlamentare-proporzionale non è affatto necessario ottenere la maggioranza assoluta o relativa di voti e seggi, quanto, piuttosto, il grado di “coalittività”, cioè la capacità di comporre una coalizione che abbia un numero sufficiente di seggi (qui ragioniamo al netto delle diverse forme costituzionali come il cancellierato tedesco che prevede governi di minoranza e sfiducia costruttiva). Quello che garantì alla Dc 45 anni di governo fu la sua maggiore capacità di trovare alleati (di volta in volta Pli, Psdi, Pri, Psi, monarchici) rispetto al Pci che ebbe sempre pochissimi partiti disposti ad allearsi con lui (essenzialmente i socialisti, prima del Psi, poi del Psiup).
Ne deriva che i partiti tendono ad un modello di comunicazione meno “generalista” e più mirato a raccogliere il consenso di gruppi particolaristici qualificati (coltivatori diretti, professionisti, insegnanti, artigiani, minoranze religiose, particolari aree culturali eccetera).
Ovviamente i partiti più grandi si orienteranno verso i gruppi sociali maggiori (ad es. pubblico impego in blocco, oppure commercianti o artigiani organizzati nelle rispettive formazioni di categoria) ed al maggior numero di gruppi sociali possibili, per cui essi riserveranno pur sempre una quota del proprio discorso politico ad un approccio generalista, ma coltivando rapporti privilegiati con questa o quella categoria. Questo perché, per quanto l’ipotesi di ottenere il 51% sia molto remota, il partito maggiore si batte per ottenere il maggior numero di voti possibile che lo ponga in buona posizione per conquistare la guida del governo. Al contrario, il partito minore sa di non avere probabilità di conquistare la guida del governo (salvo situazioni eccezionali come, ad esempio, il governo Spadolini) pertanto è meno attento al discorso generalista che coltiverà solo limitatamente, e punterà le sue carte sulla rappresentanza di un determinato gruppo sociale circoscritto e qualificato (ad esempio i professionisti o gli operatori di borsa o una particolare categoria di operai) o un particolare territorio. Il partito minore sa di avere un ruolo ancillare, ma gioca sulla possibilità di essere il “partner marginale” cioè quello determinante per una particolare formula di maggioranza ed alzare il prezzo.
Ne consegue che tanto i partiti maggiori quanto quelli minori non puntano ad allargare il proprio seguito elettorale oltre misura e si concentrano sull’elettorato “simpatizzante”, meno distante e più facile da conquistare, destinando all’elettorato più lontano e difficile (antipatizzante) una attenzione residuale o magari lasciandolo a qualche alleato più digeribile da parte dell’elettorato ostile (la Dc sapeva di avere poche speranze di conquistare un elettore laico e delegava questo compito a repubblicani, liberali o socialdemocratici). Pertanto, nella competizione proporzionale, ciascun partito curerà la maggiore precisione della sua comunicazione, cercando di realizzare il massimo di seduttività sull’elettorato gardè, mentre i messaggi diretti all’elettorato lontano saranno in secondo piano, meno efficaci e più generici.
Contrariamente a quanto la vulgata maggioritaria di questi anni ha sostenuto, i partiti minori, in un regime proporzionale, non sono meri elementi di frammentazione della rappresentanza, nicchie particolaristiche che ostacolano e rallentano la formazione di una maggioranza solida. Al contrario, essi hanno la funzione di “fluidificare” la rappresentanza politica e creare più facilmente una coalizione di maggioranza. Infatti, tanto nei regimi proporzionali quanto in quelli maggioritari, la “regola” non è quella delle “grandi coalizioni”, per la banale ragione che i partiti maggiori, normalmente, sono alternativi fra loro ciascuno aspira all’egemonia nella coalizione e, dunque, sono più difficilmente alleabili. Dunque, nel regiome maggioritario la soluzione è quella di trasformare la maggioranza relativa (cioè la minoranza più grande) in maggioranza assoluta, mentre ne proporzionale la soluzione è quella della più efficace politica delle alleanze, attirando intorno al partito maggiore una quantità sufficiente di partiti minori.
E’ per questo che il sistema proporzionale è più propenso a valorizzare il principio di rappresentanza, la positività del conflitto sociale e la mediazione politica. Inoltre, nel regime proporzionale (normalmente accoppiato al sistema parlamentare) l’opposizione non è del tutto esclusa dal processo governativo: ci sono terreni di condivisione (spesso lo è la politica estera) ma, attraverso i regolamenti parlamentari e le commissioni, c’è una continua dialettica fra maggioranza ed opposizione che porta in diversi casi a testi di legge unificati o emendati. Anche nel periodo più acuto della guerra fredda, il Pci ottenne in diverse occasioni l’approvazione di proprie proposte di legge o l’istituzione di commissioni parlamentari di inchiesta o di indagine.
Questa esigenza di mediazione politica spinge i partiti a preparare progetti molto elaborati, che bilancino gli interessi particolaristici fra loro e rispetto al “progetto paese”, che ogni partito cerca di proporre in modo dettagliato, perché nella competizione proporzionale paga il progetto che appaia come il più concreto, preciso ed articolato, più capace di raggiungere i diversi strati sociali e sollecitarne il consenso Dunque, il partito del sistema proporzionale ha due caratteristiche: la preminenza dell’elaborazione politica rispetto alla comunicazione (che pure ha una sua importante funzione) ed una partecipazione di base forte e continua. Infatti, il contatto con i diversi gruppi sociali, più che alla comunicazione mediatica è affidato alla partecipazione dei suoi militanti alla vita dell’associazionismo di categoria, ai movimenti sociali in atto eccetera.
Completamente diversa è la logica del sistema maggioritario che si basa sull’idea di trasformare una maggioranza relativa in una maggioranza assoluta e, dunque, sacrifica una quota di rappresentanza per favorire la decisione, nel presupposto che una compagine governativa più coesa esprima un indirizzo politico più omogeneo e processi decisionali più rapidi.
Nel maggioritario l’essenziale è conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. In alcuni casi questo coincide con la maggioranza relativa dei voti cui si aggiunge un premio di maggioranza, ma, nel caso di un maggioritario su collegi uninominali non è neppure necessario avere la maggioranza relativa dei voti, perché è possibilissimo che un partito con meno voti ottenga più seggi: se il partito A ottiene la maggioranza dei voti, perché vince di larga misura in pochi collegi, mentre il partito B vince di stretta misura nella maggior parte dei collegi ed arriva secondo nella somma nazionale dei voti, a vincere è il partito B che ottiene più seggi. Ne consegue che in ogni caso i partiti tenderanno ad allargare al massimo il loro raggio di azione includendo nelle proprie fila esponenti dei più diversi orientamenti politici, in modo da pescare nella maggior parte dell’elettorato. Il partito da competizione maggioritaria, è una coalizione in sé, la differenza rispetto alle coalizioni del proporzionale sta nel fatto che qui c’è un vincolo disciplinare per cui il partito resta coeso (o così dovrebbe essere) anche in presenza di dissensi interni.
Pertanto, il partito del maggioritario, al contrario di quello da competizione proporzionale, non può concentrarsi solo sull’elettorato più vicino, ma deve cercare di sfondare anche in quello “antipatizzante” che deve sottrarre nella maggior quantità possibile al suo avversario e, vice versa, deve curarsi che il suo competitore non faccia breccia sul suo elettorato, magari perché una sua frangia è ostile a qualche proposta particolare del proprio programma. Questo ha due conseguenze: in primo luogo il programma dovrà rivolgersi alla maggior parte dell’elettorato e dovrà evitare punte che possano urtare particolari nicchie elettorali. La soluzione sta in un programma prevalente mente generalista, assai vago e retto da uno “slogan di trascinamento” (il milione di posti di lavoro di Berlusconi, gli 80 euro di Renzi, la Flat Tax del centro destra o il reddito di cittadinanza dei 5 stelle eccetera). La seconda conseguenza è che proprio la vaghezza del programma e il carattere composito degli esponenti del partito, spinge a cercare il punto di unificazione della figura del capo, cui è demandato il compito di “incarnare” lo spirito del partito, garantirne l’unità e sciogliere le ambiguità e vaghezze del programma con le sue decisioni dopo la vittoria.
Dunque lo spirito del maggioritario è quello di esaltare al massimo la delega ai governanti, l’esatto contrario della democrazia diretta ed una concezione molto restrittiva anche della democrazia rappresentativa, quasi una cosa a metà strada fra essa e la dittatura temporanea. Per questo, la comunicazione politica, nel maggioritario, ha un ruolo preminente sull’ideazione politica: il suo compito è presentare il messaggio del partito nel modo più suggestivo, proprio per colmare “buchi” e vaghezze del programma e la risorsa estrema sarà quella della pubblicità negativa contro l’avversario costantemente demonizzato. Il messaggio implicito sarà sempre “Anche se il mio programma non ti convince, votami perché l’altro è peggiore: votami per non far vincere il mio nemico che è in assoluto peggiore di me”. Dunque, il confronto politico gradualmente cederà il passo allo scontro sulle caratteristiche personali dei due capi coalizione, allo scandalismo eccetera.
Riassumendo: il sistema maggioritario (e la forma presidenziale del governo cui spesso sii accompagna) privilegia la decisione sulla mediazione, esalta l’autonomia del ceto politico rispetto alla rappresentanza del corpo elettorale, esalta il momento generalista rispetto al consenso sociale qualificato e, di riflesso, deprime la conflittualità sociale e il ruolo dei corpi intermedi (associazioni di categoria, sindacati, ecc.) rispetto alla comunicazione mediatica.
Ne derivano ulteriori differenze fondamentali. Se il sistema proporzionale privilegia il ruolo del partito come aggregatore della domanda politica e, pertanto produce partiti a gruppo dirigente collegiale, al contrario, il sistema maggioritario esalta il ruolo del singolo capo: l’”uomo forte” che incarna il progetto del partito e che “sa comunicarlo” meglio degli altri, pertanto lo stesso partito viene ridotto alla funzione di comitato elettorale di supporto al capo attivo solo in campagna elettorale e pertanto è incline ad una passivizzazione dei cittadini: la partecipazione politica è sempre più ridotta all’attimo in cui il cittadino deposita la sua scheda nell’urna.
Fonte: http://www.aldogiannuli.it/la-diversa-logica-del-maggioritario-e-del-proporzionale/
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