Torniamo al finanziamento pubblico ai partiti: la politica senza soldi è la fine della democrazia
di LINKIESTA (Francesco Cancellato)
Senza denaro la politica è impotente. In balia di finanziatori che la condizionano, o costretta a raccattare consenso promettendo sciocchezze. È ora di dirlo, è bene che sia pagata (e controllata) dai cittadini
«Il M5S ha indicato una terza via tra finanziamento pubblico e strapotere delle lobby: una politica senza soldi». Così parlava Luigi Di Maio, ministro dell’economia e capo politico del Movimento Cinque Stelle, lo scorso 7 febbraio, nel contesto di un articolo che puntava l’indice contro i rimborsi elettorali, l’unica forma rimasta di finanziamento pubblico alla vita politica.
È tutto giusto, in linea di principio: come si fa a parlare male di un ristorante che ti regala il cibo, o di un qualunque servizio che non costa nulla? Peccato che Di Maio ometta un particolare che forse dovrebbe cominciare laicamente a prendere in considerazione, ora che da anti-sistema è diventato leader del primo partito italiano: la politica senza soldi non funziona, forse nemmeno esiste. Una politica che dipende dai soldi privati nella definizione della sua agenda e nella selezione della classe dirigente diventa subalterna ai poteri economici e alle bizze dell’opinione pubblica. In un mondo normale, bisognerebbe tornare senza esitazione al finanziamento pubblico dei partiti, prima possibile.
Primo: perché una politica finanziata interamente dai soldi dei privati cittadini è una politica opaca e permeabile agli interessi di chi la finanzia. Lo dice il caso Parnasi, che ha scoperchiato un sistema di finanziamento delle campagne elettorali e all’attività politica che l’immobiliarista romano organizzava un po’ per tutti, per ricevere in cambio favori. Ma lo dice anche Openpolis, che ha censito ben 102 fondazioni nate in questi anni col preciso scopo di finanziare l’attività politica di questo o quel partito, di questa o quella corrente, tra le quali solo una su dieci mette online il proprio bilancio, e una su cinque l’elenco dei suoi finanziatori. Lo dice – meglio, lo sussurra – chi ti fa notare che non esista, in Italia, una legge che impedisca che la politica italiana sia finanziata da Paesi o società estere. Lo dice, chi racconta di una legge sbagliata come quella licenziata dal governo Letta, che permette a chi fa donazioni alla politica tra i 5mila e i 100mila euro a rimanere anonimo. Lo dice il fallimento della raccolta del 2 per mille ai partiti in dichiarazione dei redditi, che diminuisce di anno in anno e che ha ridotto del 61% le risorse a disposizione delle forze politiche.
Mangeranno di meno, direte voi, come se l’indigenza fosse automatica precondizione di una politica francescana, a servizio del bene e del prossimo. No, non è così, non è mai stato così, in nessun posto. Una politica senza soldi – secondo punto – è una politica per chi se la può permettere: gente ricca, o gente che ha alle spalle ricchi finanziatori da cui finisce per essere teleguidata
Mangeranno di meno, direte voi, come se l’indigenza fosse automatica precondizione di una politica pura, francescana, a servizio del bene e del prossimo. No, non è così, non è mai stato così, in nessun posto.
Una politica senza soldi – secondo punto – è una politica per chi se la può permettere: gente ricca, o gente che ha alle spalle ricchi finanziatori da cui finisce per essere teleguidata. Prendetelo come dato empirico, ma il progressivo scadimento qualitativo della classe politica italiana, dalla prima alla seconda, e dalla seconda alla terza repubblica è anche figlio di questo meccanismo malato di selezione della classe dirigente, non più per merito, ma per conto in banca.
In questo senso, è vero, il Movimento Cinque Stelle rappresenta un’anomalia, o quanto meno – per dirla alla Di Maio – una terza via. Ma a ben vedere, è esso stesso un’aberrazione. Perché di tutti i sodalizi politici è il meno trasparente di tutti, privo di ogni autonomia, eterodiretto per definizione statutaria da un sito internet che media le votazioni online di una popolazione digitale di cui potrebbe possedere ogni dato sensibile e da una società privata che quel sito internet, quell’algoritmo, quei dati li possiede e li gestisce. Legittimo o meno che sia, non modelleremmo un intero sistema politico sull’esperimento della Casaleggio Associati. Semmai, lavoreremmo per far sì che quel sistema, prima o poi, rientri nell’alveo di una qualsivoglia normalità.
Terzo: più la politica è povera, più dipende dal consenso. Bella forza, direte voi, la politica vive di consenso. Certo, ma una politica autonoma e ricca è in grado di produrre idee anche senza poltrone sotto il sedere, mentre una politica povera e affamata di consenso è costretta a recuperare le idee più cialtrone – non importa se realizzabili o meno – per garantirsi posti, soldi e potere.
Col rischio, concreto, di auto-delegittimarsi quando le promesse raccolte da terra, guarda un po’, diventano improvvisamente bufale o chimere.
Non è un caso, nemmeno un po’, che, senza finanziamento pubblico, la politica abbia perso status e legittimazione, anziché guadagnarne. Per la gioia di altri poteri, da quelli economico-finanziari, a quello giudiziario, che hanno beneficiato (e soffiato sul fuoco) di questa delegittimazione. Ecco, sarebbe bene ricordare che chi paga ha anche il diritto di controllare. Nel caso dell’attività politica forse è il caso che ricominciamo a pagare (e controllare) noi.
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