Non c’è un’ideologia vera e propria che si opponga a quella neoliberista, ci sono però inizi di movimenti in senso opposto.

Il neoliberismo è ‘mercatocentrico’ e un’ideologia contraria dovrà essere ‘antropocentrica’.

Il prima possibile sarà necessario elaborare una nuova visione del mondo che si opponga a quella neoliberista, i vari movimenti di contrasto che sono stati complessivamente e riduttivamente definiti “populismi” hanno avuto la capacità di individuare dei chiari “No” che andavano detti, ma poiché non si è ancora sviluppata la consapevolezza che il neoliberismo è un’ideologia, questi “No” si configurano come delle scelte prese in ordine sparso e nel migliore dei casi in attesa di essere inquadrate in una visione generale.

La dottrina thatcheriana del TINA (There Is Not Alternative), strettamente legata alla visione tecnocratica e scientista della realtà che finisce con l’affermare come slogan universale “la scienza non è democratica”, ha imposto l’idea che l’attuale modello neolibersita, che va visto come il naturale sviluppo del darwinismo sociale, sia una realtà naturale e immodificabile alla quale ci si può solo rassegnare e adattare nel modo migliore possibile. Se il frame nel quale la reazione si muove resterà invariato alla lunga questa potrà apparire solo come una battaglia nella quale si potrà riportare la massimo qualche vittoria parziale.

Un’intuizione della direzione su cui muoversi per contrastare il neoliberismo è emersa in questi ultimi tempi ed è visibile nelle decisioni sul “decreto dignità” e nella proposta di limitazione delle aperture domenicali, su questi due punti si gioca un confronto fondamentale tra una visione “mercatocentrica” e una “antropocentrica”, si decide se la realtà debba ruotare intorno al meccanismo competitivo del mercato e alla cultura del consumo, o intorno al benessere della persona con i suo bisogni più profondi come quello di vivere i rapporti famigliari o il tempo dell’ “otium”.

Scorrendo l’hastag #Chiusuredomenicali emergono con evidenza due schieramenti nettamente contrapposti tra loro che vedono da una parte chi difende il proprio “diritto” agli acquisti senza limiti di tempo e dall’altra chi difende il diritto ad una vita non sottomessa se non proprio sacrificata al lavoro: non è questione di avere torto o ragione ma di scelte antropologiche, gli uni difendono l’uomo come  un edonistico consumatore di merci mentre gli altri l’uomo come fine ultimo di ogni politica e mai mezzo per uno scopo altro che sia esso il mercato o uno stato Leviatano.

Decenni di suggestioni e di azione di media allineati al consumismo, affermatisi nell’inconsapevolezza generale nonostante l’allarme disperato e inascoltato di Pasolini, hanno portato al consolidamento di un substrato culturale che vede come fatto naturale e inevitabile (forse per molti anche desiderabile) che il fine dell’esistenza sia il consumo e la competizione.

Una reazione intuitiva all’ideologia nascosta che come ultima astuzia ha avuto quella di far credere di non esistere, ha avuto un avvio sotto la pressione delle sofferenze generate dal sistema ma non può bastare, adesso siamo chiamati a darle un supporto filosofico adeguato per rendere possibile una rivoluzione culturale e antropologica o se vogliamo, un cambio di paradigma.