Sembra quantomeno curioso il fatto che l’esito di una consultazione elettorale in un piccolo Stato, addirittura privo di sbocco al mare, possa avere delle ripercussioni a livello globale. Tuttavia, l’elevato numero di attori internazionali interessati all’esito del voto dimostra ulteriormente l’assoluta centralità geopolitica che l’intera regione balcanica continua a rivestire nel più complesso ed articolato scontro egemonico tra l’Eurasia e l’Occidente a guida nordamericana. Una centralità che per tutto il corso degli anni Novanta del secolo scorso portò alla sanguinosa parcellizzazione della Federazione jugoslava in tutta una serie di Stati nella maggior parte dei casi privi di reale sovranità, di reale indipendenza politico-economica e, talvolta, anche di reale identità (si veda il caso emblematico della Bosnia-Erzegovina).
Tale parcellizzazione, come ebbe modo di osservare il geopolitico francese François Thual, rispondeva alle necessità egemoniche nordatlantiche di controllo di una zona geo-economica intermedia tra il Vicino Oriente, Il Mar Nero ed il Mar Adriatico che avrebbe dovuto accogliere il terminale per il trasferimento delle ricchezze di gas e petrolio dell’Asia centrale (sottratte al dominio esclusivo sovietico con il crollo dell’URSS) e dello stesso Vicino Oriente (zona petrolifera di primaria importanza nell’economia mondiale).
Nonostante il mutato scenario geopolitico che ha visto l’importante rafforzamento delle posizioni russe nel Vicino Oriente e la rapida affermazione dell’idea di un ordine mondiale multipolare, negli anni recenti, il piano NATO per il controllo totale dell’area balcanica sta diventando lentamente realtà. Ed i progetti per i gasdotti TAP e TANAP (che dovrebbero collegare l’Azerbaigian all’Europa mediterranea attraverso Turchia, Grecia ed Albania e, nel caso del TANAP, anche attraverso la Macedonia), caldamente sostenuti dall’amministrazione Trump come parte del sistema per sganciare la “capricciosa” colonia Europa dalla dipendenza energetica dalla Russia, rientrano in questa dinamica.
Dopotutto, la penisola balcanica, già nel corso del XIX secolo, rappresentò, nel contesto della lenta ed inesorabile decostruzione dell’Impero ottomano, il terreno di scontro tra tendenze geopolitiche opposte decise a sfruttare per i propri interessi il risveglio (se non la vera e propria creazione a tavolino) dei sentimenti nazionalistici dei popoli slavi. A questo processo non fu estraneo nemmeno il territorio che oggi corrisponde alla Repubblica di Macedonia. Nel 1845 lo studioso russo Victor Grigorovic intraprese un viaggio nei Balcani per studiare i dialetti slavo-meridionali e fu il primo a descrivere due distinti dialetti bulgari: uno occidentale ed uno orientale. Kriste Misirikov, nato a Pella, nella Macedonia greca, fu il primo a definire il bulgaro occidentale come “macedone” e, nella sua opera del 1903 Za Makedonckite Raboti (Delle opere macedoni), affermò la necessità della creazione di una lingua letteraria macedone uniformata.
Ad oggi, risulta quantomeno problematica l’individuazione di una reale identità macedone. In termini linguistici l’idioma è mutualmente intelligibile col bulgaro. Ed ogni tentativo di associare gli attuali macedoni, anche considerato il peso dell’importante minoranza etnica albanese, con i macedoni di Filippo e Alessandro Magno, più che una forzatura, sembrerebbe una totale negazione della verità storica. Di fatto, anche la creazione dell’attuale Repubblica di Macedonia, più che corrispondere alla necessità dell’affermazione politica di un gruppo sociale caratterizzato da una specifica identità etnica, nazionale e confessionale, avrebbe risposto maggiormente alla volontà deliberata di una potenza egemone interessata a strumentalizzare ogni forma di particolarismo allo scopo di stivare meglio il proprio dominio politico ed economico.
Ora, quasi paradossalmente, il caso macedone riflette in scala ridotta ciò che in modo molto più ampio sta avvenendo nel contesto europeo dove l’attuale Unione “tecnocratica” (in larga parte una creazione nordamericana) non corrisponde più agli interessi strategici del centro. Ergo, se ne rende necessaria la de-strutturazione sfruttandone le cosiddette “forze sovraniste”. Non è un caso se solo un anno fa, nel momento più drammatico della crisi successiva all’ultima tornata elettorale, quando il Paese oscillava pericolosamente tra l’allineamento all’Occidente ed un sistema di alleanze ad esso ostile, Dana Rohrabacher, Chairman US Foreign Affairs Subcommittee on Europe, Eurasia and Emerging Threats, dichiarò apertamente che dal suo punto di vista il territorio della Macedonia doveva essere spartito tra le nazioni confinanti.
Il fallimento del referendum consultivo di domenica 30 settembre sugli accordi di Prespa (solo il 34% degli aventi diritto si è recato alle urne), riaprendo il suddetto scenario, rischia di intensificare nuovamente il contesto di perenne crisi politica e destabilizzazione nel quale il Paese si trova da oltre un anno e mezzo anche, e soprattutto, a causa delle gravi ingerenze esterne che ne hanno caratterizzato la politica interna sin dal suo atto di nascita nel 1991. Quando la regione ottenne l’indipendenza dalla Jugoslavia a seguito di un referendum al tempo boicottato dalle componenti serba e albanese della popolazione.
A dimostrazione di quanto appena affermato, dopo le elezioni politiche del dicembre 2016, il presidente Gjorgje Ivanov venne costretto dalle insistenti pressioni internazionali di UE ed USA ad affidare, dopo diversi mesi di stallo, l’incarico di formare il governo al leader europeista e filo-atlantista del Partito socialdemocratico (SDSM) Zoran Zaev, che si era presentato alla tornata elettorale in coalizione con il DUI (Partito di riferimento della minoranza albanese). Coalizione che, in quell’occasione, ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento (59 seggi contro i 51 dell’opposizione).
La riluttanza nel conferire l’incarico di governo da parte del presidente che, a prima vista, sarebbe potuto apparire come un atteggiamento completamente antidemocratico, aveva, al contrario, delle motivazioni ben più profonde e valide di quanto si potesse immaginare. Il presidente Ivanov giustificò tale riluttanza affermando che il conferimento del mandato all’allora leader dell’opposizione Zaev avrebbe potuto esacerbare ulteriormente la frammentazione delle linee etniche interne allo Stato. Sul territorio della repubblica balcanica sono presenti infatti all’incirca 509.000 albanesi (il 27% della popolazione totale) contro 1.300.000 macedoni, a cui si aggiungono diverse altre minoranze, seppur estremamente circoscritte. Il presidente, inoltre, rivendicò la sua decisione in base all’articolo 84 (paragrafo 1) della Carta Costituzionale secondo il quale solo la più alta carica istituzionale può fornire il mandato per la formazione del governo.
Di fatto, l’alleanza tra SDSM e DUI si fondava sul rispetto, una volta giunti al governo, di una piattaforma politica, nota come Tirana Platform, realizzata a Tirana tra rappresentanti politici della minoranza albanese in Macedonia e lo stesso primo ministro albanese Edi Rama. Tale piattaforma prevedeva il riconoscimento dell’albanese come lingua ufficiale della Macedonia (alla pari del macedone), una complessa riforma giudiziaria, nonché il rapido ingresso del paese nell’UE e nella NATO.
Nonostante l’avversione per il leader socialdemocratico, il presidente Ivanov, pressato dalle istituzioni internazionali, non poté far altro che affidare l’incarico di governo a Zaev che divenne primo ministro nel maggio del 2017, a cinque mesi di distanza dalle elezioni. Tuttavia, la frattura tra le due autorità politiche del Paese è rimasta inalterata ed è riesplosa con forza nel momento della firma dei già citati accordi di Prespes per la risoluzione della quasi trentennale controversia sul nome con la Grecia. Risoluzione che, qualora approvata, consentirebbe alla Macedonia, accettando la denominazione di Repubblica della Macedonia del Nord, di intavolare i negoziati per l’adesione all’UE ed alla NATO. A questo accordo il presidente Ivanov si è opposto da subito con forza definendolo una flagrante violazione della sovranità nazionale e sostenendo incessantemente il boicottaggio del referendum insieme al partito di opposizione VRMO-DPMNE (Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone – Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone) guidato da Hristijan Mickoski.
Seppur di natura solo consultiva, il fallimento del referendum ha rappresentato una doppia sconfitta sia per Zaev quanto per il primo ministro greco Alexis Tsipras visto che l’assecondare la doppia pressione UE-NATO sull’accordo gli aveva consentito la ristrutturazione del debito con Bruxelles e, con esso, i trionfali quanto irrealistici proclami di liberazione della Grecia dal “cappio” della troika. Di fatto, Tsipras, eletto con grandi speranze dal popolo greco, si è rivelato solo capace di implementare i dettami dei tecnocrati di Bruxelles e di ancorare sempre di più il Paese al Patto Atlantico (la Grecia, a dispetto della grave crisi economica, è uno dei pochi paesi dell’Alleanza che rispetta l’impegno di destinare il 2% del PIL alle spese militari) ed all’Occidente a guida statunitense, anche stabilendo un quantomeno inconsueto asse geopolitico con Israele per lo sfruttamento delle risorse di gas naturale nel Mediterraneo orientale.
Il vice premier macedone Bujar Osmani (di origine albanese) ha affermato che il referendum sarebbe stato considerato valido anche in caso di mancato raggiungimento del quorum. E sulla stessa lunghezza d’onda si sono espressi sia Zaev, che ha minacciato elezioni anticipate in caso di ostruzione all’iter parlamentare per l’approvazione dell’accordo, sia il Commissario UE per la politica di vicinato Johannes Hahn che ha invitato a tenere in considerazione la grande quantità (sic!) di voti a favore (il sì avrebbe teoricamente vinto col 90% dei consensi).
Non sono mancate ovviamente le accuse di interferenza nel voto alla Russia. Tuttavia, se è vero che la Russia ha tutto l’interesse ad evitare un ulteriore allargamento della NATO nei Balcani, tanto che il ministro degli esteri Sergej Lavrov ebbe modo a suo tempo di affermare che la destabilizzazione della Macedonia rispondeva ad un preciso piano occidentale di sabotaggio del gasdotto russo-turco Turkish Stream, è altrettanto vero che il leader dell’opposizione Mickoski, nonostante venga indicato con una certa frequenza come “filo-russo”, ha spesso assunto delle posizioni piuttosto ambigue rispetto all’ingresso del paese nell’UE e nell’Alleanza Atlantica. Al momento, dunque, il reale interesse della Russia, così come nel Vicino Oriente, è quello di evitare ulteriori destabilizzazioni che ne potrebbero gravemente compromettere gli interessi. La partita dei gasdotti, nello specifico, risulta di fondamentale importanza nella prospettiva di Mosca per contrastare la dottrina trumpiana dell’Energy Dominance volta a ristabilire l’egemonia unipolare nordamericana attraverso il controllo del mercato globale dell’energia.
Ciò che appare evidente è che la crisi della piccola nazione balcanica è ancora lontana da una definitiva risoluzione. E qualora questa continui ancora a lungo a manifestare opposizione agli interessi geopolitici del proprio creatore non sarebbe affatto da escluderne uno smembramento. Non sarebbe la prima volta, infatti, che la NATO sfrutti la frammentazione etnica della regione per il raggiungimento dei propri scopi. E non sarebbe la prima volta che il mito sotterraneo della Grande Albania finisca per fare da orizzonte ideologico all’indottrinamento di gruppi separatisti. Un mito che paradossalmente riscuote maggiore approvazione e consenso proprio tra le minoranze albanesi all’infuori dei confini nazionali che nella stessa Albania in cui gli unici sostenitori sono gli eredi della dinastia reale (discendenti diretti di Zog I – Re dell’Albania dal 1928 fino alla Seconda Guerra Mondiale) ed alcuni movimenti nazionalistici il cui peso politico rimane comunque estremamente limitato.
L’attuale governo albanese sembra quasi costretto a perseguire, contro la sua stessa volontà, una politica espansionistica e di interferenza continua con le nazioni vicine che non le è mai appartenuta. La Grande Albania non ha mai avuto dei precedenti storici se si esclude il breve intermezzo della Seconda Guerra Mondiale in cui, per volere fascista, la regione del Kosovo venne annessa al paese. Lo storico Paskal Milo, ad esempio, ha spesso sostenuto la tesi che il nazionalismo albanese fosse un “prodotto” confezionato all’esterno dei confini della nazione. Inoltre, sono arcinote le vicende che portarono la NATO a sostenere la formazione della pseudo-entità statuale kosovara: attuale campo di addestramento per diversi gruppi terroristici di matrice jihadista. Meno famosa è stata l’insurrezione albanese nelle regioni occidentali della Macedonia nel 2001 conclusasi con il Trattato di Ocrida attraverso il quale la guerriglia (in parte ex membri dell’UCK kosovaro inseriti nelle file dell’AKSH – Armata Nazionale Albanese tra le cui fila militava l’attuale leader del DUI Ali Ahmeti) depose le armi rinunciando alle rivendicazioni indipendentiste in cambio del riconoscimento di uguali diritti politici e dell’albanese come lingua co-ufficiale nelle regioni di frontiera.
Insomma, la Repubblica di Macedonia, schiacciata dal peso dell’essere nata dall’idea che la moltiplicazione delle impotenze avrebbe favorito il controllo geopolitico dell’Occidente sull’area balcanica, nonostante la recente manifestazione di risveglio popolare che ha portato al boicottaggio del referendum, sembra comunque essere destinata a condividere la sorte di tante altre entità statuali (ed internazionali) mai del tutto realmente sovrane e con le quali condivide la medesima origine: morte o totale assimilazione.
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