Pubblichiamo l’editoriale di Guido Salerno Aletta apparso su ‘Milano Finanza’ di sabato 20 ottobre
Sulla Brexit, si chiama il time-out. Mentre non si è fatto alcun passo concreto nelle trattative concernenti l’uscita della Gran Bretagna dalla Unione, in vista della scadenza del 29 marzo prossimo, si è invece aperta una prospettiva lunga, forse lunghissima, per definire i futuri rapporti. La fase transitoria, che sarebbe dovuta durare al massimo fino al dicembre 2020, potrebbe invece prolungarsi per tre anni, fino al marzo 2022. E visto che, da calendario, le prossime elezioni politiche inglesi si dovrebbero tenere nel giungo del 2022, c’è chi in Europa spera di far scarrocciare ancora il termine oltre quella scadenza, tenendo aperto il dossier il più a lungo possibile. L’allungamento a dismisura della fase transitoria serve intanto a sbriciolare nel tempo le velleità dei Leaver; e chissà, poi, che con un nuovo governo britannico, più orientato a favore del Remain, non si possa ribaltare il tavolo.
La fase transitoria delle trattative è anche un modo per uscire dallo stallo attuale, provocato dal mai sottaciuto paradigma dell’irreversibilità del progetto europeo, non solo dell’euro: si è liberi di entrare, ma non di uscire. La strategia del negoziatore europeo, Michel Barnier, è stata semplice: mai un cedimento, mai uno sconto. L’alternativa del no-deal, l’unica davvero ben architettata visto che non c’è nessun piano pronto per affrontare questa evenienza, comporta inevitabilmente il caos, commerciale, finanziario, socio-politico. Deve essere un cigno nero.
L’opacità delle trattative tra Ue e Gran Bretagna si è fatta metodo: mentre il governo di Theresa May ha divulgato pubblicamente un piano abbastanza analitico, il Cequer Paper, da parte europea ci si è ben guardati dal fare altrettanto. La trincea nei negoziati per l’uscita dalla Area doganale europea è rappresentata dalla frontiera irlandese: per l’Unione europea si trasformerà anche fisicamente in una barriera doganale, mentre per la Gran Bretagna deve rimanere aperta per rispettare l’Accordo del Venerdì Santo che ha posto fine alla guerra civile. Solo di questa guerra di posizione, delle sortite e dei ripiegamenti, si è avuta una qualche notizia. Per il resto, nulla.
La cronaca ufficiale del Consiglio europeo, svoltosi tra mercoledì e giovedì di questa settimana, è assai scarna: dopo aver fatto il punto dello stato delle trattative ascoltando nel corso di una apposita colazione di lavoro il Premier inglese Theresa May circa le sue prospettive negoziali, i leader europei hanno poi discusso tra di loro. Alla conclusione, hanno confermato piena fiducia nel negoziatore Michel Barnier e determinazione a rimanere uniti, rilevando che “nonostante le intense negoziazioni, non si è registrato alcun progresso sufficiente”. Si sono dichiarati comunque pronti a riconvocarsi, “se e quando il negoziatore dell’Unione ritenesse che fossero stati compiuti progressi”.
In realtà, dietro le quinte, il complicarsi in questi ultimi tre mesi del quadro geopolitico mondiale ed europeo sta inducendo tutti alla cautela.
Ci sono, innanzitutto, le elezioni americane di mid-term, a novembre, che segneranno in maniera decisiva le sorti della Presidenza di Donald Trump, proiettandolo verso la rielezione in caso di vittoria, oppure aprendo una fase di convulsioni dall’esito imprevedibile. C’è poi da fare in conti con la guerra commerciale, e soprattutto geopolitica, tra Usa e Cina: tutto è cambiato dall’ottobre 2015, quando il Presidente Xi Jinping fu ricevuto in pompa magna a Londra, per inaugurare una “epoca d’oro” nelle relazioni tra i due ultimi ex-imperi. Già a febbraio scorso, infatti, durante il viaggio compiuto in Cina dalla premier britannica Theresa May, si erano notate le prime perplessità: la mancata adesione formale al protocollo fondativo della Nuova via della Seta e le critiche nei confronti della sovrapproduzione di acciaio a basso prezzo che mette in difficoltà la produzione inglese, facevano da contraltare alla confermata prospettiva di trovare nel mercato del Celeste impero una alternativa di sviluppo dopo la Brexit. L’incertezza sui contraccolpi che la guerra dei dazi dichiarata da Trump potrà avere sulle dinamiche dell’economia cinese, e soprattutto il confronto sempre più aspro sul piano geopolitico, rendono meno certa questa strategia.
Anche i partner europei sono indotti a non forzare troppo la mano nei confronti della Gran Bretagna. La Germania, per prima, si trova esposta sia sul versante esterno, per via dei ripetuti attacchi di Trump all’attivo commerciale strutturale, sia su quello interno a causa dei risultati elettorali deludenti in Baviera ed alla tornata elettorale in Assia, questa domenica, che secondo i sondaggi indebolirà ulteriormente i due partiti che formano la Grande coalizione, Cdu-Csu e Spd.
C’è poi la prospettiva del rinnovo del Parlamento europeo, a maggio prossimo. Si deve evitare a qualsiasi costo il “no-deal”: lo shock economico e finanziario, che ne deriverebbe, verrebbe brandito dagli euroscettici come l’ennesima prova della incapacità della Unione di trovare soluzioni equilibrate ai problemi che le si pongono. Peggio sarebbe, paradossalmente, se invece non accadesse nulla di grave: si dimostrerebbe che è possibile abbandonare l’Unione senza costi eccessivi.
Infine, da parte europea c’è un interesse economico preciso: la Gran Bretagna è un grande contribuente al bilancio dell’Unione, ed il suo venir meno imporrebbe agli altri partner di aumentare i propri versamenti. Per l’Italia, si potrebbe arrivare in prospettiva dal 2022 ad un aumento fino a 4 miliardi di euro annui, aggiuntivi rispetto ai 13,9 miliardi versati nel 2016, ed un saldo netto di 4,7 miliardi che tiene conto dei Fondi europei destinati al nostro Paese. Siamo infatti il terzo Paese contributore, dietro la Germania (23,3 mld €) e la Francia (19,5 mld €), ma davanti alla Gran Bretagna (12,8 mld €). Si spiegano così sia la fretta di approvare subito il quadro finanziario pluriennale europeo 2021-2027 sia l’allungamento del periodo transitorio oltre il dicembre 2020, termine con cui si concludono gli impegni del quadro precedente: estendendo il periodo transitorio fino al marzo 2022, si tiene associata la Gran Bretagna anche agli impegni previsti nel nuovo quadro finanziario. D’altra parte, occorre fare in fretta anche per mettere il prossimo Parlamento europeo e la nuova Commissione di fronte all’atto compiuto.
Sulla Brexit, è time-out. Ma si continua a giocare sempre a carte coperte.
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