Populismo: sintomo o causa?
di ALDO GIANNULI (Andrea Dugo)
Nell’intero mondo occidentale, le liberaldemocrazie stanno fronteggiando l’ascesa apparentemente inesorabile dei partiti politici anti-establishment. Genericamente classificate con l’etichetta di “populisti”, queste nuove organizzazioni politiche sperano di intaccare le radici stesse delle consolidate democrazie occidentali, nel tentativo rivoluzionario di stravolgere quelle che vengono percepite come società profondamente diseguali. Qualora traggano ispirazione da tradizioni politiche convenzionalmente di destra o di sinistra, tutti i partiti populisti condividono un obiettivo comune, quello di proteggere il “popolo indifeso” dalle “avide élite”. Malgrado lo slogan semplicistico, la retorica del 99% contro l’1% appare estremamente persuasiva agli elettorati occidentali poiché fondata nelle molteplici storture dell’attuale modello economico globale. Di conseguenza, per comprendere nel profondo queste inedite trasformazioni sociali, è di fondamentale importanza esaminare nel dettaglio le cause che sottendono questi fenomeni, le quali vanno ricercate nella storia più recente.
La caduta del muro di Berlino nel 1989 sancì l’inizio di una nuova fase della storia mondiale. Mentre una ad una collassavano le repubbliche socialiste del blocco sovietico, il mondo assisteva alla cessazione permanente delle ostilità ideologiche. Il liberalismo occidentale aveva incontestabilmente trionfato e si presentava come l’unico modello di sviluppo economico e politico possibile. Specialmente negli Stati Uniti, veri vincitori e leader indiscussi dell’emergente mondo unipolare, i circoli neoconservatori accolsero con entusiasmo l’evolversi degli eventi e ipotizzarono, nella persona di Francis Fukuyama, che l’umanità potesse aver raggiunto il suo traguardo finale. L’influente politologo americano teorizzò che le idee liberali occidentali, dopo aver annientato i loro principali rivali (fascismo e comunismo) sul campo di battaglia ideologico, rappresentassero “il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità” e, pertanto, annunciava solennemente “la fine della storia”, poiché mai si sarebbe potuta concepire “forma più elevata di società umana” della democrazia liberale (Fukuyama, 1989, p. 4, p. 13). Una posizione più moderata all’interno dello stesso movimento neoconservatore fu, invece, quella di uno scienziato politico altrettanto influente, Samuel P. Huntington. In aperto contrasto con il pensiero di Fukuyama, secondo il quale il liberalismo occidentale poteva rappresentare un modello universale e immutabile per ogni nazione del pianeta, egli era convinto che il mondo post-guerra fredda sarebbe stato dominato da una riconfigurazione dei conflitti “lungo linee culturali”. A differenza di pensatori più radicali, egli rifiutava fermamente l’idea che i valori occidentali fossero intrinsecamente superiori ed era persuaso che “l’influenza relativa dell’Occidente” stesse “declinando”. Ciononostante, egli sosteneva la dominazione prolungata dell’“Occidente” sul “resto [del mondo]” e suggerì che, nel nuovo ordine internazionale governato dallo “scontro delle civiltà”, “la sopravvivenza dell’Occidente” sarebbe dipesa “dagli americani che riaffermano la loro identità occidentale e gli occidentali che accettano la loro civiltà come preziosa, ma non universale, e che questi si uniscano per rinnovarla e preservarla dalle sfide delle società non occidentali (Huntington, 1996, pp. 20-21, p. 31).
Tuttavia, lungi dall’essere una tendenza esclusivamente di destra, l’euforia che seguì il collasso dell’Unione Sovietica contagiò presto le sinistre occidentali, che subito consegnarono la questione di classe alle pagine dei libri di storia e cominciarono a cavalcare l’onda neoliberista. Il primo segnale di questo processo fu l’elezione di un giovane democratico, William J. Clinton, come 42esimo Presidente degli Stati Uniti nel 1992. Il Partito Democratico subì un profondo rinnovamento sotto la sua leadership centrista, mentre egli diventava il più ardente promotore della globalizzazione. Convinto che “la globalizzazione non” fosse “qualcosa che possiamo tenere a bada o bloccare” in quanto “equivalente economico di una forza della natura, come il vento o l’acqua” (Clinton, 2000), Clinton sostenne una marcata espansione del commercio globale, firmando l’Accordo nordamericano di libero scambio (NAFTA) nel 1993 e supervisionando la creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) nel 1995. Inoltre, in linea con le politiche economiche inaugurate da Ronald Reagan e con la storica tradizione americana del “minimal government” (Robertson and Judd, 1989, p. 1), la sua amministrazione venne caratterizzata da una forte deregolamentazione del settore finanziario e da tagli allo stato sociale. Il successo elettorale della piattaforma programmatica di Clinton indusse i leader di altri partiti della sinistra occidentale, e soprattutto europea, a modernizzare i loro programmi obsoleti. Il più fervido sostenitore di questo nuovo corso fu il Primo ministro britannico Tony Blair che, sotto la guida intellettuale del sociologo e consigliere Anthony Giddens, presentò un innovativo manifesto politico conosciuto con il nome di “Terza Via”. Il loro obiettivo primario era quello di lanciare un nuovo “quadro di pensiero e di elaborazione politica che” potesse “adeguare la sinistra ad un mondo che” era “radicalmente cambiato”, trascendendo “sia la socialdemocrazia vecchio stile sia il neoliberismo”. Questa trasformazione politica, tuttavia, doveva passare dall’accettazione “di alcune delle critiche che la destra fa” dello stato sociale: “è essenzialmente antidemocratico” in quanto dipende da “una distribuzione dei benefici dall’alto verso il basso”, è “burocratico, alienante e inefficiente” e “può creare conseguenze perverse” (Giddens, 1999, p. 26, pp. 112-113). Di conseguenza, l’applicazione pratica di questi principi da parte del rinnovato Partito Laburista, il cosiddetto “New Labour”, consistette principalmente in politiche thatcheriane come riforme di mercato della sanità e dell’istruzione, la privatizzazione delle più importanti aziende di Stato, l’indebolimento dei sindacati e la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Mentre l’economia registrava tassi di crescita costanti, un vento di cambiamento iniziò a soffiare sulla politica britannica, assegnando a Tony Blair tre vittorie elettorali consecutive, un evento senza precedenti nella storia del Partito Laburista. Questo cambio di passo rivoluzionario sui due lati dell’Atlantico conquistò rapidamente le sinistre in Europa continentale, Australia e Canada. L’apice di questo processo fu la conferenza sul “Riformismo del XXI secolo” tenutasi a Firenze tra il 20 e il 21 Novembre 1999, cui parteciparono tutti i principali esponenti del mondo libero: Tony Blair, Bill Clinton, Massimo D’Alema, allora Presidente del Consiglio, Lionel Jospin, Primo ministro francese e Gerhard Schröder, cancelliere tedesco. Con l’avvicinarsi del terzo millennio, i leader progressisti dell’Occidente si riunirono per inaugurare il progetto di modernizzazione della sinistra mondiale. I discorsi dei leader dell’Ulivo mondiale, come lo chiamò qualcuno, erano impregnati di una fede quasi incrollabile nella liberaldemocrazia e nell’economia di mercato capitalistica. Era la nascita di un mondo nuovo, più pacifico e più prospero.
Nei primi anni 2000, le democrazie occidentali assisterono all’alternanza al potere dei partiti di centrosinistra e di centrodestra. Mentre questi si avventuravano in guerre oltreoceano e consolidavano riforme economiche bipartisan in patria, un profondo sconvolgimento era in arrivo: lo scoppio della crisi finanziaria nell’Agosto del 2007. Definita unanimemente come “la peggiore crisi economica dalla Grande Depressione del 1929”, essa ha rappresentato uno spartiacque epocale nella storia recente. La rivelazione delle profonde storture radicate nel sistema economico occidentale ha indotto i cittadini a rimettere pesantemente in discussione il modello economico e politico emerso negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso e compiutosi pienamente nei precedenti 15 anni. Il fattore forse più significativo nell’aver alimentato il malcontento popolare è stato proprio di natura economica: la crescita esponenziale e incessante delle disuguaglianze. La percezione di un impoverimento generalizzato rispetto a élite sempre più ricche trova riscontro nei dati. Mentre lo stipendio medio netto annuale del 90% più povero negli Stati Uniti è rimasto sostanzialmente stagnante dal 1979 al 2014 (da $28,524 a $33,297), la paga annua reale dell’1% più ricco è cresciuta da $269,102 a $671,061 nello stesso periodo (Economic Policy Institute, citato da Limes – “L’America americana”, 2016). Sfortunatamente, questa situazione allarmante non riguarda soltanto la distribuzione dei redditi, ma anche dei patrimoni. Negli Stati Uniti, l’1% più ricco della popolazione controlla il 42,1% della ricchezza totale, una cifra che rende la distribuzione delle risorse economiche americana comparabile a quella cinese (43.8%) e a quella sudafricana (41.9%) e peggiore di quella messicana (38.2%) (Credit Suisse’s Global Wealth Report 2016, citato da Withnall, 2016). Su scala globale, la situazione è persino più preoccupante: nel 2010, 388 persone detenevano la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, ora, a detenere quella stessa ricchezza, sono soltanto in 8 (Hardoon, 2017). Siccome, specialmente in Occidente, il parziale smantellamento dello stato sociale e altre misure neoliberiste sono ampiamente ritenute responsabili di aver generato “costi rilevanti in termini di aumento della disuguaglianza” (Fondo Monetario Internazionale), non sorprende affatto che il sistema politico all’interno del quale queste politiche sono state possibili, e la democrazia liberale più in generale, siano anch’essi sotto accusa. Sebbene, nel mondo accademico, gli studiosi sostengano prevalentemente una nozione di democrazia “minimalista” (Przeworski, 1999, p. 23), e la definiscano semplicemente “un metodo procedurale per la scelta dei governanti” (Cheibub, Gandhi e Vreeland, 2010, 74), la concezione quasi mistica di democrazia emersa nei gloriosi anni Novanta era considerevolmente più esaustiva di così. La democrazia, nella sua connotazione liberale, venne gradualmente ad identificarsi con la prosperità economica ed il benessere. Le opinioni pubbliche occidentali si fidavano ciecamente del fatto che “quando” fosse scoppiata “la prossima crisi finanziaria nel mondo”, “le democrazie” avrebbero avuto “maggiori probabilità di uscire indenni dalla tempesta” (Clinton, 1999). Purtroppo, queste promesse non si sono avverate e l’impossibilità di mantenerle ha, di fatto, gettato seri dubbi sulle autentiche virtù della democrazia liberale tra i popoli occidentali.
Inoltre, la liberaldemocrazia ha perso valore agli occhi degli elettori a causa della configurazione del panorama politico. Eccezion fatta per i diritti civili e i diritti delle minoranze, i partiti tradizionali della sinistra riformista e della destra liberale in Occidente sono confluiti verso programmi politici essenzialmente indistinguibili, al centro dello spettro politico. Nel Regno Unito, “il New Labour e il conservatorismo moderno condividono una piattaforma programmatica standard: favorevole alle imprese, socialmente inclusiva, ambivalente nei confronti degli immigrati”. Anche negli Stati Uniti, almeno “fino all’era del secondo presidente George Bush”, il “Partito Repubblicano e il Partito Democratico sembravano molto diversi ma una volta in carica si comportavano pressappoco allo stesso modo”. “Tuttavia, queste forze non sono affatto prerogativa esclusiva della sfera anglo-americana“ (Sennett, 2006, pp. 162-163) e sembrano, anzi, aver influenzato la maggior parte dei paesi occidentali. L’esito di questo processo, nel lungo periodo, è stata la rovinosa perdita del consenso elettorale. Il Partito Democratico e Forza Italia, che hanno dominato la scena politica italiana degli ultimi 25 anni, ad esempio, rappresentavano oltre il 70% dell’elettorato nel 2008 ma hanno ottenuto solo il 32% dei voti messi insieme alle Politiche del 4 Marzo. Situazioni simili hanno riguardato il centrosinistra e il centrodestra in Francia (dal 64% nel 2007 al 23% nel 2017), in Olanda (dal 51% nel 2012 al 27% nel 2017) e, in misura minore, anche in Germania (dal 67% nel 2013 al 53% nel 2017). Ad aver sofferto maggiormente per questo fenomeno sono, tuttavia, i partiti di centrosinistra, il cui ruolo sarebbe dovuto essere quello di proteggere i più deboli e, invece, hanno accettato acriticamente le dinamiche della globalizzazione e sposato incondizionatamente l’ideologia del libero mercato.
Mentre la rilevanza elettorale dei partiti tradizionali è in declino ovunque, tranne che nei ricchi quartiere del centro, i “populisti” conquistano il voto delle periferie e delle zone rurali, interpretando efficacemente il malcontento della gente e approfittando delle loro paure. Molti di questi leader anti-establishment adottano una preoccupante retorica razzista e nazionalista e il loro operato alla prova del governo è spesso mediocre, e a tratti disastroso. Tuttavia, sarebbe un errore fondamentale considerarli la fonte originale della decadenza della democrazia come la conosciamo. Il populismo è un sintomo, non la causa del deterioramento della liberaldemocrazia. È la fase finale del processo, durato tre decenni, di implosione del progetto neoliberale, che prometteva di essere universale ed eterno, ma che sta invece crollando sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Quello che rimane incerto, tuttavia, è se ciò che resterà delle macerie sarà compatibile con qualche altra forma di ricostruzione democratica.
Andrea Dugo
Bibliografia
Fukuyama, F. (1989). “The End of History?”. (La fine della storia?). The National Interest, (16), pp. 3-18.
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Giddens, A. (1999). The Third Way: The Renewal of Social Democracy. (La Terza Via, il rinnovamento della socialdemocrazia). Cambridge: Polity Press.
Caracciolo, L. (2016). “L’America americana”. Limes, la rivista italiana di geopolitica.
Withnall, A. (2016). “All the world’s most unequal countries revealed in one chart”. (Tutti i paesi più diseguali al mondo in una tabella). The Independent.
Hardoon, D. (2017). An economy for the 99 %. (Un’economia per il 99%). S.L.: Oxfam International.
Ostry, J., Loungani, P. and Furceri, D. (2016). “Neoliberalism: Oversold?”. (Neoliberismo: Sopravvalutato?). Finance & Development, 53(2), pp. 38-41 (Washington: Fondo Monetario Internazionale).
Przeworski, A. (1999). “Minimalist conception of democracy: a defense”, (Concezione minimalista della democrazia: una difesa) in: Shapiro, I. e Hacker-Cordón, C. (Eds.), Democracy’s Edges. New York: Cambridge University Press, pp. 23–55.
Cheibub, J., Gandhi, J. and Vreeland, J. (2009). “Democracy and dictatorship revisited”. (Democrazia e dittatura rivisitate). Public Choice, 143(1-2), pp. 67-101.
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Sennett, R. (2007). The Culture of the New Capitalism. (La cultura del nuovo capitalismo). New Haven (Conn.): Yale University Press.
Fonte: http://www.aldogiannuli.it/populismo-sintomo-o-causa/
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