È possibile contenere l’influenza della Cina nel Pacifico?
di SICUREZZA INTERNAZIONALE
Il mancato raggiungimento di una dichiarazione congiunta tra i Paesi membri dell’APEC – l’Associazione per la Cooperazione Economica nell’Asia-Pacifico – e lo scontro aperto tra Cina e Stati Uniti sul suo eventuale contenuto sono solo l’ultimo segnale di una tensione sempre crescente tra le due superpotenze e mostrano due visioni strategiche molto diverse per la regione dell’Asia-Pacifico.
Nella Strategia per la Difesa Nazionale degli Stati Uniti, pubblicata nel mese di gennaio 2018, Washington descriveva la Cina come un “competitor strategico” nell’Asia-Pacifico e auspicava una regione del “Indo-Pacifico aperta e libera”. Nei mesi successivi, però, l’amministrazione Trump ha visto una costante riduzione della presenza statunitense nell’area e non è riuscita a creare un buon coordinamento con sui alleati sulle questioni più pressanti.
L’assenza del presidente Trump ai vertici dell’ASEAN – Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico – di Singapore e a quello dell’APEC in Papua Nuova Guinea svoltisi rispettivamente dall’11 al 15 e dal 17 al 18 novembre e la presenza, ad entrambi, del presidente della Cina, Xi Jinping, sono stati l’ennesimo segnale di visioni strategiche molto diverse tra Washington e Pechino. Gli Usa sono stati rappresentati dal Vice Presidente, Mike Pence.
Gli Stati Uniti intendono aumentare la loro attenzione sulla competizione strategica con la Cina per l’influenza sulla regione del Pacifico Meridionale. Washington sta cercando di stringere l’alleanza con l’Australia, il Giappone e la Nuova Zelanda, nonché con gli Stati isolani del Pacifico per unire le forze e contrastare la crescente presenza cinese.
Le isole del Pacifico Meridionale occupano una piccola parte di territorio nel mezzo di un vasto oceano, ma sono strategicamente importanti per gli Stati Uniti e i loro alleati, soprattutto nell’interesse comune di preservare il libero accesso commerciale e militare alle acque del Pacifico e di espandere le istituzioni e i regolamenti liberali.
Si tratta di una visione in contrasto con quanto la Cina ha fatto negli ultimi anni nelle acque del Pacifico. Pechino ha aumentato i suoi aiuti e investimenti negli Stati isolani del Pacifico, impegnandosi spesso nella realizzazione di grandi progetti di sviluppo vincolati da pochissime condizioni, spesso sotto l’egida della grande iniziativa “Belt and Road” lanciata da Xi Jinping nel 2013.
Gli aiuti cinesi, come sta avvenendo anche in altre zone del mondo come l’Africa e l’America Latina, sono giunti in un momento in cui quelli degli Stati Uniti e dei loro alleati sono in decrescita da diverso tempo. Gli Usa, però, sembrano essersi resi conto che questa politica di riduzione dei finanziamenti e degli aiuti ha lasciato ampio raggio di azione a Pechino e stanno provando a invertire la tendenza.
Nel luglio di quest’anno, il Dipartimento di Stato degli Usa ha annunciato un nuovo finanziamento da 113 milioni di dollari per espandere il suo impegno economico nell’Indo-Pacifico e a settembre Washington si è impegnata a unirsi alla “Pacific Regional Infrastructure Facility” – un hub che fornisce assistenza tecnica e ricerca sui temi infrastrutturali di interesse per i Paesi delle Isole del Pacifico, nato per coordinare i 350 milioni di dollari di contributi annuali che arrivano alle Isole.
Anche il Giappone, la Nuova Zelanda e l’Australia si stanno muovendo per aumentare il loro coinvolgimento nella regione. Tokyo ha stanziato 200 miliardi di dollari per promuovere infrastrutture di alto livello e ad alto impatto e aumentato i suoi aiuti e investimenti nelle Isole che comprendono la costruzione di un centro per lo studio del mutamento climatico sull’isola di Samoa. La Nuova Zelanda ha fatto dell’assistenza ai suoi vicini del Pacifico una priorità, con l’approvazione di un aumento di budget per gli affari esteri di 498 milioni da dilazionare nei prossimi 4 anni per aumentare la presenza neozelandese nella regione del Pacifico.
L’Australia, con il suo primo ministro Scott Morrison, si è impegnata a far “tornare il Pacifico in prima linea e al centro delle strategie australiane”. Il Premier ha stanziato 1,4 miliardi di dollari per progetti infrastrutturali nel Pacifico e un miliardo per le aziende australiane che operano nella regione. Inoltre, ha promesso un incremento della presenza militare australiana nella regione, la costruzione di una base navale condivisa sull’isola di Manus e una serie di incontri annuali con temi come difesa, forze dell’ordine, polizia di confine, nonché nuove basi diplomatiche sulle Isole Cook, nella Polinesia Francese, nelle Isole Marshall a Niue e Palau.
Guardando tutte queste iniziative nel loro insieme, appare evidente che gli Usa e i loro alleati stiano cercando di fare fronte comune per portare avanti il loro obiettivo condiviso di contenere l’influenza cinese nel Pacifico e mantenere una posizione di forza della regione che salvaguardi i loro interessi nazionali. Gli Stati Uniti hanno l’occasione di fare da coordinatori di questo impegno condiviso. Secondo l’analisi di Foreign Affairs, Washington potrebbe persino decidere di nominare un “Ambasciatore per l’Indo-Pacifico” con il ruolo di coordinatore delle politiche regionali.
Sicurezza Internazionale è il primo quotidiano italiano dedicato alla politica internazionale.
Consultazione delle fonti inglesi e cinesi e redazione a cura di Ilaria Tipà
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