Guerra commerciale Cina-Usa, Bolsonaro in Brasile, Vox in Andalusia, prossima recessione, gilet gialli: che succede?
di ALDO GIANNULI
C’è un filo che lega cose distanti fra loro come lo scontro (ed il momentaneo armistizio) Trump-Xi Jinping, il caso Huawei, i gilet gialli, le vittorie elettorali della destra in Brasile ed Andalusia e i segnali di una prossima recessione?
Vediamo le cose più da vicino iniziando dal conflitto Cina Usa. Contrariamente alle attese, quindici anni fa, l’apertura mondiale dei mercati non giovò all’industria dell’auto americana, ma, al contrario, ne causò una crisi profonda.
Prodotti troppo costosi sia per l’acquisto che per l’uso, ed in presenza di un forte rialzo dei prezzi del petrolio e l’auto diesel europea, da un lato, e l’economica auto cinese, dall’altro, mordevano via via fette di mercato al dominio automobilistico americano già intaccato dai giapponesi. Il sopraggiungere della crisi rischiava di dare il colpo di grazia a marchi storici come la Ford e la Gm a malapena sorretti dall’intervento statale, in cambio della cessione di quote del capitale sociale (alla faccia dei dogmi neo liberisti).
Un primo contrattacco venne nel 2014 con il diesel-gate che azzoppava la Volkswagen, ma anche questo, come anche l’assorbimento della Fiat nell’orbita americana attraverso la Chisler, non risolveva i guai dell’auto americana e la run belt ormai sembrava avviata ad una irresistibile decadenza che lasciava sul campo schiere di disoccupati. Fu questo lo scenario che consegnò stati tradizionalmente democratici come il Michigan a Trump determinandone la vittoria.
Ora Trump deve onorare le promesse fatte in campagna elettorale e per questo scatena una ondata protezionistica contro Europa e Cina che colpisce molti prodotti ma soprattutto (e guarda caso) le auto. Dopo il summit di Buenos Aires si è profilata una tregua (per almeno un anno) fra Cina ed Usa e le borse hanno respirato. Però, un giorno dopo è giunta la notizia di un possibile accordo Ford-Volkswagen per formare il supercolosso mondiale dell’auto.
Il punto è che la principale fabbrica di auto cinese è la Vw di Shanghai e non si capisce come vada letta questa notizia: è un accordo euro americano anti cinese con l’appendice di Shanghai come punta di lancia per penetrare il mercato cinese? O è un tentativo di consociazione euro-sino-americano in un supercolosso in condizioni di dettare legge all’intero mercato mondiale? O un ballon d’essai in vista di una pax automobilistica mondiale? Lo capiremo dalle prossime mosse.
In compenso non c’è da spremersi troppo per capire il senso dell’arresto della figlia del padrone della Huawei (ce ne occuperemo) che è un evidente inizio di ostilità sul terreno delle telecomunicazioni, settore strategico decisivo e qui saremmo curiosi di sapere quale sarà la reazione cinese in tema di terre rare. Comunque sia il tempo dell’equilibrio fra una Cina in ascesa ed degli Usa allo zenith della loro fortuna mondiale (quello che aveva fatto parlare di “Chimerica” e di una intesa cordiale desinata a durare molto a lungo come nuovo ordine mondiale) sembra ormai remoto.
L’equilibrio si è spezzato e la globalizzazione non è più il “pranzo di gala” di cui si era favoleggiato.
La crisi del 2008 ha travolto l’equilibrio del sistema: l’alluvione di liquidità delle banche centrali (Fed e Bce in testa) ha fermato il crollo per impedire un effetto di reazioni a catena, ma il tentativo è riuscito parzialmente ed è tutto da dimostrare che la baracca si manterrà in piedi fra due mesi, quando finirà il Qe.
Anzi, Roubini prevede una prossima recessione assai vicina e i segnali sembrano dargli ragione: il 5 dicembre scorso, Il Sole 24 ore ha pubblicato un articolo di Massimiliano Cellino (“La curca pericolosa dei tassi Usa che suona l’allarme recessione”) che segnalava un andamento anomalo dei tassi dei Treasury Bond americani: i tassi dei bond a 2 e 3 anni hanno superato, anche se solo di 1 centesimo, quelli dei bond a 5 anni e sono ad una manciata di centesimi da quelli a 10.
Questo è accaduto in tempi recenti sono tre volte: alla fine degli anni ottanta, nel 2000 e nel 2007 e, in tutti tre i casi, è seguita una recessione più o meno grave. Questo significa che il costo del denaro sta iniziando a salire già dai prestiti a breve. Brutto segno.
E se dovesse abbattersi una nuova recessione sarebbe un gran brutto affare, decisamente peggiore di quello di dieci anni fa. In primo luogo perché la bolla del debito mondiale è cresciuta a dismisura, proprio per effetto del Qe in gran parte reinvestito in usi finanziari, per cui, siamo in totale sotto il livello di consumi e di produzione industriale degli anni ante crisi. A questo punto, anche una virata delle banche centrali per un ritorno al Qe, realisticamente avrebbe poco effetto e saremmo in quello che gli economisti chiamano “momento Minsky”: pompare liquidità forse eviterebbe il fallimento di un po’ di banche, ma rimetterebbe in moto l’economia ancor meno di quanto i precedenti anni di Qe abbiano fatto consentendo una fiacchissima ripresa.
In secondo luogo, a questo giro non abbiamo più la “locomotiva”: dieci anni fa la Cina immise nel mercato mondiale qualcosa come 600 miliardi di dollari. Ora la Cina non se la vede tanto bene, sia perché, a quanto pare, il suo debito pubblico è decisamente più alto di quanto non fosse dichiarato sino a pochissimo tempo fa, sia perché da ormai 6 anni il tasso di screscita del Pil è decisamente al di sotto di quell’8% che era ritenuto, dalle stesse autorità cinesi, la soglia minima per tenere in equilibrio i conti con i massiccio trasferimento dalle campagne nelle città, sia perché ormai siamo alla svolta epocale per la quale la popolazione non attiva supera quella attiva. Dunque, è difficile che la Cina sia in grado di sostenere la domanda aggregata mondiale come fece 10 anni fa.
In terzo luogo, perché in Usa ed Europa è partita una rivolta dei ceti medi che ha assunto il colore di un violento populismo a prevalente carattere di destra (Brexit, elezione di Trump, parziale successo della destra populista in Francia ed Austria, governo giallo-verde in Italia, vittoria di Bolsonaro, forti affermazioni locali della destra di Vox in Andalusia e di Afd in Germania, rivolta dei gilet gialli in Francia).
Intendiamoci: in grande maggioranza questi movimenti politici non chiedono un diverso ordine mondiale ma esprimono solo il malessere dei ceti medi impoveriti dalla crisi.
Il punto è che dal 2008 si è aperta una crisi che va al di là dell’aspetto finanziario ed investe lo stesso processo gli globalizzazione, il filo che lega la serie di avvenimenti qui accennati è semplicemente questo: siamo all’inizio di una ondata di rigetto della globalizzazione neo liberista.
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