Ucraina: la Cina corre in aiuto, ma di chi?
di L’INDRO (Franco Soglian)
I crescenti legami economici tra Kiev e Pechino potrebbero agevolare indirettamente una soluzione pacifica del conflitto con la Russia piuttosto che fare il gioco di Mosca
Quasi due anni fa, nel gennaio 2017, l’uomo destinato a rafforzare oltre ogni previsione il proprio potere alla testa della Cina, forse destinata a sua volta a diventare la prima tra le superpotenze mondiali, compiva un gesto non plateale ma senza precedenti nella sua politica estera, normalmente contenuta entro un ideale perimetro del continente asiatico. Anche quando, nel secolo scorso, concedeva una sorta di protezione all’Albania comunista, ribellatasi all’egemonia sovietica seguendo l’esempio dello stesso ex Celeste Impero.
Intrattenendosi con il presidente ucraino Petro Poroscenko in occasione del Forum di Davos, Xi Jinping non si limitava (come spesso usano fare i politici) ad evocare una ‘lunga tradizione di amicizia’ esistente a suo dire tra i due Paesi e a definire tuttora amico quello oggi in piena rotta, e praticamente addirittura in guerra, con una Russia diventata, lei sì, grande amica della Cina dopo la fine della comunanza tra i rispettivi regimi comunisti originari. Quello di Pechino, come si sa, è sopravvissuto ma grazie ad una trasformazione più radicale e proficua della corrispondente moscovita.
Dopo avere espresso la «genuina speranza che l’Ucraina conservi la sua stabilità sociale e prosegua nello sviluppo economico», nonché auspicato il rafforzamento dei legami e della cooperazione bilaterale, Xi informava l’interlocutore (come avrebbe poi reso noto il ministro degli Esteri cinese) che Pechino era «disposta a svolgere un ruolo costruttivo nel promuovere una soluzione politica della crisi» in atto da oltre tre anni, con l’epicentro a nord del Mar Nero ma con riflessi e ricadute a ben più largo raggio.
Un’offerta e proposta di mediazione o almeno di buoni uffici, insomma, in ultima analisi tra Kiev e Mosca, e meritevole di rilievo sia per la novità sopra accennata, sia per la collocazione internazionale delle tre parti interessate, sia infine perché rispondeva ad un’oggettiva esigenza di interventi in quel senso dal momento che i negoziati o colloqui allora (come tuttora) in corso a livello multilaterale sembravano (sempre come tuttora) segnare sconsolatamente il passo. E’ vero che in quello stesso gennaio si apprestava ad entrare nella Casa bianca Donald Trump, il presidente-eletto che tra le altre sue promesse agli elettori, e al mondo, aveva incluso anche quella di tendere la mano a Vladimir Putin correggendo la dura posizione americana nei confronti della Russia sulla vertenza ucraina.
Non si può escludere che sia stata proprio una simile prospettiva, che si sarebbe peraltro rivelata, come minimo, alquanto nebulosa e contrastata, a suggerire la mossa o gesto di Xi, presumibilmente interessato a far sentire la voce e innalzare il ruolo di Pechino, ad ogni buon fine, su uno dei temi centrali e più scottanti della problematica planetaria. Possedendo comunque, nella fattispecie, i giusti titoli per farlo.
La Cina, infatti, aveva preso le debite distanze dall’amica Russia fin dalle battute iniziali della crisi ucraina. Sia pure argomentando in termini un po’ tortuosi le proprie scelte, Pechino si era ben guardata, nel marzo 2014, dall’approvare l’annessione russa della Crimea, che non avrebbe mai riconosciuto neppure in seguito, e anzi tanto meno in seguito a causa del successivo e pieno appoggio di Mosca alla ribellione dei filorussi del Donbass al governo di Kiev.
Non aveva aderito, certo, neanche alla recisa condanna occidentale dell’annessione e alle conseguenti sanzioni decretate a carico della Russia, astenendosi nelle relative votazioni nel Consiglio di sicurezza dell’ONU rese comunque platoniche dal veto di Mosca. Agli Stati Uniti e ai loro alleati Pechino rimproverava curiosamente un’interferenza negli affari interni ucraini, commessa appunto mediante la condanna e le sanzioni, non meno riprovevole di quelle russe.
Ribadiva tuttavia, per l’occasione, che la politica estera cinese rimaneva basata sui Cinque principi della coesistenza pacifica: rispetto della sovranità e integrità territoriale di ogni Paese, inaccettabilità di qualsiasi aggressione, non interferenza negli affari interni altrui, rispetto reciproco dell’eguaglianza e mutuo vantaggio, coesistenza pacifica tra tutti gli Stati. Il tutto sottolineando la particolare importanza tradizionalmente attribuita da Pechino alla non interferenza.
Ai governi occidentali si rimproverava tra l’altro la pratica del doppio standard evidenziata dal contrasto tra le loro reazioni all’odierna crisi ucraina e il loro comportamento in precedenti casi considerati analoghi come la scelta dell’indipendenza dall’URSS da parte della stessa Ucraina e della Georgia nel 1991 nonché il distacco del Kosovo dalla Serbia. Precedenti, naturalmente, fatti valere senza risparmio innanzitutto da parte russa, ufficialmente e non.
Alla Russia Pechino attribuiva la responsabilità o corresponsabilità per l’inasprimento della crisi e l’esplosione di un conflitto armato, paragonando il suo comportamento all’appoggio prestato dall’URSS all’emancipazione della Mongolia dalla Cina nel 1945. Riconosceva tuttavia che Russia e Ucraina condividevano una ‘storia complicata’, che gli abitanti della Crimea risultavano in maggioranza russi (col 58%) secondo un referendum del 2001 e che si poteva quanto meno comprendere la pretesa di Mosca di includere l’Ucraina in una propria zona di influenza.
Fermo restando il doveroso rispetto della sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina, ne conseguiva comunque l’invito ai governi occidentali di tenere conto delle legittime preoccupazioni russe per la propria sicurezza esterna, nell’ambito degli altrettanto doverosi sforzi di tutti gli interessati per giungere ad una pacifica soluzione della crisi mediante indispensabili quanto ragionevoli compromessi.
Sforzi che non sono mancati, almeno da qualche parte, ma sfortunatamente si sono rivelati vani e insufficienti anche solo ad impedire che la tensione e la multiforme ostilità tra i principali antagonisti crescessero anziché ridursi, con inevitabili ripercussioni sui rapporti tra Russia e Occidente nel loro complesso.
In una simile cornice, non stupisce che sia rimasta senza eco apprezzabile né seguiti specifici anche l’offerta di mediazione o buoni uffici di Xi Jinping. Offerta verosimilmente sgradita allo schieramento occidentale (del resto disorientato dall’incertezza sulle reali intenzioni americane) per il timore che malgrado tutto Pechino avrebbe fatto in ultima analisi il gioco di Mosca, ma fors’anche al Cremlino per motivi di segno opposto. Compresa, magari, la fiducia di poter ottenere di più senza aiuti esterni non necessariamente gratuiti e senza dover cedere di un pollice sulla propria linea, sfruttando sia propizie divisioni nel campo occidentale sia un indebolimento anche interno del regime di Poroscenko a Kiev. Presumibilmente scettico, a sua volta, circa l’utilità di un intervento mediatore di un governo amico del proprio nemico e ormai avviato a cooperare strettamente con esso anche nel settore militare (acquisti di armi di ogni genere, manovre comuni).
Ciò che non si è potuto concretizzare, sinora, sul piano politico-diplomatico sta prendendo quota, invece, in campo economico, col favore di una convergenza di interessi non illimitata ma comunque ampia e tangibile. Al punto, anzi, che alcuni osservatori non esitano a parlare adesso di un’Ucraina già divenuta un importante partner strategico della Cina. E ciò grazie alla spinta soprattutto di Pechino, nel quadro di quella che qualcuno definisce una ‘strategia economica molto aggressiva in Europa‘, ma anche con un’adesione ormai apparentemente ampia da parte di Kiev.
Gli scambi commerciali tra i due Paesi sono già rilevanti. La Cina figura al secondo posto nel mondo dopo la Russia nella graduatoria delle importazioni ucraine, peraltro dominate adesso dall’Unione europea nel suo complesso grazie ad un balzo dal 31,5% del 2010 al 41,9% del 2017. Nello stesso periodo la quota cinese è salita dal 7,7% all’11,4% e promette di superare presto quella russa (attualmente del 14,2%), dato che nel terzo trimestre di quest’anno ha raggiunto il 12,7%.
Meno impetuosa è la crescita delle esportazioni ucraine in Cina, che nel settennio sopra indicato sono quasi raddoppiate ma solo dal 2,5% al 4,6%, e nei primi nove mesi del 2018 sono addirittura un po’ diminuite (4,2%), mentre l’export totale di Kiev è aumentato di oltre il 10%. L’import dalla Cina è invece aumentato quasi del 30% contro il 16% del totale. Anche per le esportazioni ucraine in Cina le prospettive sono tuttavia molto più brillanti di quanto può sembrare per due motivi molto semplici.
Il primo si ricollega ad una scelta sostanzialmente politica di Kiev. Mentre l’impennata del commercio con la UE si deve all’accordo di libero scambio stipulato con Bruxelles nel 2014, dopo la rottura politica con Mosca, la proposta di aprire negoziati per un accordo analogo con la Cina, avanzata da Pechino nel 2016, ha lasciato Kiev apparentemente indifferente per un paio d’anni. Solo nello scorso novembre il ministro ucraino dell’Economia, Stepan Kubiv, recatosi in Cina per la seconda volta dopo una lunga assenza di contatti ad alto livello, ha finalmente annunciato l’accettazione della proposta, accompagnata dalla riattivazione, anche qui dopo una lunga pausa, della Commissione intergovernativa per la cooperazione bilaterale.
Per nulla risentita per il ritardo, Pechino si mostra più che pronta a recuperare rapidamente il terreno perduto. Non si contano le risorse naturali e i settori economici ucraini per i quali l’interesse cinese è altamente vivo, ben al di là dell’agricoltura finora dominante agli effetti commerciali trovando un corrispettivo nei beni di consumo durevole forniti al partner. E che rimarrà probabilmente importante dati i continui progressi della produzione cerealicola di quest’ultimo.
Per il resto, si va dalle fonti di energia alle costruzioni, dall’industria bellica a quella aerospaziale, dall’informatica alle comunicazioni. La dipendenza energetica ucraina dalla Russia è ancora considerevole, ma cala sempre più aprendo ampi spazi anche alla Cina, protesa a sfruttarli mediante impegni per lo sviluppo dell’industria nucleare, dei depositi locali di uranio e delle fonti rinnovabili con in testa la fotovoltaica. Un impianto per l’energia solare in via di costruzione sarà tra i tre più grandi in Europa e un altro ancora sorgerà forse proprio nei pressi di Cernobyl.
Quanto agli armamenti, l’industria ucraina, tradizionalmente primeggiante in Europa, esporta in Cina per 100 milioni di dollari all’anno, e si tratta fra l’altro di componenti per aerei da caccia e da trasporto, missili a lungo raggio e portaerei. Una società statale cinese tenta da tempo di impossessarsi di un’azienda aerospaziale ucraina specializzata nella produzione di motori di ogni tipo per aerei ed elicotteri, incontrando qualche difficoltà, sembra, per motivi occupazionali.
In materia di comunicazioni si segnala, oltre alla costruzione da parte cinese di autostrade e di una quarta linea della metropolitana di Kiev, la recente decisione di collegare la Cina con l’Europa mediante una linea ferroviaria per il trasporto di container i cui treni, previsti in circa un migliaio all’anno, dovrebbero raggiungere Varsavia attraversando il territorio ucraino. Arriviamo così al secondo motivo di ottimismo circa le prospettive di un interscambio non solo crescente ma anche sufficientemente equilibrato.
Lo slancio acquistato dagli investimenti cinesi in Ucraina, già effettuati, in cantiere e progettati, appare straordinario, tanto più se paragonato al concomitante calo (del 24% nella prima metà del 2018) di quelli in Russia, ridotti attualmente a meno dell’1% degli investimenti stranieri totali nella Federazione presieduta da Putin. Solo nelle fabbriche ucraine di armi e altro materiale bellico Pechino sta investendo 250 milioni di dollari. Quanto al totale dei capitali destinati all’Ucraina si parla di cifre in rapido aumento e comunque di parecchi miliardi.
Un rischio ben calcolato? Sta di fatto che tutto ciò si registra all’indomani dell’ennesimo segnale di fumo, forse il più minaccioso emesso finora dalla crisi ucraina, dato il pericolo che lo scontro nel Mare di Azov preannunci un definitivo regolamento di conti tra Kiev e Mosca, con conseguenze imponderabili ma comunque gravi per la politica mondiale in generale.
Sta altresì di fatto che Pechino vi ha reagito ribadendo in sostanza le posizioni che già conosciamo semmai accentuandone il carattere di imparzialità impegnata e potenzialmente attiva. Il suo rappresentante all’ONU ha reso nuovamente omaggio alla sovranità e integrità territoriale di tutti i Paesi inclusa l’Ucraina dichiarando che la Cina «si oppone a tutte le forze esterne che interferiscono negli affari interni ucraini» e concludendo che il suo governo, preoccupato per quanto accade, «invita le parti a mostrare ritegno in modo da scongiurare un’ulteriore escalation della tensione e risolvere i problemi mediante il dialogo».
Sarebbe forse eccessivo ipotizzare che Pechino abbia impresso una tangibile svolta ai rapporti con Kiev non solo per propri interessi economici verosimilmente preminenti ma anche per creare una situazione che renda più difficile una degenerazione del conflitto in corso temibile per tutti. In effetti, sarebbe difficile immaginare, ad esempio, un aperto attacco russo ad un Paese nel quale si stanno concentrando cospicui interessi di un altro Paese amico così importante di Mosca benchè non sempre allineato con essa.
D’altra parte, a Kiev non mancavano fino a ieri dubbi circa l’opportunità di stringere legami proprio con un simile Paese, e anzi qualcuno sospettava dichiaratamente che Pechino potesse dopotutto aiutare Mosca rendendo l’Ucraina meno dipendente dal sostegno economico dell’Unione europea e attirandola oggettivamente verso est, comportandosi dunque nei confronti di Kiev come il classico amico del giaguaro.
Adesso quel sospetto appare meno giustificato. Tra l’altro, perché il regime di Poroscenko ha bisogno di rafforzarsi economicamente anche per non perdere ulteriore credibilità interna e il soccorso cinese non è condizionato come gli aiuti della UE a riforme economiche e politiche che Kiev stenta o rilutta ad attuare. E infine, un rafforzamento domestico potrebbe forse disincentivare l’attuale governo ucraino dal provocare a sua volta, come estrema risorsa per salvarsi, un’incontrollata esasperazione del conflitto finora solo ‘ibrido’ benché già non poco cruento.
Fonte: https://lindro.it/ucraina-la-cina-corre-in-aiuto-ma-di-chi/
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