FISCAL COMPACT E ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA: “O SI ESCE DAI TRATTATI O CONTINUERANNO A DECIDERE I GOVERNI”
di EUROSTOP (Franco Russo)
Con una procedure iniziata il 19 settembre, la Commissione economica e degli affari monetari del Parlamento Europeo (PE) ha avviato la discussione sulla proposta di Direttiva, avanzata dalla Commissione con il documento COM(2017) 824 final 2017/0335, per trasporre il cd Fiscal Compact, un trattato internazionale siglato nel 2012, nella normativa dell’Unione Europea (UE). La relatrice, una parlamentare del PPE (Danuta Maria Hübner), ha fatto, ovviamente, una presentazione favorevole in quanto la trasposizione della “sostanza del Trattato sulla Stabilità, Coordinamento e Governance nell’Unione economica e monetaria (TSCG) nell’ordinamento giuridico dell’Unione è un passo cruciale per distaccarsi da soluzioni intergovernative approntate per risolvere la crisi economica e finanziaria, cui ha dovuto far fronte l’Unione, e per riaffermare la preminenza del metodo comunitario”.
La Direttiva fa leva sull’articolo 16 del Trattato del 2012 che dà la possibilità di effettuare tale trasposizione in modo da rafforzare ulteriormente “la responsabilità fiscale e gli orientamenti di medio termine del bilancio degli Stati membri”. Per questo ne viene raccomandata l’adozione, e in particolare si mette in evidenza che la Direttiva incorpora l’articolo 3 del Titolo III, il vero e proprio Fiscal Compact, con i suoi meccanismi automatici di correzione in caso di deviazione da parte degli Stati membri dagli obiettivi decisi non dai parlamenti nazionali, ma da Bruxelles tramite le procedure del patto di Stabilità, integrato con i meccanismi del Semestre Europeo, e con i famosi Six Pact e Two Pact.
Nel Preambolo della Direttiva la Commissione ricorda che la possibile integrazione del Fiscal Compact era prevista nel Reflection Paper on the Depening of the Economic and Monetary Union, del maggio 1917, oltre ad essere esplicitamente richiamata da Junker nel suo indirizzo sullo Stato dell’Unione del 2017. Sostiene la Commissione che la Direttiva vuole rafforzare la responsabilità fiscale e l’obiettivo di bilancio di medio termine perché si determini una convergenza verso livelli sostenibili, ‘prudenti’, del debito pubblico, che deve ridursi nel ‘breve e nel lungo periodo’. Le ragioni che adduce la Commissione nel proporre l’incorporazione nella normativa UE sono per semplificare il quadro giuridico e per ‘assicurare un monitoraggio effettivo e sistematico dell’attuazione e applicazione delle regole fiscali a livello dell’UE e a livello nazionale’, in modo da superare l’attuale quadro intergovernativo. Inoltre la trasposizione del TSCG, evitando le duplicazioni di meccanismi, semplifica e rende più dirette e penetranti le misure ‒ le Raccomandazioni – di Bruxelles in tema di bilancio, affinché le politiche fiscali non ostacolino le politiche monetarie della BCE tese alla stabilità dell’euro.
La Direttiva sul Fiscal Compact – con cui è noto il TSCG ‒, introduce due novità di rilievo. La prima, per garantire il raggiungimento del pareggio di bilancio, si propone di introdurre una disciplina specifica delle spese, indicandone un tetto coerente con l’obiettivo di medio termine. La seconda novità è l’attribuzione di un potere di controllo sulle ‘autorità di bilancio’ agli organismi indipendenti costituiti proprio in base al Fiscal Compact. In Italia l’organismo indipendente è l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, il cui nome non deve trarre in inganno perché di ‘parlamentare’ ha solo la sede ‒ la Camera dei deputati.
Nella Relazione che accompagna la proposta della nuova Direttiva, la Commissione sostiene che se deve esservi un ancoraggio del bilancio, la sua programmazione deve “comprendere un percorso della spesa a medio termine al netto delle misure discrezionali in materia di entrate e coerente con l’obiettivo a medio termine o con il percorso di avvicinamento ad esso”. Dato che i parlamenti nazionali hanno comunque ancora la titolarità nominale del voto finale della legge di bilancio, la si usa per fissare il percorso di spesa “per l’intera durata della legislatura stabilita dall’ordinamento costituzionale nazionale, non appena si insedia un nuovo governo”, obbligando gli eventuali successivi governi a rispettarlo “per tutto il periodo interessato”.
Inoltre, le istituzione indipendenti avrebbero il compito di controllare le ‘autorità di bilancio’, perché l’esperienza “dimostra che regole di bilancio dotate di meccanismi di monitoraggio indipendenti sono associate a maggiore trasparenza, migliori risultati di bilancio e riduzione dei costi di finanziamento del debito sovrano. Per questo motivo la direttiva proposta prevede di coinvolgere le istituzioni di bilancio indipendenti nel monitoraggio dell’osservanza del quadro di regole di bilancio numeriche, anche mediante la valutazione dell’adeguatezza dell’orientamento di bilancio a medio termine, nonché nel monitoraggio delle modalità di attivazione e applicazione del meccanismo di correzione. Qualora constatino deviazioni significative dall’obiettivo a medio termine o dal percorso di avvicinamento ad esso, le istituzioni di bilancio indipendenti dovrebbero invitare le autorità di bilancio nazionali ad attivare rapidamente il meccanismo di correzione e dovrebbero valutare le misure correttive previste e la loro attuazione” (COM (2017) 824 final).
Poiché le ‘autorità di bilancio’ continuano formalmente ad essere i parlamenti, con questa nuova Direttiva si completerebbe l’opera di svuotamento del loro potere fiscale, che per secoli è stata la più importante delle competenze delle istituzioni rappresentative. Le politiche di bilancio sono da tempo appannaggio della Commissione e del Consiglio (nella sua formazione di ECOFIN), ora si vorrebbe rafforzare le ‘istituzioni indipendenti’ nazionali che dovrebbero mettere sotto controllo le residue competenze dei parlamenti ‒ discussione e voto finale su un testo ‒ , in modo che se si dovessero determinare degli ‘scostamenti’ dagli obiettivi del bilancio frutto delle intese tra governo e Commissione, le istituzioni indipendenti li possano richiamare all’ordine ‒ i Parlamenti! ‒ secondo il principio ‘esegui o giustificati’.
Il 27 novembre la Commissione Affari economica e degli affari monetari non ha approvato la Direttiva, essendo finita in parità la sua votazione. Ora la Commissione dovrà riformularla e trovare i modi di ripresentarla seguendo le procedure di approvazione previste dal TFUE e dai regolamenti parlamentari. Eleonora Forenza ha giustamente parlato solo di ‘battuta di arresto’, volendosi certo riferire all’intoppo della reiezione in Commissione, ma soprattutto al fatto che, essendo il Fiscal Compact un trattato internazionale entrato in vigore dal 2012, una sua mancata trasposizione nell’ordinamento UE non attenua l’efficacia delle sue norme. La mobilitazione contro il Fiscal Compact non può che continuare.
Con il Patto Fiscale, dopo che con il Trattato di Maastricht si sono gettate le fondamenta della BCE quale organo sovrano della moneta, si delegano all’UE i poteri fiscali attraverso il controllo delle politiche di bilancio.
Con il Patto Fiscale si è completata la costruzione di un ‘centro di governo’, come lo ha chiamato C.A. Ciampi, perché ora in esso confluiscono sia le decisioni di politica monetaria sia quelle di politica fiscale. Questo centro di governo si articola in strutture formate da governi e da organi ‘tecnici’, come la BCE: un’oligarchia esercita il potere economico-fiscale nell’UE.
Ho avuto modo di sottolineare in un articolo per Alternative per il socialismo che con il Patto Fiscale, un trattato internazionale, si è giunti a manomettere le stesse Costituzioni. Si afferma, infatti, all’art. 3, comma 2, che le regole del pareggio di bilancio: «devono avere effetto nelle leggi nazionali delle Parti contraenti al massimo entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato attraverso previsioni con forza vincolante e di carattere permanente, preferibilmente costituzionale».
La necessità di introdurre in costituzione il vincolo del pareggio di bilancio e di stabilire maggioranze qualificate nelle decisioni di spesa è stata, molti anni fa, riproposta da esponenti della scuola della public choice, da coloro cioè che esaltano senza infingimenti la superiorità del mercato di fronte ai ‘fallimenti’ della democrazia. Il vincolo del pareggio di bilancio si aggiunge ai ben noti vincoli quantitativi al deficit e al debito pubblici, sanciti nel Trattato di Maastricht, che fissò il deficit al 3%, e il debito al 60% rispetto al PIL.
In Italia, durante il governo Monti sostenuto dal PD di Bersani, in obbedienza a un trattato internazionale, si è modificata la Costituzione così da legittimare nella legge fondamentale, la prima nella gerarchia delle fonti, il liberismo con le sue politiche dell’offerta tese all’espansione del mercato e dell’impresa privata. Il Parlamento italiano con la modifica dell’articolo 81 si è auto-imposto una camicia di forza sulle politiche di bilancio.
Ricordo, ancora, che l’articolo 4 del Fiscal Compact impone l’abbattimento del debito pubblico, per la quota che eccede il 60% del PIL, un ventesimo all’anno. Per l’Italia ciò significa un abbattimento di circa 47 miliardi l’anno, quasi il 3% del PIL!
L’articolo 5 prevede l’attuazione, in partnership con l’UE, di un programma relativo sia al bilancio sia alla politica economica che ‘includa una descrizione dettagliata di riforme strutturali’. Intendendo con ‘riforme strutturali’ quelle del mercato del lavoro, dei servizi pubblici, della previdenza. È il programma che hanno realizzato i governi Monti, Letta e Renzi: prima il taglio alla previdenza con l’allungamento dell’età pensionabile, poi le liberalizzazioni e privatizzazione dei servizi a partire da quelli a rete, poi, il decreto Poletti e il Jobs Act hanno liberalizzato i contatti a termine e i licenziamenti, introducendo nuove e massicce dosi di flessibilità nel mercato del lavoro.
Anche senza la nuova Direttiva, le regole fiscali sono sostenute nella loro applicazione da un poderoso apparato di strumenti come quelli del Semestre Europeo, del Patto Euro Plus, del Six Pack. Le procedure di governance, previste dal Titolo V del TSCG, sono la razionalizzazione di tutto questo insieme di disposizioni, che consentono una più stretta sorveglianza economica per garantire la stabilità dell’area dell’euro e più in generale dell’intera UE. La governance economica si snoda secondo un agenda annuale per cui:
- a gennaio, la Commissione pubblica il ‘quadro della crescita annuale’, in cui stabilisce le priorità economiche;
- a marzo, il Consiglio Europeo, formato dai Capi di Stato e di governo, definisce le linee-guida delle politiche nazionali;
- ad aprile, gli Stati membri sottopongono all’esame europeo i propri piani per le finanze pubbliche con il Programmi di Stabilità e Convergenza, e quelli per le riforme con il Piano di Riforma Nazionale;
- in giugno, la Commissione valuta questi documenti ed emana le sue Raccomandazioni, rafforzate dai giudizi dell’ECOFIN e del Consiglio Europeo;
- in luglio, il Consiglio adotta le Raccomandazioni che vengono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale dell’UE;
- in autunno, sulla base di queste Raccomandazioni, gli Stati membri varano le leggi di bilancio.
Con il Two Pack, la fase autunnale è stata ulteriormente regolamentata perché si prevede che entro il 15 ottobre ogni governo degli Stati membri invii il Draft Budgetary Plan in cui vengono esposti ‘i numeri’ della manovra di bilancio e si apre, così, una fase di discussione tra governi e Commissione (ed ECOFIN) perché sia garantito il rispetto delle regole fiscali: deficit, debito, spese, obiettivo di medio termine ecc. I parlamenti assistono muti a questa trattativa tra Commissione, ECOFIN e governi. Non si dica che i governi subiscono le decisioni di Bruxelles perché le decisioni sono formalizzate da un Consiglio, l’ECOFIN dove siedono i ministri degli Stati membri, e avallate politicamente dal Consiglio Europeo dove siedono i capi di Stato o di governo. La verità è che i governi hanno espropriato, attraverso gli organismi dell’UE, i parlamenti del potere fiscale, avendo prima sottratto ad essi quello sulla moneta attraverso l’indipendenza delle banche centrale e il divieto della monetizzazione del debito. Sono i governi a decidere, senza neppure più neppure la consultazione dei parlamenti, le politiche fiscali. Si sono rovesciate le regole fondamentali del regime parlamentare, che nacque quando i parlamenti si appropriarono del potere di decisioni sulle entrate fiscali e le spese pubbliche, detenuto dai monarchi assoluti. Con passaggio del potere fiscali nelle mani dei parlamenti nacquero le monarchie costituzionali! Ora gli esecutivi, i governi, come al tempo delle monarchie assolute, godono della prerogativa di decidere il bilancio pubblico, e lo fanno concertando fra di loro a livello dell’UE.
In questi mesi, anzi in questi giorni stiamo avendo davanti agli occhi questo modo autoritario, antidemocratico, di decidere le misure di bilancio che si snoda attraverso incontri tra Commissari ed esponenti del governo Di Maio-Salvini, scambi di lettere, documenti riservati in cui vengono definiti i ‘numeri’, che poi il Parlamento ratificherà.
Anche il ‘governo del cambiamento’ forte dei consensi elettorali, prima, e dei sondaggi, dopo, ha minacciato con ‘fuoco e fiamme’ l’UE al fine di imporre le sue misure di bilancio, ora, a causa all’andamento dei titoli pubblici e della Borsa e dei primi segni di sciopero degli investimenti, ha accettato di ‘dialogare’ e ‘trattare’ con Bruxelles e di rivedere i ‘numeri’. Non importa di quanto verranno modificati i numeri della legge di bilancio, importa avere chiaro che dal 2011, da quanto sono entrate in vigore le procedure del Semestre europee, rese via via più stringenti , tutti i governi ‒ sia quello Monti, sia quelli Letta e Renzi ‒ hanno seguito le regole dell’austerità che essi hanno scelto in cooperazione con gli organismi dell’UE e hanno imposto al Parlamento e ai cittadini. A questo fine so servono i Trattati e i regolamenti dell’UE. Ora anche il ‘governo del cambiamento’, un governo del cambiamento reazionario, sottosta alle regole dell’UE, perché non è in grado di sottrarsi ai vincoli dei Trattati e regolamenti dell’UE.
Abbiamo davanti a noi due esperienze, una di estrema destra e una di sinistra – Di Maio-Salvini in Italia, e Tsipras in Grecia ‒, ed esse ci dicono chiaro che o si esce dai Trattati oppure a decidere continueranno ad essere i governi dell’UE (con il supporto della Commissione, della BCE, e del loro ordinamento burocratico-normativo), che imporrano ai membri riottosi le regole comuni dell’austerità, della deflazione salariale, della flessibilità della forza lavoro, delle privatizzazioni e liberalizzazioni.
Anche nella cd sinistra radicale è tempo di finire di giocare con le parole – ‘disobbedire ai Trattati’, ‘rompere i Trattati’, ‘sottrarsi ai vincoli dei Trattati’ … ‒ perché esiste una sola locuzione tecnico-giuridico che consente di liberarsi della camicia di forza voluta dai governi: ‘denunciare i Trattati’ secondo le procedure della Convenzione di Vienna, e così uscirne. Qualsiasi proposta di modifica, moderata o radicale che sia, dei Trattati rimane una pia illusione, wishful thinking, perché l’articolo 48 del TUE richiede, qualsiasi procedura si segua, l’unanimità degli Stati membri. Una via impercorribile. Oppure se si vuole rompere con l’UE seguendo l’art. 50 TUE, si finisce come il Regno Unito in balia di Bruxelles, che ha nelle sue mani il coltello delle trattative.
Solo uscendo dall’UE si può intraprendere un cammino di costruzione di un’Europa democratica – non di una sua ri-costruzione, in quanto mai c’è stata democrazia nel processo che ha portato all’UE. Un’Europa dei cittadini è possibile solo attraverso una Costituente europea che vari una vera Costituzione (non un Trattato tra Stati), con al centro i diritti, politici, sociali, di libertà di ogni persona, nativa e non nativa. È la sola via per spezzare il dominio del mercato, che si esercita tramite le istituzioni dell’UE, e per costruire una democrazia sovranazionale.
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