Ho letto questo articolo di Carlo Formenti https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/14088-carlo-formenti-l-ideologia-antistatalista-e-l-autodistruzione-delle-sinistre.html che è in buona parte condivisibile.
Tuttavia mi pare che nella sua posizione così come in quelle dei vari esponenti della neonata “sinistra sovranista” ci sia un eccesso di enfasi nei confronti dei concetti di nazione e di patria. Non è un caso che l’autore concluda l’articolo con una citazione del subcomandante Marcos che difende lo stato nazionale contro il tentativo di distruggerlo da parte del grande capitalismo transnazionale.
Ma è soltanto l’ultima in ordine di apparizione. Fino ad ora il più gettonato negli ambienti della suddetta sinistra sovranista è stato sicuramente Palmiro Togliatti, storico leader del PCI che – pur essendo “cosa” completamente altra rispetto a Marcos per cultura, formazione politica e contesto storico-politico – sosteneva la necessità di difendere e rafforzare lo stato nazionale che in Italia – è bene ricordarlo – scaturiva dalla guerra di liberazione contro il nazifascismo ed era il risultato di una gigantesca mediazione tra forze politiche nazionali e internazionali assai diverse che portò al “varo” della Costituzione Italiana.
Ora, la funzione delle citazioni è quella di individuare quei precedenti storici (autorevoli…) con i quali rafforzare e “giustificare” le proprie posizioni, specie quando queste sono tacciate dagli avversari di essere pericolose, ambigue o addirittura reazionarie. A mio parere è un atteggiamento di debolezza e non di forza, perché se si è veramente convinti delle proprie opinioni non c’è necessità di ricorrere ai suddetti “precedenti”, anche perché la storia e la politica non funzionano come la giurisprudenza e ciò che poteva essere valido per il passato potrebbe non esserlo più per l’oggi. Ma non è questo il punto che volevo ora trattare (e mi interessa anche poco).
Il punto, anzi, i punti sono altri. Prima però è bene chiarire alcune aspetti onde evitare equivoci e/o fraintendimenti.
Non ho un pregiudizio nei confronti dei concetti di patria e nazione (sarei anche un “cattivo” socialista e un “cattivo” comunista se li avessi…) che nella storia sono stati concepiti e interpretati in modi e forme estremamente differenti. Invito quindi a leggere (per non ripetermi) questi due articoli dove spiego la mia posizione che è tutt’altro che aprioristicamente contraria ai summenzionati concetti, che non considero affatto di destra o reazionari a prescindere come vorrebbe una certa vulgata di sinistra cosiddetta “radicale”:
http://www.linterferenza.info/editoriali/sul-concetto-patria/
http://www.linterferenza.info/editoriali/sul-concetto-identita/
Come prima cosa resta da chiarire se la posizione “nazionalista” di Togliatti fosse dovuta a ragioni ideologiche (come è per la “sinistra sovranista”) oppure semplicemente dettata dalla realpolitik, che finisce molto spesso se non quasi sempre a dettare le regole e a fare la politica. Ricordiamo che ci si trovava nel mondo diviso in blocchi; il PCI era ideologicamente e politicamente collocato all’interno del blocco sovietico ma geograficamente e concretamente collocato in quello occidentale. Il contesto internazionale, che vedeva una sorta di “pace armata” fra USA e URSS e l’impossibilità per le ben note ragioni di modificare quell’equilibrio, costrinse di fatto i comunisti (e non solo quelli italiani…), in totale accordo con Mosca, a percorrere la strada delle “vie nazionali al socialismo”. Questo per dire che, a mio parere, è ancora da stabilire – ammesso, sia chiaro, che abbia una sua importanza perché ciò che conta è sempre la effettiva e concreta determinazione delle cose – se la rivendicazione dei concetti di nazione e patria da parte dei comunisti italiani e di Togliatti fosse dettata da ragioni ideologiche o semplicemente da fatti contingenti (che sono sempre quelli che contano) che hanno concretamente portato ad una modificazione anche della strategia. Il dibattito, per quanto mi riguarda, è aperto. Resta il fatto che la stessa URSS era uno stato nazionale, anche se formata da tante diverse etnie e nazionalità, così come gli altri stati socialisti anche se di fatto e poi anche formalmente sottoposti a sovranità limitata (come, del resto i paesi europei occidentali aderenti alla NATO e non solo).
A mio parere questa questione è mal posta dagli stessi amici e compagni della “sinistra sovranista” che, in questo caso, così come sul modo di leggere e affrontare il nodo dell’immigrazione (ma su questo aspetto mi sono già pronunciato più volte e non voglio tornarci in questa sede per non ripetermi…), rischiano di essere contigui alla “destra (solo a parole) sovranista”.
Sembrerebbe quasi – per come la questione viene posta – che sia in atto uno scontro fra capitale transnazionale e liberista da una parte e stati sovrani e “statalisti” o comunque non liberisti dall’altra. Da una parte, quindi, il grande capitale che tutto vuole dissolvere, in primis gli stati nazionali, e dall’altra la resistenza di questi ultimi, come dei bastioni dell’anticapitalismo e dell’anti neoliberismo.
Ovviamente, se così stessero le cose, non resterebbe che schierarci dalla parte degli stati nazionali per contrastare la furia dissolutrice dell’ ”impero” capitalista sovra e transnazionale. Non sono uno sprovveduto e capisco che forse la posizione degli amici sovranisti sia diversa da questa semplificazione (in tal caso, si spiegassero meglio perché se non l’ha capita il sottoscritto è probabile che anche tanti altri siano nella mia stessa situazione…). E tuttavia, stando alla loro rappresentazione, sembrerebbe essere proprio questo lo scenario.
Ora, un conto è la critica (che condivido) all’antistatalismo anarcoide di una certa sinistra, ormai peraltro ridotta ai minimi termini, che individua nello stato solo e soltanto una istituzione repressiva e totalitaria sempre e comunque, e un altro è considerare lo stato stesso e gli stati come i bastioni, per definizione, della resistenza al capitalismo e all’imperialismo. Possono esserlo (e lo sono stati, a volte, nella storia), ma possono, ovviamente, anche non esserlo, come il più delle volte è invece accaduto.
E’ senz’altro vero che il capitalismo, specie in questa fase storica, tende a spogliare di autonomia e sovranità, spesso a sottomettere e talvolta a distruggere (con la guerra e/o processi di destabilizzazione violenta) gli stati nazionali, ma questo avviene solo in determinati casi, e comunque nella “periferia” (più o meno vicina o lontana) dell’ “impero”. Perché è proprio attraverso gli stati (naturalmente quelli dominanti) e i loro apparati militari, burocratici, mediatici e repressivi che il capitale afferma e consolida il suo dominio. A meno di non pensare che il capitalismo sia una sorta di entità astratta che vive e prolifera in una dimensione altra.
Forse pensiamo che il capitale abbia intenzione di dissolvere gli USA, la Gran Bretagna o Israele? Ma non scherziamo neanche. Questi tre stati (ma anche altri, ovviamente, seppur con funzioni talvolta relativamente minori) costituiscono la cabina di regia del capitalismo e dell’imperialismo mondiale e sono del tutto sovrapposti e identificati con il capitalismo stesso di cui sono lo strumento principale. La funzione degli stati resta, dunque, fondamentale, sia per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine sociale (capitalistico) all’ interno agli stati stessi, sia per quanto riguarda il controllo, la “prevenzione” e la eventuale repressione (guerra imperialista, colpi di stato, destabilizzazione ecc.) di guerriglie, movimenti di liberazione nazionali o semplici rivolte sociali, in tutto il mondo. Insomma, non credo di dire chissà quale novità se dico che lo stato è sempre stato lo strumento e l’espressione del potere delle classi dominanti. Il punto non è la sua dissoluzione (utopisticamente auspicabile, in linea molto teorica, in un ipotetico futuro remoto che, personalmente, non riesco neanche a concepire con la mia mente…) ma il suo controllo. O meglio, di chi lo controlla e lo rende strumento del proprio dominio.
Chi scrive è convinto altresì che il capitale (e quindi gli stati capitalisti e imperialisti), tende, soprattutto in questa fase (ma è accaduto anche nel XVIII, XIX e XX secolo, solo con strumenti e modalità meno sofisticate) a distruggere o comunque indebolire ogni forma di identità, a partire da quella di classe, naturalmente (quella che il capitale stesso teme di più), ma anche quelle culturali (e, oggi, addirittura sessuali…). E’ normale che sia così. Un popolo privato della sua storia, della sua cultura, dei suoi usi e costumi e, quindi, della sua identità, è più facile da sottomettere. Ma questo vale, appunto, per i popoli, i paesi e gli stati che devono essere posti in una condizione di sottomissione, non per gli stati dominanti. Pensiamo, ad esempio, agli USA e ad Israele. La forza di questi stati è data, oltre che dalla potenza economica e militare, dalla sovrastruttura ideologica che costituisce il collante con la “società civile”. La forza di questi stati – pensiamo soprattutto ad Israele (ma anche agli USA) – affonda le radici proprio nella loro identità culturale e religiosa, alla quale non potranno mai rinunciare, pena la loro scomparsa.
Sembrerebbe una contraddizione ma non lo è affatto. Se la storia, infatti, ci ha dimostrato una cosa, è che il capitalismo è un sistema (un modo di produzione ma non solo, perché provvisto di una fortissima capacità di penetrazione ideologica e di costruzione del consenso…) estremamente flessibile in grado di incistarsi e convivere con pressochè qualsiasi contesto culturale purchè questo non costituisca una fattore di disturbo o di ostacolo alla sua in linea teorica illimitata riproduzione (in tal caso lo si distrugge con la guerra o lo si sottomette con la forza). Ecco dunque, che abbiamo visto e continuiamo a vedere il capitalismo sposarsi e convivere serenamente con sistemi liberali così come con orrende dittature, con società fortemente laicizzate così come con contesti religiosi ultra fondamentalisti.
Quindi, anche in questo caso, sbaglia chi dice che il capitalismo ha nel suo DNA la distruzione delle identità a prescindere (così come chi pensa che capitalismo e libertà e democrazia siano indissolubilmente legati), perché così non è. Il capitalismo distrugge quelle forme identitarie che ostacolano, per varie ragioni, il suo dominio, ma ne preserva gelosamente altre. La realtà va sempre osservata e analizzata nella sua complessità; molto spesso, però, per ragioni fondamentalmente ideologiche, non lo si fa. Ma è un grave errore.
Anche per queste ragioni, mi sembra che l’eccesso di enfasi attribuito dai “sovranisti di sinistra” (li definisco tali, anche se impropriamente, per distinguerli da quelli di destra di cui non me ne importa assolutamente nulla perché li considero degli avversari diretti…) ai concetti di patria e di nazione sia decisamente fuori luogo. Mi pare che siamo di fronte ad un (maldestro, se devo essere sincero) tentativo di rincorrere la destra sul suo stesso terreno cercando di ricostruire un proprio profilo ideologico su presupposti, peraltro, anche molto datati. Il tentativo è ancora più maldestro se pensiamo che quella parte maggioritaria dei ceti popolari che ha votato sia per il M5S che per la Lega, non lo ha fatto certo per difendere gli ideali di patria e nazione, ma per cercare di trovare qualcuno che rappresentasse in qualche modo i loro bisogni e interessi sociali. Questa strategia assume contorni addirittura grotteschi se pensiamo che la Lega, che secondo i sondaggi ha già scavalcato il suo partner di governo (ancora per quanto?…) è un partito che per anni ha sputato sulla patria e sulla nazione italiana sostenendo (e continuando a sostenere) il secessionismo delle regioni ricche del paese all’insegna dell’egoismo sociale, del particolarismo localistico e degli attacchi costanti e continui alla Costituzione (che, oggi ipocritamente, sostengono di voler difendere…).
Se i sovranisti di sinistra credono quindi di poter ricostruire un dialogo con le masse popolari parlando di patria e nazione sono veramente fuori strada.
La vera questione che una nuova forza socialista dovrebbe porre al centro della sua analisi e della sua prassi politica, è quella di classe, naturalmente con la capacità e l’intelligenza di riproporla nelle forme nuove e adeguate che la realtà (cioè le trasformazioni del sistema capitalista, sia dal punto di vista economico e sociale che da quello ideologico e culturale) impone. Ed è proprio l’aver abbandonato questa questione – con la conseguente adesione al paradigma ideologico neoliberale – che ha portato la Sinistra (quella con la S maiuscola e senza virgolette) ad autodistruggersi ed a lasciare inevitabilmente campo libero alle forze populiste (che, ovviamente, non sono omogenee ma non posso entrare ora nel merito altrimenti dovrei scrivere un altro articolo ad hoc) nei confronti delle quali la neonata “sinistra sovranista” ha un atteggiamento fin troppo debole.
Mi pare, quindi, che in questo sforzo di ridefinirsi e di prendere le (doverose) distanze dall’attuale “sinistra”, sia nella versione liberal che in quella radical, questa area politica stia commettendo degli errori decisamente gravi, sia di ordine politico che analitico, interpretativo e ideologico.
L’ultima – ma non certo secondaria (direi anzi, clamorosa) – contraddizione degli esponenti (o di gran parte di essi) di questa area politica è la posizione nei confronti dell’ideologia politicamente corretta che in linea teorica sostengono di voler combattere in quanto funzionale e organica al sistema capitalista ma alla quale restano intimamente e indissolubilmente legati. Accettano di buon grado di essere tacciati di “rossobrunismo” per le loro posizioni sull’immigrazione o sul “sovranismo” ma non hanno il coraggio di mettere in discussione il femminismo che di quell’ideologia è uno dei mattoni fondamentali, a parte qualche tiepidissima e compatibilissima critica che lo stesso Formenti ha formulato in un suo libro nei confronti del neo femminismo attualmente dominante, mantenendo però intatta e anzi riconfermando la narrazione femminista in tutto e per tutto (fa eccezione l’amico e compagno Alessandro Visalli, dirigente di Patria e Costituzione, che ha recensito il mio libro e lo ha anche presentato a Roma insieme agli amici Pierluigi Fagan e Antonio Martone: http://tempofertile.blogspot.com/2018/11/fabrizio-marchi-contromano.html ). Se lo facciano per convinzione, opportunismo o codardia o per tutte e tre le cose insieme è del tutto irrilevante dal punto di vista politico e rimanda soltanto all’opinione personale che ciascuno di noi si fa degli altri.
Fonte foto: Vermi di Rouge (da Google)
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