Brexit accordo bocciato / Una batosta per l’Ue non per Londra
di IL SUSSIDIARIO (Paolo Annoni)
Il Parlamento inglese ha respinto la bozza di accordo con l’Unione Europea sulla Brexit presentata dal primo ministro inglese con 432 voti contrari e 202 voti favorevoli nella peggiore sconfitta di sempre per un primo ministro. Che l’accordo non sarebbe stato approvato era assodato e l’unica questione che rimaneva in sospeso era di quanti voti sarebbe stato lo scarto. Si pronosticava un numero compreso tra 100 e 200; sotto 100 sarebbe stata una clamorosa vittoria per Theresa May, sopra 200 una clamorosa sconfitta.
Nel caos attuale si procederà con ogni probabilità verso un voto di fiducia per l’attuale Governo che potrebbe aprire le porte a nuove elezioni. Nel frattempo è possibile che il termine per i negoziati con l’Unione Europea, 29 marzo, venga posticipato; ci sembrerebbe abbastanza folle un irrigidimento europeo su questo punto.
Ora, su questa vicenda vorremmo sottolineare due punti. Il primo è questo: il “caos” della politica inglese non è neutrale per l’esito della permanenza o meno della Gran Bretagna nell’Ue. Siccome c’è stato un referendum con un certo esito, qualsiasi “non decisione” ulteriore mantiene la Gran Bretagna sui binari di un’uscita dall’Unione. In assenza di un nuovo elemento politico che ribalti l’esito del referendum o lo annulli, in qualche modo si va verso un’uscita. Il “caos” da questa e dall’altra parte della Manica lavora nel senso di un’uscita. Questo è abbastanza chiaro.
Il secondo punto è che qualsiasi posticipo di una decisione non mette sotto i riflettori la Gran Bretagna, ovviamente, ma l’Unione Europea. E su questa vicenda c’è una confusione clamorosa perché noi siamo immersi, inevitabilmente, in una asfissiante propaganda europeista. La “Brexit” è stata dipinta nella narrazione maggioritaria come una battaglia tra le forze della reazione e quelle della rivoluzione, tra populisti/sovranisti ed “europeisti”, tra trogloditi e uomini sapiens; qualcuno ha opportunamente sollevato considerazioni di geopolitica inserendo il dibattito nel sempre più complicato rapporto tra “anglosfera” e Cina. Al cuore della questione, secondo noi, rimane sempre un giudizio sulla traiettoria dell’Unione Europea, in particolare dal 2008, e le sue prospettive.
Al di là dei disegni non detti, la Brexit è fondamentalmente un atto di sfiducia nei confronti dell’Unione Europea. Infatti, se non ci fossero dubbi sull’Unione, nessuno si sarebbe preoccupato di farci un referendum. È un dibattito che noi facciamo fatica a capire perché la discussione sull’Europa è inquinata da valutazioni su quello che vorremmo che fosse o che ci hanno detto che sarebbe stata ma che non è e continua a non essere. La discussione sui problemi dell’Europa è poi inquinata da un secondo problema: chiunque ne evidenzi i limiti o i difetti strutturali viene immediatamente rinchiuso nel recinto dei sovranisti/fascisti; in questo modo la discussione è congelata.
L’Europa come tale è stata non solo il blocco economico che è cresciuto di meno nello scenario globale, ma quello che ha mostrato i limiti di governance più evidenti soprattutto dopo la crisi del 2008. Le ricette economiche improntate sull’austerity hanno scavato faglie all’interno dell’Europa producendo disastri economico-finanziari e dando vita a squilibri politici crescenti tra i membri. L’austerity è una parola che abbiamo imparato a conoscere solo noi europei e che né Stati Uniti, né Cina o Giappone hanno mai contemplato. Oltretutto la sua applicazione arbitraria e “politica” è diventata strumento di lotta interna oppure ha salvato i creditori lasciando i debitori distrutti. Il modello economico fondato sulle esportazioni oggi manifesta tutta la sua fragilità. In un mondo che diventa più complicato i difetti di governance dell’Unione Europea rendono non solo la costruzione fragile, ma impediscono una crescita armonica e stabile.
Il dibattito sulla Brexit sarebbe impensabile se l’Unione Europea fosse un progetto in salute e funzionale. Ma siccome non lo è, siccome una sua riforma appare impossibile e siccome la sua costruzione appare particolarmente inadeguata per affrontare le sfide future, dall’economia alle migrazioni, allora aumentano gli incentivi ad abbandonarla. Non si abbandona la perfetta Europa dei nostri sogni, ma quella che c’è e ci sarà nella realtà di tutti i giorni. Gli unici che potrebbero salvarla sono, forse, i tedeschi, ma pagando con i soldi dei contribuenti tedeschi che finora hanno avuto tutto senza mettere un euro e a patto di cedere potere politico. Auguri.
Più passa il tempo, più l’Europa si irrigidisce nel suo attuale equilibrio politico e nelle sue attuali regole, più diventerà difficile proporla come alternativa valida. L’Europa che produce l’AfD piuttosto che i gilet gialli o i 5 Stelle al 50%, o la disoccupazione in Grecia al 25% per salvare le banche tedesche o francesi, o in cui è impossibile un approccio comune al tema dei migranti è il più grande sponsor per i brexiters. E sinceramente visto lo stato del dibattito al di qua della Manica sarà difficile opporre argomenti altrettanto spendibili. Oltretutto il tempo scarseggia per la velocità dei cambiamenti in atto nei commerci e nei rapporti politici globali.
L’Europa dei nostri sogni non c’è e quindi ha già fallito, vista la nuova fase internazionale; ci sembra servirebbe un grande atto di umiltà e realismo e tantissima lungimirante e buona politica per dare vita a un processo di riforma radicale in cui forse si può salvare una parte o il nocciolo del progetto originale, a patto di sacrificare una buona parte della costruzione attuale. Se non c’è un’iniziativa forte in questo senso, tutto verrà travolto dagli eventi e dalle pressioni esterne.
La Gran Bretagna è sui binari di un’uscita senza ulteriori elementi, esattamente come l’Unione Europea è sui binari di uno sfaldamento senza riforme radicali del suo assetto e dei suoi rapporti di forza interni.
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