LA VITA A NOLEGGIO. L’ESPROPRIO PROPRIETARIO.
Di BLONDET & FRIENDS (Roberto Pecchioli)
Il neoliberismo assomiglia sempre più al comunismo, almeno nella sua versione ad uso della massa. Per gli altri, loro pochi felici, banda di padroni, è tutta un’altra storia. L’ultima frontiera in ordine di tempo è la vita a noleggio. Basta con l’antiquata proprietà. Ciò che ci piace o di cui abbiamo bisogno possiamo noleggiarlo a tempo. E’ la nuova tendenza, anticipata da Tesla e dai costruttori di autovetture, che prevedono di conservare la proprietà dei veicoli, affittandoli ai consumatori sempre più al verde. La stessa idea avuta da Ikea, il gigante svedese dei mobili componibili, che prevede di noleggiare letti, divani e armadi. L’esproprio delle nostre vite prosegue a ritmi forzati.
Scrisse Tocqueville che si può giudicare il grado di libertà di una nazione dalla sua legislazione in materia di eredità. Missione compiuta: non ci sarà più bisogno di leggi, non lasceremo nulla in eredità, e a chi, poi, se abbiamo deciso di non avere figli? Comunismo realizzato con altri mezzi, almeno per la schiacciante maggioranza della specie animale chiamata umanità. Alcuni, i pochi felici, gli iperpadroni, ci stanno liberando dall’ingombro di possedere qualcosa di nostro: è tutto loro, i mezzi di produzione, come li chiamava Marx, ma anche le idee, i principi, le automobili, il mobilio, il bene per eccellenza, la casa.
A noi resta la possibilità di soddisfare la brama indotta di consumo noleggiando, prendendo in prestito oneroso ciò che ci aggrada, portafogli, pardon, carta di credito permettendo. In America, epicentro di ogni terremoto, sono di gran moda le mini case, quindici, venti metri quadrati, meno di un box. Costano meno, chi le affitta può moltiplicare i profitti, sono un desolante bunker per solitari. Giusto lo spazio per un letto, per la connessione informatica e un minuscolo bagno: praticamente, celle per ergastolani postmoderni.
Nicolàs Gòmez Dàvila, da fine osservatore della natura umana, prevedeva dopo la vittoria del comunismo, che la lotta, abolita la proprietà privata, sarebbe stata sull’uso e l’usufrutto della proprietà statale. Non teneva conto di due elementi: il trionfo del liberalcapitalismo e la sua epifania, ovvero la manifestazione della sua autentica natura. Per un verso, la tendenza al dominio e l’accentramento di tutto, potere, beni, merci, denaro, conoscenza in pochissime mani, secondo lo schema predatore/preda, dall’altro la medesima volontà tenace, prometeica, del comunismo, creare l’uomo nuovo. Anzi, due uomini nuovi: uno destinato a far parte dell’élite di comando, istruito, fortemente competitivo, antropologicamente distinto dalla massa anonima, il Proprietario globale, colui che possiede e riceve in eredità tutto. L’altro è il modello standard, l’umanoide sradicato con la valigia in mano, precario, a taglia unica, il nuovo Proletario, espropriato della vita, dell’identità, della trascendenza e naturalmente dei beni.
Il nuovo vangelo insegna che il possesso rovina tutto. Peccato che la lezione arrivi dai padroni globali, i quali chiedono a noi di condividere ciò che abbiamo ma si guardano bene dal praticare il principio. Secondo l’ammiraglia mondiale del progressismo liberista, il New York Times, i più giovani, i millennials, amerebbero dormire su materassi ad acqua per sentirsi “più sospesi”. Temiamo che sia piuttosto una profezia che si autoavvera, una moda indotta da chi ha interesse a regnare su generazioni spaesate, fragili, mobili. Zingari della vita persino nel sonno, chissà se i materassi sono a noleggio, forniti da Airnbnb, la piattaforma degli affitti immobiliari brevi. Non dobbiamo affezionarci a nulla, neppure alla nostra casa, ancor meglio se non abbiamo affatto una casa. Bagaglio leggero, un trolley e via.
Questa settimana lavoriamo a Milano, poi un periodo di disoccupazione che cercheremo di riempire con qualche lavoretto tipo consegna di cibi di strada ad altri disadattati e, per i più bravi, il telelavoro, sfruttando qua e là le connessioni wifi. Il mondo è un circo dal tendone smontabile, proibita la stabilità, vietato radicarsi in un luogo e in una cultura. Affittare gli oggetti, anche intimi, significa escludere di poterli amare, sentirli parte di noi, vivere tutto in termini strumentali, un presente continuo in corsa tra piazzole di sosta, il viaggio, anzi lo spostamento come scopo, non più homo viator, neppure pellegrino della vita, ma migrante senz’anima. Le strade come condotte, i luoghi come rifugi momentanei, le cose da mordere, spremere e gettare, ovvero restituire a chi le ha fornite previo pagamento dell’importo stabilito. La vita intera è un taxi, un noleggio con o senza autista, come Uber. Le piattaforme virtuali diventano supermercati, i gusti sono cangianti, liquidi. A marzo, in Croazia, mi piacerà il divano di Ikea, ma mi verrà a noia a Palermo il mese dopo.
La generazione Erasmus, (dis)educata a sentirsi cittadina del mondo, ovvero del nulla, è precaria e guadagna poco. Difficilmente potrà comprarsi una casa, meglio convincerla a non avere nulla di suo, stabile, un nido da amare, un luogo dove tornare. Viandanti del nulla dipendenti dal consumo, innamorati di nulla e di nessuno, solo relazioni veloci. Del nostro passaggio nel mondo non deve restare nulla di forte, tantomeno di “nostro”. Siamo ombre, spettri a dimensione unica, l’unica traccia permessa è quella informatica.
Mezzo secolo fa lo cantava Patty Pravo: “Oggi qui domani là io vado e vivo così; senza pene vado e vivo così, casa qui io non ho, ma cento case io ho. Oggi qui domani dove sarò, qui e là io amo la libertà. Io amo la libertà e nessuno me la toglierà mai, oggi qui domani là, mi piace andare così, senza freni vado e vivo così.” Obiettivo raggiunto: la generazione di Imagine ha vinto cambiando bandiera. Dal rosso di allora all’arcobaleno liberal progressista. Senza più un tetto, si illudono di essere di casa ovunque. Dicono di vivere “senza pene”, cioè sfuggono la realtà, ma hanno orrore della responsabilità, non vogliono farsi carico di nulla. Lasciateci in pace, piagnucolava un ridicolo lenzuolo accanto alla bandiera arcobaleno.
Per loro la libertà sta in quel verbo multiuso: andare. “Senza freni vado e vivo così”. Sono dei fuoriusciti, espatriati dalla civiltà, dalla storia, dalla stessa condizione umana. Gli astutissimi padroni che li hanno voluti così stanno estirpando loro persino la volontà di costruire qualcosa di proprio. Precari, non ottengono un mutuo per la casa, ma a che serve se devono vivere “senza pene” con la valigia in mano? Meglio affittare il mobilio per la stanza di Airnbnb e, una volta racimolati un po’ di quattrini, affittare l’automobile di lusso e abiti griffati. Così, per una settimana, un giorno, un’ora, fingeranno di essere quel che non sono, vivranno, in sostanza, la vita di un altro. Ritornano persone nel senso antico del termine: maschere.
Al mondo liquido non serve la proprietà. Per quella ci sono loro, gli iperpadroni che forniranno i beni di consumo del momento, trattenendo direttamente il nolo dal conto scalare iscritto oggi in una card, domani sul microchip sottocutaneo, lo stesso in cui accrediteranno i compensi dei mille lavori flessibili che chiamano libertà ( e nessuno me la toglierà mai, urlano! ) e il reddito di base con consumi obbligati – basterà istruire l’algoritmo – che offriranno graziosamente per evitare rivolte e tirare avanti il carro di Tespi del consumo. Affermiamo da anni che dobbiamo difendere la proprietà e la libera iniziativa dai liberisti, non più dai comunisti d’antan. O forse, sono gli stessi con travestimenti diversi.
La proprietà di qualcosa, in particolare della casa, del terreno su cui coltivare, il risparmio operoso volto a obiettivi di miglioramento della condizione nostra e di chi amiamo, il diritto di intraprendere un’attività senza essere strozzati dalla burocrazia e espulsi dal mercato monopolio dei giganti, sono potenti elementi di crescita, libertà, responsabilità, senso morale, spirito civico, coesione sociale. Inoltre, sono le radici di un’esistenza davvero umana. Il fallimento epocale del collettivismo ne è la prova concreta ed è la speranza che, prima o poi, andrà a schiantarsi anche il treno ad alta velocità a binario unico del liberalcapitalismo. Il comunismo intendeva costruire l’uomo a una dimensione privato dell’avere. Il liberalismo classico, disinteressato all’essere, vive una degenerazione che esige di tenere tutto per sé, raggiungendo in disumanità il comunismo.
In lingua tedesca, la terra natia è detta heimat, la stessa radice di heim, casa. Nulla vi è di più istintivo e profondo dell’amore di ciò che sentiamo nostro, materialmente e spiritualmente. La patria, estensione della casa, non è un locale preso in affitto, un luogo di transito casuale, identico o intercambiabile con ogni altro. Ci espropriano di una vita degna screditando l’idea di possesso che riservano a se stessi. Usa, paga e restituisci, ma chi non ha nulla è sradicato e non costruisce per il futuro. Si limita a mordere il presente, cogliere il succo fino all’ultima goccia, nulla per gli altri, neppure per i figli.
Notava Marcello Veneziani che una differenza tra il passato e il presente sta nell’idea che abbiamo dei figli. Per l’uomo di ieri e di sempre, erano il riflesso di se stessi nel futuro, per l’individuo di oggi un ingombro, l’ostruzione del “mio” futuro. Senza la proiezione in avanti non si crea, si esaurisce tutto nell’oggi, non si costruisce alcuna civiltà duratura, solo estenuate civilizzazioni con luce artificiale. Non si ha neppure il desiderio della bellezza e dell’arte, che è trascendenza, tensione verso l’alto, spinta ad andare oltre. L’obsolescenza e l’oblio diventano obblighi, tutto è a breve scadenza, l’economia, gli investimenti, le preferenze, le relazioni, i colori dei divani dell’Ikea e gli yogurt sul bancone del supermercato. Per il gusto di massa, basta la moda imposta dal sistema di intrattenimento. Domani, i pochi ancora in grado di pensare si meraviglieranno della stranezza delle preferenze di ieri, tutti gli altri continueranno la corsa senza prendere fiato.
Qualcuno vince e ci usa come materiale. I proprietari di tutto non credono affatto alle idee che diffondono alla plebe sottostante. Tuttavia, neanche loro vivono bene, sempre più asserragliati nelle loro proprietà tra sensori e filo spinato, guardie armate e divieti di accesso per noi. Più astuti dei comunisti di ieri, ci drogano di false libertà, ma nei fatti siamo solo liberi di correre in tondo come il criceto nella gabbia, simili ai rematori dei galeoni al ritmo del tamburo. E se io rivendicassi la libertà di stare fermo, contemplare, amare, riflettere sulla mia finitudine che conduce a Dio?
Nel mondo in affitto, non possiamo essere nulla ma possiamo avere tutto a pagamento per un attimo, per poi desiderare qualcos’altro. Ma niente deve essere nostro, nulla deve rimanere di noi, neppure il ricordo. I nostri benevoli padroni non vogliono e ci fanno credere che questa è la vita, la felicità, il destino naturale. Tra valigie fatte e disfatte, consumo e piacere rapido e obbligatorio, l’uomo torna bestia senza l’innocenza dell’animale: vite ridotte a strani, oscuri interludi sullo schermo elettrico di Dio Padre (Eugene O’Neill). O sul lussureggiante showroom del Dio Mercato, ultimo monoteismo.
ROBERTO PECCHIOLI
Fonte: https://www.maurizioblondet.it/la-vita-a-noleggio-lesproprio-proprietario/
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