Gianna difendeva il suo salario dall’inflazione
di JACOBIN ITALIA (Francesco Massimo)
Trentacinque anni fa San Valentino fu celebrato da un “accordo” che pose fine alla storia d’amore dell’unità sindacale. Iniziava il contrattacco industriale contro i lavoratori, tagliando l’istituto della scala mobile dei salari
Il 14 febbraio del 1984, le coppie celebravano San Valentino, ma a parte questo il mondo era un posto un po’ diverso da oggi. Per esempio, in quegli anni in Italia c’era la scala mobile e tutti sapevano cos’era.
La scala mobile era uno strumento tecnico-giuridico per salvaguardare il potere d’acquisto dei salari adeguandoli automaticamente all’aumento del costo della vita (misurato con il tasso di inflazione). Come la Cassa Integrazione Guadagni, la “scala mobile” o, più precisamente, l’indennità di contingenza, venne istituita subito dopo la guerra come dispositivo dal preciso carattere provvisorio. Invece, insieme alla Cassa Integrazione, divenne una delle architravi delle relazioni industriali e del sistema retributivo in Italia. Non esisteva solo nel nostro paese ma anche in Francia, Belgio, Danimarca e Olanda. In Italia era stata istituita nel dopoguerra quando l’inflazione era molto alta e il movimento operaio sufficientemente forte da proteggere il salario da un’erosione eccessiva. Tuttavia, alla fine degli anni Settanta, divenne l’oggetto di un infuocato dibattito, che si inasprì negli anni successivi, portando a profonde lacerazioni nel campo sindacale.
In quegli anni sulla scala mobile si stava consumando lo scontro decisivo nel processo di ristrutturazione del capitalismo italiano. Ma perché proprio la scala mobile? Quel meccanismo automatico di adeguamento salariale rifletteva i due conflitti che avevano plasmato il rapporto fra capitale e lavoro in Italia: il conflitto distributivo (come si distribuisce il valore realizzato?) e il conflitto produttivo (come si crea valore nella produzione?). Questo perché serviva a difendere i salari dall’inflazione (intervenendo sul conflitto distributivo) e andava ad accorciare i divari retributivi fra settori e qualifiche, intervenendo in tal modo anche sul conflitto produttivo (in particolare per quanto riguarda le qualifiche), poiché poteva ridurre le distanze retributive fra operai non specializzati e capireparto.
Piccola storia della scala mobile
La storia della scala mobile in Italia può essere divisa in tre fasi, ciascuna corrispondente a un diverso funzionamento del meccanismo e al differente momento storico.
Prima fase 1945-1951: la scala mobile nella ricostruzione
L’indennità di contingenza venne istituita con gli accordi interconfederali del 6 dicembre 1945 per le province del Nord e del 23 maggio 1946 per quelle del Centro-Sud. L’accordo venne sottoscritto fra la Confederazione dei lavoratori (la Cgil unitaria di Giuseppe Di Vittorio) e quella degli industriali (Confindustria, allora guidata da Angelo Costa). Il funzionamento del meccanismo era il seguente: la retribuzione era divisa in due parti aventi definizione e discipline diverse. La prima parte, la paga base, era fissata dagli accordi sindacali di categoria e variava in funzione del luogo, del sesso, dell’età e della qualifica dei lavoratori. La seconda parte, l’indennità di contingenza, variava in rapporto fisso con l’andamento dei prezzi, ed era stabilita in maniera uguale per tutte le qualifiche, ma con discriminazioni per zona, sesso ed età.
Seconda fase 1951-1975: consolidamento e prime controversie
L’accordo del 21 marzo 1951, riformò sostanzialmente il meccanismo, differenziandolo per qualifiche e settore produttivo. In primo luogo, si stabilì un unico indice nazionale del costo della vita. In secondo luogo, si passò dal “rapporto fisso” al sistema dei “punti”. L’indennità di contingenza veniva cioè maggiorata mediante lo scatto di tanti punti quanti corrispondevano alle unità di variazione dell’indice del costo della vita. I valori dei “punti” variavano a seconda della retribuzione media di ogni singola qualifica. Questo serviva a evitare l’“appiattamento salariale” generato dal sistema precedente, in cui gli aumenti erano uguali per tutti e la parte del salario dovuta alla contingenza diventava preponderante. Accanto alla distinzione per qualifica venivano confermati differenti punti per uomini e donne oltre che per età.
Nonostante fosse rapidamente diventata uno dei cardini del sistema retributivo italiano, la scala mobile fece discutere sin dall’inizio. Già all’epoca era stata accusata di favorire l’aumento dell’inflazione. In realtà, come sostenuto nel 1952 da Ruggero Spesso su un’autorevole rivista economica (Moneta e Credito vol. 5 n. 19-20) era vero il contrario: nella fase analizzata da Spesso «il senso dell’evoluzione dei prezzi [era] sempre dipeso da fatti estranei al campo salariale». E ancora: «Se si considera la fase iniziale del processo inflazionistico, appare che l’aumento del costo della vita ha anticipato quello dei salari nominali». Come poi accadrà con lo shock petrolifero del 1973, saranno eventi esterni a determinare un’accelerazione dell’inflazione, e non i salari: negli anni Cinquanta fu la Guerra di Corea (1950-1953) a provocare un aumento dei prezzi. Come viene ricordato nel medesimo articolo «la tesi che la scala mobile abbia costituito in Italia un fattore primario per il rialzo dei prezzi è contrastato dalla stessa rivista pubblicata dalla Confederazione Generale dell’Industria». C’è dell’altro: non solo la scala mobile non era il fattore primario del rialzo dei prezzi, ma essa, per una serie di ragioni, non garantiva il recupero completo del potere d’acquisto rispetto all’inflazione. Comunque, nonostante la parzialità dei suoi effetti, divenne un meccanismo vitale di salvaguardia, almeno parziale, del potere d’acquisto delle classi lavoratrici, un architrave che regolava il conflitto distributivo permanente tra capitale e lavoro. Da questo punto di vista era un prezzo persino scontato che gli industriali pagavano per garantirsi la pace sociale. In effetti, i datori di lavoro non erano ostili a un meccanismo automatico. Questo perché, come ricordato da Bruno Trentin, Segretario geneale della Cgil, tradizionalmente, almeno fino agli anni Novanta (prima del protocollo Ciampi) i datori di lavoro italiani hanno sempre considerato la centralizzazione delle relazioni industriali come una «protezione necessaria e, in certi casi come una vera alternativa a ogni forma di negoziazione decentralizzata sui luoghi di lavoro e sul territorio» (La città del lavoro: Sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli, 1998). La scala mobile era stata concessa di buon grado dagli industriali per evitare periodiche, estenuanti trattative. Infatti, di fronte a una perdita del proprio potere d’acquisto, i lavoratori, non avrebbero avuto altra via, per recuperare potere d’acquisto, che quella del conflitto industriale, che per i datori di lavoro avrebbe significato migliaia di ore di lavoro perse in scioperi il cui costo si sarebbe sommato a quello delle concessioni salariali.
Terza fase 1975-1982: la scala mobile è uguale per tutti
Queste ragioni di opportunità divennero ancora più importanti nel determinare l’accordo Lama-Agnelli del 24 gennaio 1975. Cosa era successo? In Italia il sindacato era più forte che mai, e il nucleo centrale erano gli operai non specializzati della catena di montaggio, o operai-massa, che avevano costituito il nerbo dello schieramento operaio nel corso delle lotte del 1962 e dell’Autunno caldo del 1969. Nei primi anni Settanta però due eventi avrebbero scosso questo schema di lettura dalle fondamenta: la fine del regime dei cambi fissi di Bretton Woods (decisa unilateralmente dal Presidente americano Nixon mentre gli Stati Uniti perdevano il Vietnam) e il primo shock petrolifero del 1973 (un aumento improvviso dei prezzi del greggio voluto dai paesi arabi associati all’Opec in solidarietà a Siria ed Egitto in guerra con Israele). Gli aumenti vertiginosi del prezzo del petrolio provocarono un’impennata dell’inflazione, che in primo luogo falcidiò il potere d’acquisto di tutti salari. Questo effetto si fece sentire di più sui salari più modesti che, come abbiamo già visto, avevano un punto di scala mobile inferiore. Questo shock esterno portò a delle forti divergenze salariali, che colpivano proprio la base sociale del sindacato e senz’altro la parte più attiva. Diventava prioritario rimediare a questo squilibrio e così, dopo una trattativa molto dura culminata con lo sciopero del 22 gennaio 1974, si arrivò a un nuovo accordo interconfederale del 24 gennaio 1975. Si tornava a un approccio egualitario, adottando il “valore unico”, cioè uguale per tutte le categorie di lavoratori, del “punto di contingenza”; inoltre l’accordo introduceva modifiche tecniche nel calcolo dell’indice sindacale del costo della vita. «Con l’accordo del 1975», affermava Gino Faustini nel 1976, «si è voluto attribuire al metodo di adeguamento dei salari un terzo scopo: ridurre i divari retributivi» (Moneta e Credito, vol. 1976 , N. 115). Sebbene sia stato battezzato “Accordo Lama-Agnelli”, il principale ispiratore del “punto unico” non fu il segretario della Cgil, ma quello della Cisl, Pierre Carniti. Carniti sosteneva una linea che all’epoca veniva definita, in maniera alquanto dispregiativa, “egualitarista”. Al contrario Lama e la Cgil cercavano di temperare l’“egualitarismo” con il principio della “valorizzazione delle professionalità” e quindi proponevano “almeno” due punti di contingenza, distinti per qualifica. Il dilemma era tra proteggere i salari più modesti e non inimicarsi le categorie professionali intermedie, minacciate da un appiattimento salariale. D’altra parte, dell’urgenza di un provvedimento che permettesse un recupero del potere d’acquisto, era consapevole anche Gianni Agnelli, che allora guidava non solo la Fiat ma anche Confindustria. Di fronte a un sindacato forte e con una base permanentemente mobilitata, rifiutare una rivalutazione automatica dei salari avrebbe significato una conflittualità endemica. Un meccanismo automatico invece avrebbe permesso almeno di evitare un’ondata di scioperi e vertenze in un clima socio-politico di per sé altamente conflittuale in tutto il Paese. Agnelli, quindi, cedette ma dichiarò la sua preoccupazione «che il sistema industriale si trovi a dover subire seriamente i contraccolpi di un accordo che si prospetta obiettivamente in termini di notevole aumento del costo del lavoro». L’accordo sul punto unico, fu costoso, certo, per gli industriali, ma altrettanto necessario. Con quell’accordo comprarono il tempo necessario a riorganizzarsi e contrattaccare. Il sindacato, invece, fu soddisfatto: aveva mostrato alla propria base di saper proteggere i salari e dato prova agli industriali e al governo della sua forza negoziale. Tant’è che subito dopo concesse a Confindustria di ritardare l’unificazione del punto di contingenza al febbraio 1977.
Il Pci nel dibattito economico sulla scala mobile
Subito dopo la firma, l’accordo finì sotto attacco. A battere per primo un colpo fu l’insigne economista del Mit (Premio Nobel nel 1985) Franco Modigliani con due lettera al Corriere della Sera (3 e 9 febbraio 1975) nelle quali paventava l’arrivo di un’ondata inflattiva provocata dalla scala mobile. Nel corso degli anni successivi Modigliani intervenne spesso nel dibattito politico, insistendo sulla necessità di ridurre il costo del lavoro. Modigliani era un illustre e influente economista, sia negli Stati Uniti che in Italia e le sue parole ebbero una forte risonanza, persino su molti dirigenti del Partito comunista. Così, nel 1976 Modigliani ebbe l’opportunità di sostenere le sue tesi proprio a un convegno organizzato dal centro studi del Pci (il Cespe). Questa apertura del Pci era determinata da due ragioni: una, strutturale, era la tradizionale debolezza della cultura economica marxista all’interno del Partito: buona parte del Pci stava accettando l’idea che il costo del lavoro fosse la causa scatenante dell’inflazione e che la moderazione salariale fosse ormai necessaria. Un’altra ragione, più contingente, era legata alla strategia del “compromesso storico”. Questi due aspetti spinsero il Pci e il sindacato a offrire agli industriali, al governo e alla Banca d’Italia una politica di moderazione salariale. Una strategia, quella dei “sacrifici”, culminata sindacalmente nella cosiddetta “Strategia dell’Eur” (annunciata il 13 e il 14 febbraio 1978 all’Assemblea unitaria dei quadri e dei delegati sindacali) e nei governi di solidarietà nazionale (luglio 1976-marzo 1978) sul piano parlamentare.
In realtà, fra gli economisti, c’erano alcune voci di dissenso rispetto a questa lettura dello sviluppo economico. Tra queste, quella di Augusto Graziani. Secondo Graziani, e come ricostruito più recentemente dallo storico Francesco Cattabrini, il Pci rinunciava a una lettura autonoma e marxista della realtà, interiorizzando invece le categorie e i principi dell’economia politica marginalista. Graziani, insieme ad altri economisti, sottolineava come la scala mobile non avesse generato inflazione, come si diceva allora senza alcuna evidenza. L’inflazione era il risultato di uno shock esogeno. Certo questo shock stava mettendo in crisi il meccanismo della scala mobile, ma senza questo meccanismo i costi dell’inflazione sarebbero stati tutti a carico dei redditi dei lavoratori. Inoltre c’era un altro aspetto essenziale della crisi inflazionistica che veniva trascurato nel dibattito pubblico: quello che l’inflazione stava determinando era uno scontro tra sfere produttive, l’industria da un lato e i servizi e la finanza dall’altro. A metterlo bene in evidenza nel 1977 fu un giovane economista, Roberto Convenevole, allievo di Graziani, in Processo inflazionistico e redistribuzione del reddito (Einaudi, 1977). Come riassumeva Graziani nella prefazione al libro, «il punto di crisi centrale […] non è più quindi l’aumento del salario, né il ridursi del profitto globale, bensì un fenomeno di spostamenti di profitto, effettuato dall’inflazione, a danno del capitale industriale e a favore del capitale finanziario e commerciale. La visione dell’economia italiana di oggi non è più soltanto quella, così ampiamente divulgata, di una società lacerata da un conflitto tra salario e profitto; ma anche, quella, assai più articolata, di un’economia dominata da conflitti interni al padronato. La battaglia che il padronato sta conducendo per la riduzione del costo del lavoro appare in quest’ottica come una battaglia riflessa, che trova la sua giustificazione non solo nell’avanzata dei salari, ma anche nella crescita dei gruppi finanziari, ed è volta a recuperare, ai danni dei lavoratori, quote di reddito che sono state sottratte al profilo industriale da altre parti». Ma questa lettura era destinata a rimanere inascoltata nel Pci e nella Cgil, i cui dirigenti non sembravano interessati a mettere in discussione la strategia della moderazione salariale, che resse fino al 1979.
Restaurazione capitalistica
Il sequestro e l’uccisione di Moro (1978) cambiarono tutto. Il Pci venne risospinto all’opposizione, le azioni terroristiche non si arrestarono e la lotta al terrorismo portò a un’ondata repressiva nelle università, nelle fabbriche e nelle strade. Il sindacato era ancora potente, ma la svolta dell’Eur, per quanto effimera, aveva logorato i rapporti fra vertici e base. Le nuvole della restaurazione capitalistica si addensavano all’orizzonte e dal 1979 avanzò a tappe forzate. In quell’anno l’Italia entrò nel Sistema monetario europeo (Sme), che «si prospettava fin dall’inizio come un’area di tendenziale deflazione che, per perseguire la stabilità del cambio, poneva in secondo piano lo sviluppo dell’occupazione e del reddito» (Donatella Strangio, “Le politiche monetarie in Italia dalla ‘Golden Age’ alle ‘oil crises’”, in Moneta e Credito, vol. 70, 2017). Il 9 ottobre dello stesso anno la Fiat ruppe gli indugi e iniziò il contrattacco contro i sindacati con un’iniziativa delle più clamorose: spedì sessantuno lettere di licenziamento ad altrettanti suoi lavoratori, accusandoli di violenze e disordini. I sindacati furono colti di sorpresa, organizzarono uno sciopero che però non raccolse grandissime adesioni, e questo confortò il gruppo dirigente della Fiat, Cesare Romiti in testa, nel perseguire la linea dura. Nel movimento sindacale si sentì distintamente un “crac”. Romiti e gli Agnelli capirono che era il momento di affondare il colpo e meno di un anno dopo, nell’estate del 1980, la Fiat annunciò, e poi confermò in settembre, 13 mila licenziamenti. Fu l’inizio della battaglia dei “35 giorni” e la posta in gioco era altissima: licenziamenti di massa e una sfida clamorosa al sindacato. Questa volta l’atteggiamento del Pci fu diverso: marginalizzato all’opposizione non aveva più prospettive di accesso al governo e decise di prender parte allo scontro. Sollecitato da un operaio durante un’assemblea, Berlinguer avallò apertamente l’ipotesi di un’occupazione degli stabilimenti Fiat. Il braccio di ferro si protrasse lungo. A porvi fine fu la celebre “Marcia dei Quarantamila” quadri Fiat nelle strade di Torino in sostegno all’azienda. Fu una sconfitta epocale, per la generazione di operai protagonisti dell’Autunno caldo, per il sindacato e per il Pci: tutti ne uscirono indeboliti, mentre la Fiat trionfava e restaurava il proprio potere all’interno della fabbrica, lanciando un segnale: l’attacco frontale al sindacato era la strada da percorrere. Intanto il filo degli eventi continuava a dipanarsi. Nel 1981, il divorzio Tesoro-Banca d’Italia, imponendo una nuova fase di austerità fiscale, segnò un’altra tappa nel processo di ristrutturazione del capitalismo italiano. Nello stesso anno il dibattito sulla scala mobile si riaccese. Intervennero Ezio Tarantelli, Franco Modigliani, Mario Monti e Paolo Sylos Labini. Tarantelli in particolare lavorava a una proposta di riforma sulla quale inizialmente dovevano essere d’accordo tutti i sindacati. Infatti, dopo un anno e mezzo di trattativa, la notte del 22 gennaio 1983, i sindacati, gli industriali e il governo firmano un primo accordo di revisione della scala mobile, che tagliava del 15% il punto di contingenza. I sindacati ottennero delle contropartite (aumento assegni familiari e modifiche al sistema fiscale). L’obiettivo, era contenere il tasso di inflazione del 1984 entro il 10%. Nel mentre però il fronte sindacale, per la prima volta da decenni iniziò a sfaldarsi: la Cisl era pronta a negoziare una nuova modifica. La Cgil invece si arroccò. La scala mobile sarebbe divenuta la sua “Linea Maginot”.
Quel che accadde fu che la Cisl, insieme alla Uil, decise di accettare il taglio di altri punti. Il 12 febbraio 1984 il governo, guidato da Craxi, formalizzò la proposta di un ulteriore taglio alla scala mobile. Il 14 febbraio viene firmato un accordo separato (non accadeva da trent’anni): è quello che sarebbe passato alla storia come “Accordo di San Valentino”. A sancire la validità dell’accordo – e ad approfondire il solco fra le organizzazioni sindacali – il governo intervenne d’urgenza e lo trasformò in un decreto legge. Era la rottura definitiva: il 14 febbraio 1984 finì la lunga storia d’amore dell’unità sindacale. La Cgil si mobilitò e il 24 marzo la maggioranza (comunista) della confederazione convocò a Roma un’imponente manifestazione cui partecipò un milione di persone. Ma Craxi e Confindustria avevano giocato bene la loro partita. La Cgil, isolata e spaccata al suo interno, subì l’iniziativa del Pci, che, come durante i “35 giorni” alla Fiat, intervenne ad alzare la posta: Berlinguer scelse la strada del referendum. La raccolta firme venne promossa dal Pci e da Democrazia proletaria, mentre la Cgil, immersa nella grave crisi dovuta al collasso dell’unità sindacale e alla spaccatura interna con la minoranza (socialista) era paralizzata. Malgrado la difficoltà del momento Lama restò lucido, intravide il peggio in arrivo e cercò di non esporre, per quanto possibile, la Cgil a una campagna referendaria tesissima (contestazioni, scontri verbali e di Piazza e, da ultimo, l’omicidio di Tarantelli da parte delle Brigate rosse). A differenza del Pci, che era sicuro della vittoria, il segretario della Cgil intuiva la sconfitta, che arrivò come una doccia fredda a spegnere le velleità conflittuali del Pci, giunte ormai tardivamente.
Al referendum del 9 e 10 giugno 1985 l’affluenza fu alta, quasi 35 milioni di italiani su 44 andarono a votare (il 77,9%). Con il 54,3% dei NO e il 45,7 dei SI l’abrogazione venne bocciata. Fu una grande vittoria per Craxi, il quale non aveva esitato a delineare uno scenario a tinte fosche in caso di vittoria del SI, e anche per la svolta neo-corporativa di Carniti e della Cisl. La scala mobile avrebbe continuato a esistere, menomata, fino al 1992, quando, con un nuovo accordo firmato il 31 luglio (il Protocollo Amato), sindacati, industriali e governo, concordarono la sua definitiva abolizione. Anche in quel caso la crisi interna al sindacato fu drammatica: Trentin, segretario generale della Cgil, firmò e immediatamente rassegnò le dimissioni. Una parte della base non accettò l’accordo, e ci furono scissioni e abbandoni. Si entrava in una fase nuova.
Dopo trent’anni una nuova questione salariale
Oggi a distanza di anni l’inflazione non rappresenta più una minaccia (almeno per il momento). Ciononostante sta emergendo una nuova questione salariale. Nell’ultimo trentennio i salari hanno ristagnato e la quota di reddito destinata al lavoro è arretrata rispetto a quella dei profitti. Alla stagnazione salariale si è aggiunta la precarizzazione del lavoro. Secondo la grammatica economica neoliberale, maggiore flessibilità e minori salari avrebbero dovuto aumentare l’occupazione e favorire la “crescita”. Ma questa promessa non è stata realizzata. Eppure, in cambio di una promessa molto era stato chiesto e sottratto a chi lavora (come a chi un lavoro non ce l’ha). Di fronte a questo panorama disastroso non serve, almeno in questa fase, una nuova scala mobile, ma serve raccoglierne l’eredità. In altre parole, è importante un’iniziativa politica che consenta di riaprire il dibattito su salario e condizioni di lavoro, capovolgendo i termini del discorso dominante e i rapporti di forza nel conflitto distributivo e produttivo. In Italia e non solo.
*Francesco Massimo, romano, fa ricerca a Parigi. Legge e scrive di lavoro, relazioni industriali e movimenti sociali.
Fonte: https://jacobinitalia.it/gianna-difendeva-il-suo-salario-dallinflanzione/
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