L’unità nazionale è in pericolo? E se sì, perché?
di FEDERICO DEZZANI
L’Italia vive uno dei momenti più difficili dal secondo dopoguerra: una nuova recessione trova il Paese ancora sotto i livelli di produzione del 2009, appesantito da un debito pubblico in costante crescita e isolato sul piano internazionale. Parallelamente, continua l’iter per l’autonomia delle regioni del Nord, avviato con i referendum dell’autunno 2017: sebbene nessun governatore parli esplicitamente di secessione, non c’è alcun dubbio che l’iniziativa indebolisca ulteriormente un sistema-nazione già molto fragile. La secessione mascherata delle regioni del Nord è solo un effetto collaterale della crisi o nasce da un disegno geopolitico? Per rispondere al quesito non si può che spostare l’analisi a livello internazionale e riflettere sugli equilibri post-UE.
Niente “Via della Seta” per la Sicilia…
Nessuno potrà negare che questi anni siano inquieti e tormentati. Grandi cambiamenti sono in corso ed è probabile che cambiamenti ancora maggiori siano imminenti. Districarsi in simili situazioni è come scalare la vetta impervia di una montagna: bisogna trovare solidi appigli e, di lì, fare piccoli movimenti, evitando pericolosi salti: solo così si potrà arrivare in cima senza perdere l’equilibrio. Analizzare l’attuale situazione dell’Italia richiede un simile approccio.
Partiamo da qualche dato di fatto, che esporremo senza alcuna vis polemica. L’Italia sta vivendo il momento più difficile dal secondo dopoguerra: forse, a giudicare da alcuni parametri come il livello delle nascite, addirittura dall’Unità del 1861. La crisi economica del 2009 ha trovato un Paese già fragile e la successiva dose di austerità imposta per riequilibrare la bilancia commerciale, ha spinto il PIL così in basso che, tutt’ora, è sotto il livello di dieci anni fa. Nel frattempo il debito pubblico, come facilmente prevedibile, è lievitato per la spesa in funzione anti-ciclica (dagli assegni di disoccupazione ai salvataggi bancari), raggiungendo livelli di guardia. Come se non bastasse, il Paese è entrato oggi in una nuova recessione, che potrebbe dare il colpo di grazia alle incerte finanze pubbliche. Negli ambienti della finanza angloamericana la possibilità di un default italiano è apertamente presa in considerazione e tali possibilità sono aumentate dal fatto che gli stessi ambienti finanziari hanno installato a Roma un governo populista in aperta opposizione all’Unione Europea che, piaccia o meno, è l’attuale realtà di riferimento dell’Italia.
Parallelamente al deteriorarsi della situazione economica-politica, si assiste, sin dall’autunno del 2017, ad uno strisciante fenomeno di rinascita del secessionismo al Nord: i referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto (accolti, pelaltro, senza alcun particolare entusiasmo dagli elettori) sono infine sbarcati nei palazzi romani, dove il governo gialloverde ha dato il via libera al processo che dovrebbe concludersi con la cessione al Nord di più poteri fiscali e legislativi. Sommando il fragilissimo quadro economico-finanziario alle spinte centrifughe (si noti, perfettamente “legali”), non è azzardato ipotizzare che l’Italia rischi di spezzarsi in due (o tre?) tronconi, qualora il Paese dovesse imbattersi in un default, ristrutturazione del debito pubblico o cambio di valuta.
Iniziamo col chiederci: chi sta gestendo il processo di autonomia-secessione mascherata? Come evidenziammo in tempi non sospetti, la Lega Nord, da cui provengono i governatori Zaia e Maroni, è un soggetto politico squisitamente atlantico, nato per acuire/accompagnare la crisi della Prima Repubblica, culminata col maxi-processo di Tangentopoli e l’affossamento del Pentapartito. Un prodotto genuinamente angloamericano (ma forse più britannico) è il Movimento 5 Stelle e, come dicevamo, benedetto dall’ambasciata di Via Vittorio Veneto è anche l’attuale governo “populista”. Si può pertanto dire che Londra e Washington stiano supervisionando l’iter di separazione del (centro?)nord-Italia dal (centro?)sud-Italia.
Domanda successiva: perché? Il quesito è senza dubbio il più importante, perché senza un buon movente, l’intero impianto analitico crollerebbe.
Iniziamo col dire che, non solo l’Italia, ma l’intera Europa, siano oggetto di un profondo ripensamento strategico da parte angloamericana, come sottolineato nella nostra analisi geopolitica del 2019. Di fronte al rischio che l’Unione Europea a trazione tedesca si integrasse in blocco con Russia e Cina, marginalizzando così le potenze marittime, Londra e Washington hanno deciso di “smontare” la loro vecchia creatura, ricorrendo ad mix di immigrazione selvaggia ed austerità targata FMI per alimentare i “populisti anti-sistema”. Dove la medicina non è sufficiente, si sta ricorrendo, come in Francia, a tentativi, neppure troppo velati, di rivoluzione colorata. “The EU looks like the Soviet Union in 1991 – on the verge of collapse” scrive George Soros su The Guardian, il 12 febbraio scorso. Non solo, però, l’Unione Europea deve frantumarsi, ma che i vecchi Stati nazionali e, così, ci riallacciamo al discorso sull’Italia.
Immaginiamo, come farebbe uno stratega, l’Europa post-UE: la Germania, la stessa Germania che sta portando avanti il Nord Stream 2 nonostante i reiterati ammonimenti angloamericani e ha sviluppato una fortissima interdipendenza con la Cina nell’ultimo decennio, continuerebbe ad essere la prima potenza d’Europa in grado, grazie al suo apparato economico-finanziario, di esercitare una forte influenza sui vicini. L’Intermarium a guida polacca conterrebbe la Germania ad est, interponendosi tra Berlino e Mosca. Una Francia post-Macron e, ovviamente, “nazionalista”, farebbe da argine alla Germania ad ovest. Non c’è però nessun motivo, nessuno, perché l’Italia debba contenere la Germania a sud: l’Italia “spinge” verso il Mediterraneo, entrando così in competizione con francesi ed angloamericani, e le sue regioni più ricche e popolose (metà della popolazione italiana è concentrata tra le Alpi e la Romagna) sono strettamente connesse/dipendenti alla/dalla economia tedesca. In sostanza, uno scenario alla Triplice Alleanza (Germania-Austria-Italia) è tutt’altro che improbabile in un’Europa post-Unione Europea, anche perché l’Italia è il naturale “ponte” tra la Germania e la Nuova Via della Sete cinese, che, nella sua variante marittima, dovrebbe sbarcare proprio nella penisola per poi varcare le Alpi.
Che fare? Quali contromisure adottare in ottica atlantica? Semplice: spezzare la penisola italiana in due o tre tronconi, lasciando che il Nord Italia rimanga in orbita tedesca e conservando invece il Sud e le isole come basi per le potenze marittime. Di qui la necessità di alimentare le spinte centrifughe in seno all’Italia in una situazione politico-finanziaria così drammatica.
È giunto ora il momento di corroborare la nostra tesi con qualche dato di fatto:
- la Sicilia, vero “gioiello” delle potenze marittime sin dalla guerra napoleoniche, è de facto esclusa dalla Via della Seta. Forti pressioni angloamericane sono esercitate anche su Trieste e Genova perché rifiutino gli investimenti cinesi, ma le pressioni locali, sommate a quelle tedesche, svizzere e austriache, renderanno inevitabile, prima o poi, l’allacciamento dei porti del Nord Italia alla rotta marittima-infrastrutturale cinese, che punta alla Germania centro-meridionale.
- Nelle “indiscrezioni” recentemente circolate sul futuro della basi americani in Europa, è prevista la chiusura delle basi in Germania (da spostare nella più fidata Polonia) e nel Triveneto1, lasciando rigorosamente intatte le basi nel Sud Italia e nelle isole.
- Qualsiasi strategia anti-continentale applicata all’Italia, implica storicamente che le potenze marittime conservino il controllo della Sicilia, della Sardegna e del Sud Italia.
Il prossimo terremoto economico-finanziario che investirà l’Italia, sarà quindi anche accompagnato da una frantumazione della penisola? Come sempre, ad ogni azione corrisponde una reazione ed è improbabile che il Paese si lasci smembrare senza nemmeno tentare una riposta. Dopotutto, sono forti gli interessi perché sia possibile usare l’Italia come ponte naturale verso l’Asia (via Suez) e verso l’Africa (via Tunisia).
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org/lunita-nazionale-e-in-pericolo-e-se-si-perche/
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