Efficienza o coscienza: quale futuro per l’Intelligenza Artificiale?
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Riccardo Sasso)
L’intelligenza artificiale è, senza dubbio, una delle questioni del secolo. Come tutte le innovazioni epocali, l’AI suscita perplessità e paure. Queste hanno sicuramente un loro fondamento e sono fondamentali a mettere sotto la lente d’ingrandimento gli interrogativi che l’intelligenza artificiale porta con sé. Da un lato i timori portano a ingigantire le problematiche, dall’altro cercano di esorcizzarle sminuendo i dubbi che emergono. Per questa ragione occorre, attraverso l’analisi filosofica, cercare di soffermarsi con maggiore calma e lucidità sui quesiti che le frontiere della tecnologia pongano. Risposte certe, per il momento, non sono possibili. Nonostante ciò, abbiamo dei pregressi a cui rifarci, dei pattern che possiamo seguire e sulla base dei quali provare a farci un’idea.
L’innovazione, da sempre, suscita nell’uomo un ancestrale timore e una viscerale diffidenza. Questo fatto è inevitabile, in quanto, l’evoluzione richiede lavoro e adattamento che, a loro volta, richiedono una certa fatica.
La difficoltà nell’accettare un cambiamento non è una novità dei nostri tempi, ma è molto antica. L’esempio più inflazionato, utilizzato nel discorso filosofico e non solo, per argomentare circa la radicalità della difficoltà nell’accettare il cambiamento, proviene dall’opera Platone e dalle sue considerazioni legate al rischio della scrittura. Nel dialogo Fedro Platone, per bocca di Socrate, narra il mito di Theuth e afferma:
« Ingegnosissimo Theuth, c’è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per la benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell’anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. » [274e – 275a]
Platone manifesta, con questo racconto, un grande timore verso la scrittura. Eppure, questi timori li esprime scrivendo un testo e, aggiungerei, per fortuna sceglie di far ciò e di non tenere i suoi timori per sé. Se il nostro non avesse messo per iscritto queste sue perplessità, tante riflessioni e tanto arricchimento della dialettica filosofica non vi sarebbero stati.
Il timore della nostra epoca non è più la scrittura, ma un altro, e cioè, l’intelligenza artificiale. Questa novità della tecnologia e, in senso più generale, della tecnica, rappresenta un motivo di grande paura. Bisogna però chiedersi, in questo caso specifico, da che cosa questa paura scaturisca. La paura per l’innovazione tecnologica è da sempre legata alla sostituzione. I critici della tecnologia sostengono che questa condurrebbe all’eliminazione di componenti fondamentali per la civiltà e quindi ad un inevitabile decadimento. Così nel caso della scrittura: porterà a non esercitare più l’attività della memoria. Così nel caso di internet: disabituerà alla fatica nel ricercare delle informazioni.
L’IA rappresenta un elemento di diffidenza centuplicato rispetto al passato, in quanto, così si ritiene, essa sottrarrà la caratteristica più peculiare dell’essere umano: la facoltà intellettiva, la cui sostituzione potrebbe portare alla perdita della nostra stessa umanità. L’intelligenza artificiale, come tutte le innovazioni tecnologiche, è inarrestabile e anche questo è per l’uomo motivo di grande inquietudine: l’inesorabilità del cambiamento che – così si crede – potrebbe lasciarsi indietro ponendo fine alla storia umana. Ancora non sappiamo dove l’AI ci porterà, non lo possiamo prevedere. Non potendo controllare la situazione, allora, l’uomo la teme. Ciò che ancora non si può comprendere pienamente spaventa.
Le paure principali legate alla nascita di AI sono sostanzialmente due: la prima è legata alla schiavizzazione del creatore da parte della creatura. In questo, la fantascienza ha da sempre trasposto in narrativa questo timore e ha escogitato possibili stratagemmi per evitarlo: le macchine che si ribellano all’uomo e, superandolo, lo sottomettono; per questo, occorre escogitare stratagemmi per arginare questo rischio.
La seconda paura è lo step successivo, ossia la singolarità. La singolarità avviene quando le macchine acquisiscono consapevolezza di sé, riuscendo a dar vita ad una super-intelligenza artificiale forte che, come una sorta di divinità, sottometterà il mondo e l’umanità al suo volere e alla sua cura. Di questa paura, un esempio emblematico, è il famoso esperimento mentale del basilisco di Roko.
Alle due paure, se ne potrebbe aggiungere un’altra, ossia, l’idea del Supercomputer che, a partire dalla sua grande potenza computazionale, arriva a rivelare una verità che l’essere umano non è pronto ad assimilare o che non ha gli strumenti per comprendere. Anche il Supercomputer è un topos riscontrabile in molte opere fantascientifiche letterarie e audiovisive. Citiamo solo gli esempi più famosi: I Nove Miliardi nomi di Dio di Arthur C. Clark, L’ultima domanda di Isaac Asimov e Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams.
Queste sono le principali diffidenze legate al futuro dell’AI e non si deve considerarle semplici finzioni letterarie o esperimenti mentali, stratagemmi per esorcizzare una paura collettiva, in quanto molte cose considerate “fantasiose” e “inverosimili” sono poi diventate realtà, si pensi alla proverbiale assurdità degli “uomini volanti”. Tutte queste diffidenze meritano d’essere prese in considerazione con la dovuta serietà.
Una “critica” molto popolare rivolta al concetto di AI, tra le più interessanti e argomentate da un punto di vista filosofico, è quella secondo cui l’AI potrà raggiungere al massimo un livello d’efficienza molto elevato, ma mai diventare un’intelligenza vera e propria, né tantomeno una coscienza. Promotore di questa visione è il filosofo italiano Maurizio Ferraris, il quale, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 30 gennaio 2023, così scrive: «Chi parla di un’intelligenza artificiale che possa prendere il potere o quantomeno surrogare l’intelligenza naturale non ha mai visto un bambino davanti a una pasticceria, o un adulto o un’adulta disposti a giocarsi per amore, o per qualcosa che ne ha una vaga parvenza, la fama, la rispettabilità, la grandezza» e aggiunge con perentorietà: «Un computer non si comporterà mai né come Cesare Pavese né come Dominique Strauss-Kahn» (M. Ferraris, A chi fa davvero paura l’intelligenza artificiale?). Ferraris elabora questa posizione, sicuramente, con cognizione di causa. Tuttavia, una posizione di tale radicalità può far sorgere certamente qualche interrogativo: Cartesio non diceva cose molto simili a queste sugli animali:
« [P]ur essendovi molti animali la cui abilità si rivela superiore alla nostra in talune delle loro azioni, i medesimi, tuttavia, non ne rivelano alcuna in molti altri casi: quindi ciò che fanno meglio di noi non dimostra che abbiano un’intelligenza; se così fosse, ne avrebbero più di tutti noi, e farebbero meglio tutto; dimostra piuttosto che non ne hanno, e che ad agire in essi è la natura, secondo la disposizione dei loro organi; come possiamo vedere in un orologio che, composto solo di ruote e di molle, può contare le ore e misurare il tempo più esattamente di noi, con tutta la nostra sapienza. » (Cartesio, Discorso sul metodo)
Le parole di Cartesio rimandano al pensiero espresso da Ferraris: efficienza non è intelligenza. L’animale non è intelligente né in forma superiore, né inferiore rispetto all’uomo, ma è del tutto privo di facoltà intellettive e “funziona” seguendo criteri puramente meccanici; senza applicazione di alcuna forma di intelligenza. Tutto falso: oggi sappiamo che gli animali hanno capacità intellettiva, certo non equivalente a quella umana, ma l’idea di animale-macchina cartesiana è oggi del tutto superata e inconsistente sotto qualsiasi punto di vista.
Davvero siamo certi che una macchina o un computer non potranno mai farci una sorpresa di questo tipo? È veramente sufficiente liquidare la questione dicendo che un computer, per il solo fatto di essere un artefatto umano, non potrà mai raggiungere un livello di complessità tale da potersi predicare della coscienza, dell’identità e dell’intelligenza? Spesso si dice che non bisogna mai attribuire qualità predicabili all’uomo, come l’intelletto e le emozioni, a realtà non umane. Nonostante ciò, appare un atteggiamento altrettanto arrogante e presuntuoso pensare che tali qualità superiori siano necessariamente legate all’essere umano e che qualsiasi altra forma di vita o efficienza non potrà mai esserne predicata. Occorre chiedersi se l’ostinazione nel non voler riconoscere la possibilità, certamente ancora lontana nel tempo, di un emergere della coscienza e dell’intelligenza nelle realtà non umane non sia anch’essa una negazione legata alla paura che l’AI suscita in noi. Siamo davvero certi che, quando Gesù disse: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare» (Gv. 10, 16), si riferisse solamente agli esseri umani non israeliti? Non sono possibilità da escludere, occorre cautela anche nel prendere una posizione, perché, lo si è già detto, il futuro potrebbe porci di fronte a delle verità che mai avremo pensato, verità che possono chiamarci a delle responsabilità non da poco.
Il test di Turing, e la possibilità di una macchina che arrivi a batterlo, è un’incombenza che non può essere liquidata come una semplice paranoia dell’uomo. L’AI, nella nostra epoca, rappresenta una frontiera per l’innovazione tecnologica e tecnica di un certo spessore.
Il dispiegamento dell’innovazione può fornire grandi risorse, ausilio in mansioni eccessivamente faticose o pericolose, e anche grandi pericoli, la scelta di abdicare la propria intelligenza lasciando che qualcuno pensi al posto nostro. Questa tendenza, piaccia o non piaccia, ci ha caratterizzati nella storia: quando si sceglie di far pensare qualcun altro al posto nostro il risultato è Adolf Hitler, ma se si sceglie di cedere il passo ad una macchina con un elevatissimo livello computazionale, il risultato potrebbe essere la singolarità. L’intelligenza artificiale, come ha brillantemente sostenuto la matematica e scrittrice italiana Chiara Valerio, in un’intervista dello scorso 26 giugno, rilasciata alla testata online VD, deve essere un’estensione dell’intelligenza umana, il risultato di un ulteriore passo avanti fatto dalla nostra specie.
Le paure legate all’AI non sono dissimili a quelle legate alla potenza dell’atomo e al cambiamento climatico, tutto dipende dalle scelte che l’uomo vorrà fare. Ciascun uomo deve assumersi una responsabilità antropologica, morale e storica: liberarsi da vivacchiare inautentico e dalla subordinazione passiva agli eventi, dalla ricezione passiva d’informazioni e ordini.
La conoscenza e la cultura, il vecchio motto “sapere aude, abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione” sono ancora una volta le uniche vie percorribili. Se si sceglierà, per l’ennesima volta, di delegare questa responsabilità ad altri, allora, si avrà contribuito al disastro attraverso l’inerzia. Dunque, chi è causa del suo mal pianga se stesso.
FONTE: https://www.gazzettafilosofica.net/2024-1/febbraio/efficienza-o-coscienza-quale-futuro-per-l-ia/
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