Come la democrazia parlamentare (non) cambiò il Pci
di JACOBIN ITALIA (Nadia Urbinati)
Il “partito nuovo” doveva essere capace di immergersi nella democrazia parlamentare senza subire contraccolpi. Cominciò a morire nel ’77, stretto anche dalla spinta antilavorista del movimento di quell’anno
Da lontano…
Nel 1911, quando fu varata, il Titanic era la più grande nave passeggeri del mondo di tutti i tempi, il più grande oggetto in movimento costruito dall’uomo. Lunga più di duecentosessanta metri, la più lussuosa, veloce e imponente di quelle in funzione sulle rotte transatlantiche, la nave aveva una capacità di tremilacinquecentoquarantasette persone tra passeggeri ed equipaggio e una considerevole velocità. Quando alle due di notte del 15 aprile 1912 l’inaffondabile, dotata solo di un telegrafo, si inabissò portando con sé millecinquecento vite, la radio era uno strumento nuovo e non ancora di largo uso e il sonar e il radar dovevano essere inventati. Il Titanic era un gigante fuori tempo e si schiantò contro un iceberg.
Nel 1944, quando fu concepito da Palmiro Togliatti, il «partito nuovo» doveva diventare la più grande organizzazione politica di massa dell’Italia repubblicana e progettare e raggiungere traguardi socialisti per vie elettorali (il V Congresso, nel gennaio 1946, aveva modificato lo statuto stabilendo che per inscriversi al partito bastava l’adesione al programma, indipendentemente dalle «convinzioni filosofiche»). Quando nel 1977 si schiantò contro «il movimento» per cominciare il suo lento ma inarrestabile esaurimento, il Partito comunista italiano era un gigante tra i meglio organizzati, con più di un milione e ottocentomila iscritti, tremilatrecento cellule di fabbrica e aziendali, undicimila sezioni territoriali, più di novanta federazioni provinciali. I suoi radar erano le coordinate classiste e il consenso popolare alla tradizione marxista e gramsciana, strumenti di navigazione che, nelle intenzioni dei dirigenti, avrebbero dovuto portarlo al governo di una democrazia parlamentare, rinunciando quindi a pensare alla eventuale sua maggioranza come l’ultima.
Il paradosso sul quale vorrei concentrare la mia riflessione (che è volutamente schematica e senza alcuna ambizione storico-ricostruttiva) sta nel fatto che il declino del Pci cominciò insieme alla sua più grande avanzata elettorale (le elezioni politiche del 20 giugno 1976) e non si sarebbe più arrestato. Questo paradosso, sosterrò, nacque insieme al «partito nuovo», alla convinzione cioè che fosse possibile attuare la trasformazione socialista per vie elettorali, senza diventare o accettare esplicitamente di diventare un partito socialdemocratico o, più generalmente, un partito di tipo parlamentare. Perché quella convinzione potesse reggere la prova della realtà elettorale occorreva che il Pci ammettesse di essere un partito come gli altri, benché diverso nella proposta politica e nell’identità partigiana: ‘come gli altri’, nel senso di accettare di attuare la sua politica socialista per via democratica (nei limiti cioè della ragione pubblica o costituzionale), mettendo quindi in conto che potesse essere smantellata nel caso di una successiva maggioranza avversa o diversa. È importante tener sempre presente che il Pci era equipaggiato per un’azione politica democratica che non era parlamentare; questo, nonostante il suo accomodamento alla pratica riformista e parlamentare.
La consunzione del Pci, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, segnava anche la consunzione del partito politico di massa e di un modo d’essere della democrazia rappresentativa, nota come democrazia dei partiti. Non possiamo dire, nessuno lo può, se l’impatto con il movimento del ’77 sia stato fatale o se quella difficile congiuntura poteva essere evitata; se, insomma, a segnare la fine del più grande partito comunista dell’Occidente sia stata l’imprudenza dei suoi dirigenti (e dei suoi intellettuali, che dal ’68 acquistarono un peso inedito, non contemplato dal «partito nuovo» di Togliatti), oppure se la sua stessa conformazione lo rendesse impervio a una realtà sociale e culturale che non era più quella nella quale il partito era stato ri-concepito al tempo della «svolta di Salerno» del 1944. Tre decenni di vita democratica, di politica elettorale e parlamentare, di società civile sempre più permeata dalla pratica dei diritti individuali, dalle contestazioni civili e sociali, avevano cambiato l’Italia in un modo che, questa è la tesi che intendo sostenere, difficilmente poteva adattarsi a un partito di massa non socialdemocratico di quelle dimensioni, di quella struttura organizzativa e, soprattutto, con quella concezione della società e quelle ambizioni strategiche.
Sarebbe riduttivo ed esagerato attribuire al movimento del ’77 i fattori di un declino che erano contenuti nelle sue fondamenta: il Partito varato da Togliatti per creare il socialismo per via elettorale doveva essere capace di cambiare la democrazia senza esserne cambiato. Questa sua predeterminata immutabilità lo rese come privo di radar, esposto agli accidenti di una società come quella liberale, sempre più accogliente verso una cultura morale e sociale individualistica, sempre più recalcitrante ai lacci della tradizione e della memoria, attiva nella rivendicazione dei diritti (che sono corrosivi di identità ideologiche e partigiane, soprattutto se fondate su dottrine o visioni dogmatiche, ma anche di solidarietà sociali e di classe), sempre più insofferente delle organizzazioni quasi totalmente inclusive (sociali o politiche che fossero), e infine sempre meno disposta a conformarsi all’etica del sacrificio (e del lavoro) e della solidarietà dei e con i lavoratori come classe sociale.
La democrazia parlamentare cambiò il Partito comunista senza che esso (almeno nei suoi organismi dirigenti) ne avesse sufficiente consapevolezza, probabilmente perché interpretava le regole del gioco democratico come procedure formali esterne e meccaniche, mentre esse sono, come ha ben spiegato Norberto Bobbio in più di un’occasione, forme che divengono sostanza, perché orientano il giudizio e la volontà degli attori politici ad accettarne le condizioni, che sono le seguenti: l’idea che esista sempre un’opposizione; la messa in conto che tutti possono cambiare preferenze politiche e che ci può essere tensione tra fede politica e scelta elettorale; l’inclusione dell’opposizione nella pratica e nella regola di maggioranza; infine, la premessa che nessuna maggioranza è o sarà l’ultima, ovvero che nessuna ‘buona società’ potrà avere la certezza di durare nel tempo (a meno di non usare interventi repressivi continui) e di non essere rovesciata da un’opposta idea o progetto. Può la società socialista accettare di essere a termine? Queste domande sono di orientamento per spiegare la metafora del Titanic.
Qualche sintomo di disfunzione del Titanic di via delle Botteghe Oscure si era in effetti palesato ed era stato diagnosticato da alcuni dei suoi dirigenti in due occasioni almeno, successive alla morte di Togliatti: nel corso di un convegno fiorentino del 1966 sul parlamentarismo, organizzato dal Centro Salvemini, dove il ‘conservatore’ comunista Giorgio Amendola aveva sollevato il problema del centralismo democratico; e nel corso di un convegno romano del 1968, organizzato nella sede dell’Istituto Gramsci di Roma ma promosso dal Pci (il primo di una serie di convegni sul tema della «riforma dello Stato»), nel corso del quale Edorardo Perna collegò gli scompensi della ‘macchina’ dello stato al sistema dei partiti e introdusse la questione del rapporto complesso e sempre più difficile tra la società civile e il partito di massa. Nella lettura proposta da Amendola, si comprendeva come il Partito comunista fosse poco permeabile all’inclusione di nuovi soggetti che l’espansione elettorale comportava. Rendere il Partito elettoralmente più aggressivo implicava anche renderlo più aperto al dissenso interno e, soprattutto, alla possibilità di formulare programmi elettorali (o di governo) che non fossero incardinati in una concezione di classe. Certamente, la concezione del «Novello Principe» di Antonio Gramsci conteneva una prospettiva di ampliamento del partito e di una sua interna articolazione mediante alleanze di e con gruppi che per collocazione ideologica e sociale potevano essere ritenuti limitrofi agli interessi delle classi lavoratrici (ceti medi produttivi e impiegatizi, studenti, intellettuali, donne). Tuttavia, questa attrazione per vicinanza non poteva garantire alcuna stabile alleanza di classe, a meno di un’intensa attività ideologica del Partito. La contraddizione non scompariva con il partito egemonico – restava il fatto che, per consolidare nel tempo il consenso occorreva un lavoro ideologico persistente, e soprattutto che il Partito fosse capace di attuare politiche che convincessero i gruppi e gli interessi limitrofi alla classe operaia della convenienza a restare nell’orbita comunista. Il Partito doveva insomma poter vincere le elezioni per consolidare nel tempo le alleanze sociali ma il patto di esclusione che la Guerra fredda sanciva non lo consentiva – di fatto, rendeva l’identificazione ideologica l’unica strategia fungibile, generando un irrigidimento delle posizioni, con tutti i problemi di immobilismo che ciò poteva comportare (e comportò) e, soprattutto, di doppiezza perché la partecipazione alla vita pubblica del paese richiedeva comunque pragmatismo, e tuttavia il pragmatismo era percepito e praticato non come forma di azione democratica, ma come un agire compromissorio dettato dalla circostanze avverse, un meno peggio e una pratica non nobile. Infine, come Amendola aveva messo in luce nella sua relazione fiorentina, il pluralismo interno era essenziale (e inevitabile) ma occorreva saperlo adattare al bisogno di una direzione e dirigenza unitaria. Il Pci aveva di fronte a sé un solo modello di pluralismo intrapartitico, quello adottato dalla Democrazia cristiana — un modello «demo-liberale» (come lo chiamò Amendola) che era indesiderabile perchè proponeva
un partito alla cui base vi sono gli aderenti che prendono la tessera, e che partecipano, attraverso la vita della sezione e della federazione, alla scelta dei delegati ai congressi, sulla base di frazioni, ossia di gruppi che lottano per la direzione del partito.
[L’intervento di Amendola è in Luigi Piccardi-Norberto Bobbio – Ferruccio Parri, La sinistra davanti alla crisi del Parlamento, Milano, Giuffrè, 1967, pp. 74-75].
Quindi sia il modello del centralismo democratico sia quello «demo-liberale» avevano interni problemi di raccordo tra unità e pluralismo delle fazioni. Di fatto però, dei due modelli, era quello comunista, nato come forza rivoluzionaria e dotatosi di una organizzazione di tipo militare nel corso della lotta antifascista, che meno riusciva ad adattarsi al contesto di una democrazia elettorale.
La difficoltà ad alimentare un ricambio generazionale degli organi dirigenti era segno di una rigidità ideologica ancor prima che, o soltanto, organizzativa. Il modello del centralismo democratico, secondo Amendola, prometteva di mantenere quell’unità deliberativa e decisionale di cui un partito ha bisogno per raccordare società e istituzioni; tuttavia, scontava il fatto di ispirarsi a un’esperienza rivoluzionaria che non esisteva più e che, inoltre, non era consona a una battaglia politica di tipo elettorale. La debolezza del centralismo democratico del Pci risiedeva, in sostanza, nel suo carattere anacronistico. Restava il fatto che il Pci, secondo Amendola, avrebbe dovuto operare una transizione completa, nel suo Statuto e nella sua organizzazione, da partito rivoluzionario a partito parlamentare; avrebbe dovuto adottare una forma nuova per tenere insieme pluralismo interno e unità di direzione. Quale forma dare al partito, Amendola però non seppe dire e, come lui, neppure il suo Partito.
Due anni dopo il convegno fiorentino e a pochi mesi dall’esplosione del movimento studentesco, Perna tornava sul problema di una riforma dei partiti (e soprattutto del suo partito) che mirasse a «un potenziamento delle forme democratiche» per accrescere la loro capacità di «mediazione nei confronti dei fenomeni spontanei di protesta verso lo stato di cose esistente» [Edoardo Perna, “La politica di piano e gli istituti della democrazia”, in Av.Vv. La riforma dello Stato. Atti del Convegno promosso dall’Istituto Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 31.]. Il tema della riforma del partito era reputata necessaria anche per altre ragioni, che il movimento del 1968 stava mettendo prepotentemente in primo piano: il bisogno di facilitare il ricambio generazionale e culturale, di prestare attenzione alle nuove forme di lotta e all’emergere di nuovi bisogni, non solo materiali e non solo collettivi; e infine, la necessità di prevenire il declino del partito, una eventualità ritenuta già allora possibile. Perna era perspicace e collegò il declino dei partiti di massa (in primis del Pci) direttamente alla trasformazione della democrazia, un fatto che solo oggi riusciamo a vedere a occhio nudo: «ove il ruolo dei partiti si attenuasse, necessariamente verrebbe a cadere quel tramite fra la sovranità popolare e gli organi dello Stato […] e di conseguenza vi si sostituirebbe qualche cosa di diverso e imprevedibile» [Ivi, pag. 28]. Eppure, nonostante le intuizioni di Amendola e di Perna e la tempestività delle loro analisi critiche rispetto perfino alle effettive trasformazioni della cultura politica del loro tempo e nel loro partito, le loro parole restarono sostanzialmente senza seguito pratico; non furono accompagnate da nessuna trasformazione nell’organizzazione e nella forma del Partito comunista, il quale decadde senza cambiare [sulla tensione tra conservazione e mutamento ha scritto tra gli altri Miriam Mafai, Botteghe Oscure addio. Com’eravamo comunisti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996].
Avviciniamoci al 1977…
Le questioni relative alla vita del Pci non possono essere dissociate dal contesto politico internazionale, il cui ordine (non meno ingessato di quello del «partito nuovo») si imponeva sugli attori politici nazionali con un’intensità che non può essere sottovalutata, anche perché mettendo l’opposizione comunista fuori gioco impediva la pratica della democrazia dell’alternanza e, soprattutto, sminuiva la forza di deterrenza che hanno (dovrebbero avere) le elezioni mentre facilitava la corruzione partitica (la partitocrazia) e il clientelismo. Senza la presunzione di ricostruire la storia degli anni Settanta in poche scarne battute, vorrei semplicemente indicare le date e le tappe più importanti del contesto internazionale nel quale collocare la strategia e l’azione del Pci:
- agosto 1971, gli Stati uniti interrompono unilateralmente la convertibilità del dollaro in oro, mettendo fine al sistema di Bretton Woods con il quale la convertibilità era stata decisa come risposta all’analisi che aveva considerato la Grande Depressione come la causa della Seconda guerra mondiale; quella data segna di fatto la fine della politica concertata della ricostruzione post-bellica, del controllo dei tassi di cambio e dell’inflazione, della cooperazione tra i paesi occidentali per prevenire una svalutazione competitiva tra di essi; segna l’apertura a politiche liberistiche dentro gli Stati occidentali e l’espansione globale dell’economia americana, della società di mercato e del consumismo, fattori culturali, oltre che economici, che tanta forza ebbero nel mutare valori e mentalità, soprattutto nelle giovani generazioni;
- settembre 1973, colpo di stato in Cile contro la maggioranza di sinistra liberamente eletta guidata dal socialista Salvador Allende per opera di un intervento diretto dei servizi segreti americani, che mobilitarono le opposizioni politiche e l’opinione pubblica cilene con strategie di boicottaggio (come il celebre sciopero dei camionisti) che diedero ossigeno alla propaganda anti-socialista e sostegno ai militari guidati dal Generale Pinochet;
- ottobre 1973, guerra lampo arabo-israeliana nota come Yom Kippur War, che implicò la fine dell’approvigionamento a buon mercato del petrolio e una crisi economica e fiscale (senza precedenti dopo la Grande Depressione, e la prima nel Secondo dopoguerra) che mise in discussione le politiche sociali mentre cambiò i rapporti di forza all’interno degli Stati occidentali (ed europei in primo luogo) tra partiti liberal-liberisti e partiti socialdemocratici, scatenando (in Italia soprattutto) alti livelli di inflazione e l’esigenza di giustificare (anche con il sostegno della sinistra) «politiche di sacrifici» per contenere la spesa pubblica (il Pci lanciò la politica di «austerità» arricchendola di e giustificandola con una visione etica che delineava una società non individualistica fondata sull’anti-anticonsumismo; non a caso, uno degli slogan anti-Pci dell’Autonomia sarebbe stato «Il lavoro benedici, viva viva i sacrifici»);
- aprile 1975, fine della guerra del Vietnam, e però anche declino dell’anti-americanismo radicale che tanto aveva segnato la cultura del Pci e quella giovanile, almeno fino alla generazione del ’68 (le manifestazioni al grido go home! che accolsero il Presidente L.B. Johnson in visita in Italia sono immortalate dalle immagini televisive di un imbarazzato Presidente Giuseppe Saragat, che non riusciva a distrarre il suo commensale dall’eco delle grida che giungevano da fuori del Quirinale). Ma i giovani del ’77 erano diversi: come scrisse Fabio Mussi su Rinascita (30 settembre 1977), essi amavano la cultura americana e il consumismo, erano seguaci della cultura individualista e mal sopportavano l’etica solidaristica;
- nel 1975 viene pubblicato il documento politico della Trilateral Committee, The Crisis of Democracy, che suggeriva ai paesi del Patto Atlantico di correggere i sistemi parlamentari in senso presidenzialistico per meglio pilotare la contrazione delle politiche sociali attivate negli anni della ricostruzione post-bellica. Crisi di governabilità (un’espressione lanciata dalla Trilaterale) e crisi della democrazia vennero qui usati come sinonimi, a designare l’incapacità delle istituzioni democratiche di resistere alle pressioni della società civile e dei cittadini organizzati. La crisi era dunque identificata con l’attivismo sociale che lo Stato stesso, quando si faceva dispensatore di servizi, generava [Non è un caso che negli anni in cui la Trilaterale condannava i programmi socialdemocratici, i francofortesi Claus Offe e Jürgen Habermas avanzassero una visione opposta della crisi di governabilità come crisi di legittimità delle società democratiche capitalistiche per la loro progressiva impotenza nell’ostacolare il travaso di diseguaglianze sociali nella cittadinanza e nel governo politico; per un’ottima ricostruzione di questo dibattito si vedano Habermas Critical Debates a cura di John B. Thompson e David Held, Cambridge Mass., The Mit Press, 1982]. A partire da quel documento, le parole d’ordine della politica (in pochi anni anche dei partiti di sinistra, e dello stesso Pci) fu ‘governabilità’ (traduzione di governability) con l’implicito assunto che i movimenti di contestazione fossero un problema e non espressione di vitalità della democrazia, la quale acquistava in tal modo un solo significato: democrazia elettorale, associata, da un lato al professionalismo della politica e dall’altro, a una società preferibilmente apatica o apolitica.
Con altrettanta schematicità menziono infine alcune date importanti relative alla politica nazionale in prossimità del 1977:
- 12 dicembre 1969: una bomba devastò la Banca dell’Agricoltura di Milano provocando numerose vittime; si trattò del primo di una lunga serie di attentati terroristici di quella che venne poi definita e percepita come «strategia della tensione», i cui mandanti sarebbero restati in larghissima parte ignoti, anche se in alcuni casi le indagini della magistratura profilarono il coinvolgimento dei servizi segreti italiani; insieme alla repressione dei movimenti di protesta e di contestazione da parte delle forze dell’ordine (che provocarono anche morti, come quella dell’anarchico Franco Serantini a Pisa nel 1972 e quella di Giorgiana Masi a Roma e di Francesco Lo Russo a Bologna nel 1977), le azioni terroristiche alimentarono un clima di diffidenza nei confronti delle istituzioni dello Stato e, soprattutto nei movimenti giovanili, di sfiducia nel Pci che si poneva come difensore dello Stato;
- 1971-73: esaurimento della stagione del centro-sinistra e svolta conservatrice; l’elezione del presidente Giovanni Leone fu possibile con i voti determinanti del Movinento Sociale Italiano; formazione di un governo Dc-Pli-Psdi (democristiani, liberali e socialdemocratici) presieduto da Giulio Andreotti; in seguito al colpo di stato cileno Enrico Berlinguer, da un anno Segretario Generale del Pci, lesse la situazione italiana di stallo orientato a destra come sintomo di un pericolo eversivo e nel numero di Rinascita del 27 ottombre 1973, lanciò l’idea di una politica stretegica di «compromesso storico», allora intesa in senso difensivo o per proteggere le istituzioni democratiche, alla costruzione delle quali i comunisti avevano partecipato sia con la lotta armata che con l’azione politica nell’Assemblea costituente.
Successivamente, la vittoria del referendum sul divorzio (12 maggio 1974) contribuì a mutare il senso del compromesso storico che aveva ora un compito soprattutto innovatore e propositivo, non semplicemente di resistenza al pericolo eversivo. La grande avanzata elettorale nelle elezioni amministrative (15 giugno 1975) e politiche (20 giugno 1976) sembrò confermare la possibilità di una traformazione della società per via democratico-parlamentare. Ma quella grande avanzata referendaria ed elettorale fu l’apice dal quale il Partito cominciò il suo lungo declino.
I radar che mancarono al Titanic Pci
La lettura della società proposta dal «partito nuovo» era fortemente marcata dal timore per gli effetti disgregatori del liberalismo come cultura dei diritti individuali e del consumismo. Certo, il ’68 ebbe un impatto positivo sul Pci che operò un riassestamento in senso più democratico e partecipativo, con un’apertura culturale alle dimensioni non immediatamente politiche, come le relazioni di genere e le condizioni della vita quotidiana e giovanile. Gli effetti di quella liberalizzazione si mostrarono nel 1974 con il referendum per l’abrogazione della Legge sul divorzio, un evento cruciale nella società italiana. Inizialmente il Pci vide un pericolo nella scelta del segretario democristiano Amintore Fanfani di andare a referendum e si disse pronto anche a concessioni, temendo una sconfitta – diagnosi sbagliata, che dimostrava l’incomprensione della portata liberatrice dei diritti civili. Furono le donne della direzione del Pci e i leader più giovani a opporsi alla strategia della prudenza. Comunque, da quando il referendum fu ufficialmente indetto, il Pci ruppe gli indugi e si schierò con tutta la sua forza organizzativa per il No; i risultati furono sorprendenti (anche per i dirigenti comunisti) e sembrarono giustificare con i numeri la giustezza del compromesso storico, la possibilità e la bontà di una maggioranza di governo larga che facesse cooperare il solidarismo cattolico con la solidarietà di classe; che mettesse in opera la «democrazia progressiva» ovvero l’obiettivo di socialismo per via democratica del «partito nuovo» di Togliatti. Sembrò dar ragione a Berlinguer, perché mise in luce una Dc articolata e un mondo cattolico in dissenso rispetto alla leadership conservatrice del partito e alle direttive del clero.
Tuttavia, anche un’altra lettura era possibile: la libertà di divorziare dal proprio coniuge era premonizione della libertà di avviare divorzi da altre lealtà, un segno disgregatore di unioni identitarie di ogni tipo che venne poco compreso dal Pci (o semplicemente temuto, spiegò Miriam Mafai nel suo Botteghe Oscure addio. Come eravamo comunisti pubblicato nel 2006). Come aveva messo in luce Berlinguer, quella battaglia referendaria divise il mondo cattolico, e lo stesso partito della Dc, tra una parte più attenta ai diritti di libertà e una parte più fortemente comunitaria (fu in seguito a quella battaglia referendaria che Comunione e Liberazione, da poco nata, mostrò un’identità integralista, epurando coloro che si erano espressi per il No). Quel che i dirigenti del Pci non misero (o non vollero vedere) in luce fu che quella battaglia divise anche il loro grande partito di massa identitario, la cui dirigenza, come raccontò Mafai, fu indotta dalle donne a prendere posizione per il No. La diffidenza dei dirigenti e dell’ideologia del Pci nei confronti dei diritti individuali spiega questa iniziale reticenza; ma all’origine vi era il timore di favorire l’erosione di tutte le unioni per fede e di minare alla radice il senso di obbedienza alla comunità-partito. Questo spiega forse l’iniziale reticenza del Partito comunista, convinto di dover scendere a compromesso con i cattolici per neutralizzare il referendum. Il suo mutamento di strategia fu indotto dalla forza dell’opinione pubblica, vicina allo schieramento libertario e progressista rappresentato dal Partito radicale di Marco Pannella (la rivelazione politica di quella battaglia referendaria), e dalla mobilitazione dei movimenti femministi (che raccoglievano anche molte donne comuniste). In questo senso la data del 12 maggio 1974 segna la prima vittoria democratica dei diritti civili, una vittoria che i cittadini e le cittadine imposero alle dirigenze istituzionali e partitiche.
La vittoria del No mise in luce una politicizzazione della società che non passava più necessariamente per l’egemonia di classe e il suo partito, ma era animata da libere associazioni e una cittadinanza recalcitrante verso progetti predefiniti, orientata da preferenze e interessi che non erano semplicisticamente interpretabili come egoistici o non politici, benché dettati da esigenze individuali in coerenza a giudizi morali soggettivi. Questi mutamenti etici e sociali si rifletterono l’anno successivo nella vittoria elettorale delle sinistre, che benché notevole non corrispondeva necessariamente alla volontà di avviare una società socialista, anche quando chiedeva una società più giusta.
La politica elettorale cambiò il Pci nei fatti. Con il 1975, esso si trovò a essere un partito in crescita elettorale ma anche un partito diverso – per esempio, le sezioni territoriali avevano nel frattempo acquistato più importanza delle cellule aziendali: in sostanza, il partito acquistava sempre più una fisionomia elettoralistica (conformemente al diritto elettorale che è organizzato per residenza, non appartenza sociale) [Per materiali e analisi relativi alla trasformazione del Partito si veda, Marcello Fedele, Classi e partiti negli anni ’70, Roma, Editori Riuniti, 1979; Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Il Partito comunista italiano: struttura e storia dell’organizzazione, 1921/1979 a cura di Massimo Ilardi e Aris Accornero, Milano, Feltrinelli 1982 (in particolare, i saggi di Chiara Sebastiani, Antonio Baldassarre e Renzo Martinelli)].
Inoltre, il Pci tradusse le sue vittorie elettorali – soprattutto quella del ’75 – con un rinnovamento degli organismi nazionali: nel marzo di quell’anno, al XIV Congresso, molti ‘quadri’ o dirigenti di partito vennero catapultati nelle liste elettorali e si avviarono agli incarichi istituzionali nelle amministrazioni locali. Il Partito diventò nel volgere di pochi anni un partito di amministratori (oltre che di parlamentari) con l’acquisizione non solo di nuove professionalità ma anche di una radicata partecipazione al governo delle città, non dove le leggi venivano approvate, ma laddove le decisioni centrali dovevano essere adattate alle richieste e alle necessità del territorio; questa dimensione amministrativa incentivò il carattere pragmatico e ridusse quello ideologico. Le aspettative dei cittadini misero il Partito in una posizione di responsabilità di governo: e al XIV Congresso venne approvata la proposta di abbandonare l’obiettivo dell’uscita dell’Italia dalla Nato.
In appendice alla visione di società organica che giustificava l’idea di compromesso storico, Berlinguer aggiunse al Congresso un’altra importante ragione: fermare il malcostume che dilagava all’interno dei partiti e nelle istituzioni – prese di qui il via la «questione morale» che si proponeva di recuperare il ‘senso dello Stato’ da parte dei partiti e dei politici; di vincere la corruzione intensificando la dimensione etica della politica. Il compromesso storico acquistava così un altro scopo, quello di rigenerazione delle istituzioni; ciò assegnava al Partito una funzione di partito d’ordine.
La vittoria del ’76 produsse due grossi partiti che invece di generare maggioranza/opposizione si avviarono verso un’alleanza: anche a coloro che torcevano il naso, il compromesso storico sembrò necessario per dare stabilità in un’epoca di crisi economica (e mentre si chiedevano sacrifici alle classi medie e operaie) e con relazioni internazionali ostili a governi con un partito che era ‘comunista’ – a questa percezione di necessità corrispose fatalmente, anche a sinistra, quella del compromesso storico come una gabbia d’acciaio.
L’elezione di Pietro Ingrao a Presidente della Camera segnava l’atto ufficiale dell’avvicinamento di governo tra la Dc ed il Pci. Ma segnava anche la fine del significato del compromesso storico come strategia di rinnovamento: nell’opinione pubblica cominciò a farsi strada l’idea che il Pci fosse in effetti diventato un partito non solo della legalità ma anche d’ordine, pronto a garantire la ‘governabilità’ prima di tutto, a portare, come si diceva allora, la classe operaia dentro lo Stato borghese. Il compromesso storico sembrava dipingere una società in cui più che «elementi di socialismo» vi sarebbe stata un’alleanza tra due forze comunitarie altrettanto anti-individualiste ed eticamente conservatrici.
L’attacco al Partito comunista
Il movimento del 1977 era perfettamente rappresentativo della contrarietà all’etica comunitaria e di una visione liberale e individualista alla quale l’ideologia del marxismo-leninismo (la cui «conoscenza e approfondimento» era stata fino al 1977 un principio dello Statuto del Pci) era naturaliter contraria e opposta; come lo era del resto la proposta di compromesso storico. L’attacco al Pci (che Berlinguer dipinse con toni cupi e drammatici nel discorso di chiusura della Festa nazionale dell’Unità di Modena nel settembre di quell’anno comparando i membri del movimento agli “untori”, i sospettati di diffondere il contagio della peste nei Promessi Sposi di Manzoni) divenne attacco alla sua concezione della società, della politica e della democrazia:
- della società – contro il mito del lavoro operaio e la solidarietà di classe tra lavoratori e studenti si oppose l’obiettivo della carriera e la separazione studio/lavoro;
- della politica – contro una direzione dei processi dall’alto si oppose l’auto-governo della società e la polverizzazione dei luoghi aggregativi;
- della democrazia – contro quella fondata sul consenso popolare si oppose quella basata sulla competizione e l’alternanza.
Il Pci si trovó attaccato su questi tre fronti sia dall’Autonomia che dai socialisti liberali, in primis Bobbio (che aveva iniziato a punzecchiare il Pci fin dagli anni Cinquanta con la celebre discussione con Togliatti e Galvano della Volpe sulla compatibilità del marxismo con la democrazia e la cultura dei diritti civili).Dal lato dell’Autonomia, l’attacco al Pci era attacco alla politica come organizzazione: fu dunque un attacco diretto sia al Pci di governo (Bologna) sia al Pci di fabbrica (la Cgil di Luciano Lama). La dimensione politica rappresentativa venne contestata nel nome di una visione che oggi chiameremmo antipartitica e più radicalmente ancora, emancipazione della società dalla politica partitica. Rileggere i numeri del 1977 della rivista A-Traverso conferma questa interpretazione: contro la cultura del compromesso e della governabilità veniva esaltato il conflitto senza escludere lo scontro violento; contro la politica della rappresentanza istituzionale ed elettorale veniva proposta la diserzione dalle urne e la stessa pratica assembleare mostrava segni di stanchezza; contro un’idea di organizzazione fondata sulla centralità del luogo fisico del lavoro fordista veniva esaltata la «vita entusiasmante del proletariato mobile»; contro «la materialità del territorio» veniva proposta una visione di potere che era «rete comunicativa, informativa e relazionale» ovvero «de-territorializzata» e «de-istituzionalizzata» [Primavera ’77. Tesi e problemi del movimento, a cura di Franco Bifo, Roma 1977 (Dossier di A-Traverso, 1].
Infine, per «liberare dal lavoro di fabbrica» e dall’etica del lavoro (esemplare l’opposizione al progetto delle ‘centocinquanta ore’ di scolarizzazione rivolto a quegli operai che aspiravano a conseguire un diploma identificato come «militarizzazione del lavoro»), il ‘movimento’ esaltò l’opposto del lavoro organizzato: il «lavoro precario», «l’assenteismo», il lavoro saltuario – e infine, il rifiuto del lavoro sindacalizzato anche a costo di demolire l’idea di lavoro protetto dai diritti. Il lavoro veniva finalizzato al successo individuale e alla monetarizzazione; non era più inteso come occupazione che socializzava e creava collettivo. Il lavoro manuale era declassato a forma servile che l’identità di classe non valeva ad emancipare. La classe non era più un’entità socio-economica e solidaristica ma una costruzione simbolica o del discorso [Vedi, Settantasette: La rivoluzione che viene, a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Roma, Derive Approdi, 2007; Franco Berardi Bifo, A/traverso, in: Annisettanta: il decennio lungo del secolo breve, La Triennale di Milano, 27 ottobre 2007-30 marzo 2008, catalogo a cura di Marco Belpoliti, Gianni Canova, Stefano Chiodi, Milano, Skira, 2007, pp. 26-28].
La contrapposizione era frontale: il movimento masticava Foucault e Deleuze, il Pci si riconosceva nella proposta comunitaria di Monsignor Bettazzi e Berlinguer.
Dall’altra parte vi era, come menzionato sopra, la critica liberal-socialista. In una serie di articoli apparsi su Mondoperaio, Bobbio aveva messo il dito sulla piaga prima ancora che scoppiasse il ’77: il problema del Pci era la sua visione anti-conflittualistica della democrazia, come democrazia delle masse diretta da un centro politico che doveva trasformare la società secondo un progetto definito ex ante e che il Partito aveva il compito di far penetrare tra gli elettori. Ecco l’ossimoro: il Pci voleva dimostrare con il compromesso storico di poter usare la democrazia elettorale senza essere o diventare un partito elettorale [Vedi, Norberto Bobbio, Quale socialismo?, Torino, Einaudi, 1976].
L’ossimoro del compromesso storico in una democrazia elettorale era quello di neutralizzare il potere di controllo delle elezioni: avere una super-maggioranza significava prevedere che l’opposizione non potesse avere la forza di far sentire alla maggioranza di essere comunque una maggioranza a termine; il paradosso era che azzerando la regola aurea dell’alternanza, il compromesso storico non poteva proprio essere la soluzione della «questione morale» – che non viene dalla democrazia del consenso, ma dalla regola dell’alternanza (la quale deve appunto avere la forza deterrente di contenere la tentazione di corruzione che si rafforza insieme all’occupazione incontrastata del potere). La concezione democratica del Pci era il problema dunque – una concezione che pensava alla democrazia in termini di unanimità e non maggioranza/opposizione (che era l’immagine rovesciata del modello liberal-democratico proposto dai paesi del Patto Atlantico e, in questo senso, un prodotto della Guerra fredda).
Infine: perché voler creare l’unità delle forze popolari? La storia politica ci propone due risposte alla strategia della costruzione di un soggetto collettivo unitario: per affrontare l’atto di fondazione di un ordine politico (momento costitutivo) o per difendere un sistema costituito (politica di emergenza). Non si tratta come si vede di una strategia di politica democratica ordinaria. Ora, se l’obiettivo di generare una larga maggioranza per il Pci era centrale, ciò era perché probabilmente pensava di dover rifondare e ricostituzionalizzare la società, non semplicemente governarla – pensava, appunto, di dover creare il socialismo. Voleva avviare a suo modo un momento costitutivo dal quale era per necessità espunta la logica maggioranza/opposizione propria della politica democratica ordinaria. Concluderei con l’accenno a un altro grande paradosso che si mostrò soprattutto negli anni del terrorismo, che subì un’impennata a partire dal ’77: il Pci non volle mai compiutamente diventare un partito socialdemocratico e coltivò un progetto di trasformazione che non poteva essere operativo in una democrazia elettorale; tuttavia, difese fino all’ultimo le istituzioni della democrazia parlamentare, a costo di perire nell’impatto. L’ossimoro comunista che l’iceberg del ’77 mise solo in luce era questo: un partito con una struttura che, camminando, si era adattata al sistema parlamentare, senza tuttavia mai accettare la logica conseguenza di questo adattamento. Non lo poteva, perché ciò avrebbe significato fare maggioranze che immettessero elementi di socialismo accettando il rischio che potessero essere rimossi. Questa accettazione avrebbe richiesto un partito liberal-socialista o socialdemocratico: cosa che il Pci non volle mai essere. E morì comunista dopo aver difeso strenuamente le istituzioni democratiche (sia dal terrorismo sia dalla contaminazione clientelare dei partiti di governo) che aveva contribuito a creare. La funzione del Pci fu quella di aver contribuito a edificare e a consolidare la democrazia in un paese che ne era geneticamente a digiuno. La sua fu a tutti gli effetti una funzione fondativa; una funzione a termine, come tutti i processi fondativi, inadatta per eccesso al funzionamento ordinario della democrazia elettorale e parlamentare.
*Nadia Urbinati, politologa, insegna alla Columbia University di New York. Questo testo è un contributo al seminario Il ’77, da vicino e da lontano. Per una riflessione sul Pci nel dopoguerra tenutosi all’Archiginnasio di Bologna, Sala dello Stabat Mater il 29 maggio 2017, in corso di pubblicazione in un volume collettaneo a cura di Mauro Boarelli, Carlo Ginzburg, Nadia Urbinati.
Fonte: https://jacobinitalia.it/come-la-democrazia-parlamentare-non-cambio-il-pci%ef%bb%bf/
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