Con un reddito pro capite che difficilmente supera gli 800 dollari all’anno, un tasso di denutrizione superiore al 45% ed un tasso di analfabetismo che s’aggira tra il 50 e il 70%, Haiti è il paese più povero dell’emisfero occidentale e sta vivendo in queste settimane una nuova crisi politica e sociale. Unitamente all’inflazione galoppante e alle gravi condizioni di vita, la scintilla che ha innescato le violente proteste riguarda la partecipazione di una società presidenziale nel meccanismo di fondi Petrocaribe, cioè nel programma solidale di forniture petrolifere promosso nel 2005 dal Governo Chavez. I manifestanti accusano il presidente Jovenel Moïse d’essersi indebitamente appropriato del prestito di 4 miliardi di dollari concesso alla Nazione per l’acquisto di petrolio a condizioni favorevoli e la promozione di altre opere sociali: non si tratta però di una protesta anti-corruzione, ma di una vera e propria rivolta iniziata già lo scorso luglio contro il Governo e la sua classe dirigente. Negli ospedali mancano le medicine e nei supermercati i generi di prima necessità, per le strade sono state erette barricate con copertoni che bruciano, banche e stazioni di rifornimento date alle fiamme e i violenti scontri con la polizia e i militari ONU hanno portato – finora – alla morte di circa una decina di persone, anche se fonti d’opposizione riferiscono un numero superiore a 50. Se il quadro ricorda quello venezuelano, la situazione è in realtà ben diversa: per Haiti non si parla di un feroce dittatore socialista, ma di un Presidente neoliberista “regolarmente” eletto, nonché alleato degli Stati Uniti. E quindi, di fatto, si tace sulla fame, sulle rivolte e sulla repressione operata dal governo haitiano.
Strangolati per oltre quarant’anni da una classe politica corrotta e collusa con Washington, i manifestanti chiedono le immediate dimissioni del Presidente Jovenel Moïse, vincitore alle urne nel 2016 con il partito Haitian Tèt Kale Party (PHTK), cioè, tradotto dal creolo haitiano, con il “Partito haitiano delle Teste Rasate”. Dopo un’elezione annullata nel 2015, Moïse è stato eletto presidente con 590mila voti favorevoli espressi da meno del 5% degli aventi diritto. Causa, anche, il violento uragano che aveva devastato l’isola solo poche settimane prima, l’affluenza alle urne è stata, con un misero 20%, la più bassa in tutto l’emisfero occidentale dal 1945. Ciononostante, le elezioni furono considerate del tutto regolari e legittime: paladina di giustizia e democrazia, la “Comunità Internazionale” non ha avuto in quella particolare circostanza nulla da ridire. Al contrario, Donald Trump s’è personalmente congratulato con il neopresidente “eletto” Moïse.
Non c’è da stupirsene: come l’Honduras, il Salvador o il Guatemala, anche l’Haiti di Duvalier è stata – ed ovviamente continua ad essere con Moïse – teatro di quella strategia imperialista americana attuata attraverso la soppressione di qualsivoglia politica socialmente progressista e, di contro, il finanziamento di dittatori fantocci e criminali. In America Latina, “cortile di casa” degli Stati Uniti, sono poche ma esemplari le nazioni che vi hanno resistito: Nicaragua, Cuba e Venezuela. Non a caso, il Nicaragua di Daniel Ortega – povero, ma in costante crescita e premiato dalla FAO per esser stato tra i primi paesi al mondo a raggiungere gli “obiettivi del millennio”, riducendo povertà e disuguaglianze sociali – è stato pochi mesi fa al centro di un’insistente e nauseante campagna politico-ideologica promossa dagli stessi USA “contra-nostalgici” per rovesciare la presunta dittatura sandinista. Anche Cuba, dove la qualità della vita – basti ricordare sanità e politiche di welfare – è di gran lunga superiore a molti altri paesi dell’America Centrale e perfino degli Stati Uniti, per anni è stata emblema della minaccia comunista, una sorta di gulag caraibico nel quale però a marcire dietro le sbarre sono i prigionieri della Guantanamo americana. Dulcis in fundo il Venezuela, governato da un presidente regolarmente eletto, promotore di una politica sociale di stampo chavista, colpevole di possedere le più grandi scorte di petrolio al mondo e per questo punito con l’embargo, oggi tra i nemici pubblici della democrazia.
Due pesi e due misure: di Castro, di Ortega e di Maduro s’è detto il peggio che si potesse raccontare, dai manifestanti repressi con inaudita violenza ai camion di aiuti umanitari dati alle fiamme per puro sadismo. Di Moïse e del popolo haitiano si tace. Al massimo, se ne cantano doti e virtù: Maduro, che nonostante le pressioni internazionali ha continuato per la strada del dialogo, è minacciato con i carri armati; Moïse, che ben lontano dal volersi dimettere invoca “la strada del dialogo”, trova appoggio e copertura da Trump in persona.
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