Perché l’Italia guadagna con la Nuova via della seta della Cina
di LETTERA 43 (Barbara Ciolli)
L’espansione di Pechino verso l’Europa ha già spostato il traffico dal Pacifico al Mediterraneo. Partecipare al progetto conviene. E infatti dietro le quinte sono attive Regno unito e Germania.
In Europa e Oltreoceano ha innescato una levata di scudi la notizia, riportata dal britannico Financial Times, dell’Italia pronta a entrare da questa primavera nella Nuova via della seta della Cina come prima potenza del G7. L’occasione per firmare il memorandum d’intesa sul maxi piano commerciale e di infrastrutture del gigante asiatico sarebbe la visita del presidente cinese Xi Jinping in Italia, il 22 e il 23 marzo. O, un mese dopo, al Forum sulla Belt and road initiative («Una cintura, una strada» è il nome in mandarino del programma), tra il 25 e il 27 aprile. L’allarme tra i big occidentali è scattato con l’altolà degli Stati Uniti a un passo che può «danneggiare in modo significativo l’immagine internazionale del Paese». E proprio il 21 marzo, mentre Jinping sarà a Roma, a Bruxelles si riuniranno i capi di Stato e di governo dell’Unione europea (Ue) per discutere di una linea comune sugli investimenti con la Cina.
RENZI E GENTILONI, PRIMA DI DI MAIO
Che la trovino è dubbio, considerate le divisioni dei leader europei pressoché su tutto. Mentre è certo che nel processo all’Italia ci sia una grande ipocrisia. Innanzitutto la notizia del Ft non è un’indiscrezione, né una rivelazione: già durante la sua visita in Cina del settembre scorso il vicepremier Luigi Di Maio (M5s) espresse la volontà di «concludere un memorandum of understanding con Pechino entro il 2018 sulla Nuova via della seta». La data è addirittura slittata, ma c’è di più: quanto presentato, a questo punto dall’Ue, come una mossa azzardata, non allineata del governo populista di M5S e Lega Nord, è in realtà un percorso perseguito e avviato dai governi Renzi e Gentiloni: nel 2017 l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni volò a Pechino per partecipare al primo Forum della Belt and road initiative, come primo leader del G7. Di Maio ha accelerato il processo, in un contesto internazionale – questo è il punto – nel frattempo cambiato.
UN MAXI PIANO «DELLA CINA PER LA CINA»
La novità è laguerra di Donald Trump alla Cina, che coinvolge anche gli alleati europei, non l’adesione degli stranieri all’ambizioso progetto di Jinping della ricostruzione in grande stile delle rotte commerciali tra Oriente e Occidente. Grecia e Portogallo sono entrati nella Belt and road initiative prima dell’Italia, ed è comprensibile che il Paese di Marco Polo miri a un ruolo di punta nella Nuova via della seta: i porti di Venezia e Trieste, con una storia millenaria di commerci con l’Oriente, sono in prima linea per il rilancio concepito dall’ultimo presidente Jinping; le antiche rotte tra Asia, Africa ed Europa collegavano il Celeste impero con Roma. Sono certo legittime le condanne dell’Ue alla competizione sleale e al furto di copyright della Cina, e sensati i sospetti che per la Nuova via della seta non tratterà di «mutui investimenti», come sostiene Pechino, ma piuttosto di un progetto «della Cina per la Cina», come ammonisce Trump.
TUTTA L’UE ALLA TAVOLA DEL FONDO MONETARIO CINESE
«A senso unico», dice anche il presidente francese Emmanuel Macron che, come i leader del Regno Unito e della Germania, preferisce non firmare memorandum con la Repubblica popolare. Nel 2013, tuttavia, presentato il progetto cinese dei miliardi di investimenti in infrastrutture attraverso l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Africa tutte le grandi e medie economie globali si precipitarono ad aderire all’Asian infrastructure investment bank (Aiib), fondata a Pechino nel 2014 e operativa dal 2016. Dell’alternativa asiatica al Fondo monetario internazionale (Fmi) e alla Banca mondiale orientati dagli Usa, l’Italia figura tra i numerosi fondatori, ma solo come quarto azionista europeo, dopo nell’ordine Germania, Regno Unito e Francia. E, nella fase precedente all’allargamento europeo, in Medio Oriente la Belt and road initiative ha arruolato alleati di ferro degli Usa – e di Trump – come l’Arabia Saudita e Israele.
Il potenziale dell’Italia sta nei suoi porti sul Mediterraneo, più che nel commercio delle merci cinesi e nelle partnership industriali
SEI CORRIDOI NEL MEDITERRANEO ENTRO IL 2022
Uffici di rappresentanza e sedi finanziarie della Nuova via della seta sono spuntati anche nei porti del Libano, pronti a espandersi in Siriauna volta concluso il conflitto e riportato il territorio sotto il controllo del regime di Bashar al Assad, oltre che negli Emirati e negli altri Paesi del Golfo. Circa 70 miliardi di dollari sono stati investiti in 1400 progetti soprattutto in Asia, tra il 2014 e il 2017. Ma sarà il Mediterraneo il bacino privilegiato dei sei corridoi commerciali (via terra, via mare e uno anche aereo) che la Cina vuole sviluppare entro il 2022 attraverso reti ferroviarie, autostrade, rotte navali e facilitazioni doganali: la crescita del Dragone ha provocato, nel Terzo millennio, un riequilibrio nel mercato globale del traffico commerciale nel Mare nostrum (al 42% dal 27% degli Anni ’90), dal canale di Suez, a scapito della tratta transpacifica (calata al 44%). Nell’ultimo quinquennio, il numero delle navi portacontainer nel Mediterraneo sarebbe aumentato del 20% dalle stime di Pechino.
INGLESI E TEDESCHI ATTIVI DIETRO LE QUINTE
Attraverso il Bosforo, la Turchia non ha mai smesso di beneficiare dei commerci con l’Oriente, la Nuova via della seta mina gli interessi del Centro e del Nord Europa, oltre che degli Usa. Il potenziale dell’Italia sta nei suoi porti sul Mediterraneo, più che nel commercio delle merci cinesi e nelle partnership industriali per le infrastrutture. Una torta di investimenti, benché pilotati dal soft e hard power di Pechino, considerevole: tant’è che un’ex potenza coloniale come il Regno Unito non ci mette la faccia ma, secondo le cronache cinesi, intende da dietro le quinte sostenere la Belt and road initiative con investimenti finanziari, sostegno tecnologico e personale specializzato. In un’ottica post-Brexit, la premier Theresa May sarebbe pronta a «rafforzare gli accordi bilaterali con la Cina». Così ha fatto anche la Germania, prima nell’Ue per export verso Pechino, anche per sopperire al calo di ordini della crisi dal 2008. Ma della Nuova via della seta non si deve parlare.
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