Via della Seta, un nuovo South Stream
di FEDERICO DEZZANI
L’annuncio della firma di un memorandum italo-cinese lo sviluppo della Nuova Via della Seta ha innescato una tempesta: gli USA, anche tramite il canale indiretto di Bruxelles, hanno espresso la loro contrarietà all’iniziativa, scompaginando il quadro politico e alzando un immediato coro di allarmi. La geografia della penisola italiana, collocata nel cuore del Mediterraneo e allo stesso tempo connessa col Continente, ci rende la naturale destinazione di qualsiasi infrastruttura Est-Ovest: le stesse ragioni che hanno affossato il South Stream potrebbero però condannare anche la Via della Seta. Solo la Germania dimostra di essere sufficientemente forte da sviluppare i progetti euroasiatici.
Opportunità e realtà
Correva il maggio 2017 quando, unico premier tra i Paesi del G7, Paolo Gentiloni partecipava al Forum sulla Nuova Via della Seta nei pressi del suggestivo lago Yanqi, a Nord di Pechino. Il viaggio di Gentiloni era giustificato dalla prospettive dischiuse dall’ambizioso piano infrastrutturale cinese, che, nella sua variante marittima, unirà Sud-Est Asiatico, Corno d’Africa e Europa: “L’Italia può essere protagonista in questa grande operazione a cui la Cina tiene molto: per noi è una grande occasione e la mia presenza qui significa quanto la riteniamo importante1”. A distanza di quasi due anni, il percorso avviato da Gentiloni dovrebbe fare un ulteriore passo in avanti con la firma di un memorandum d’intesa, durante la prossima visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping: si tratta di uno storico viaggio che, secondo quanto trapelato, toccherebbero anche la Sicilia, cuore nevralgico del Mediterraneo.
La notizia della firma del memorandum (un documento di massima che, si noti, non implica alcuna azione concreta e ribadisce soltanto la volontà di collaborare) ha immediatamente scatenato la reazione euroatlantica: l’imput è partito da Washington, dove si è scomodato Garrett Marquis, portavoce del National Security Council, che ha sconsigliato l’Italia dal dare legittimità internazionale al progetto cinese.
A stretto giro, la Commissione Europea ha rincarato la dose, ammonendo l’Italia dall’intraprendere azioni unilaterali ed invitando ad affrontare la questione della Via della Seta nella cornice dell’Unione Europea: si tratta di un richiamo che nasce certamente al di là dell’Atlantico ed è recapitato all’Italia attraverso le istituzioni europee. Mai come in questo periodo critico, infatti, sta emergendo la natura più atlantica che europea della sovrastruttura di Bruxelles, decisa a bloccare la nascita di grandi colossi industriali (fusione Alstom-Siemens), menomare il Nord Stream 2 imponendo norme restrittive, fermare gli investimenti cinesi ovunque se ne presenti l’occasione, etc. L’azione congiunta di Washington e Bruxelles ha prodotto gli effetti di una granata tra le fila della politica italiana: se fino a quel momento, l’iniziativa della Via della Seta era andata avanti per forza d’inerzia, trascurata pressoché da tutti tranne che pochi addetti ai lavori, improvvisamente la politica si è polarizzata tra favorevoli e contrari al progetto, trovando nella Lega Nord (e persino nel PD di Zingaretti!) una sponda particolarmente sensibile agli ammonimenti di Washington e Bruxelles. L’Italia, così, si trova nella paradossale posizione di dover accogliere il presidente Xi Jinping per firmare un memorandum che, con ampia probabilità, già si riserva di non rispettare: non sarebbe la prima volta che l’Italia dà il via libera a un progetto euroasiatico che, sebbene rappresenti sulla carta un decisivo rilancio dell’asfittica economia nazionale, sia destinato a rimanere lettera morta.
Partiamo da alcune considerazione squisitamente geografiche: lunga circa mille chilometri, la penisola italiana è, per sua stessa definizione, metà isola e metà continente. Le regioni meridionali la proiettano in modo naturale verso i Balcani, il canale di Suez e le coste tunisine, mentre quelle settentrionali la incastonano nel Continente, tanto che, fino alla Prima Guerra Mondiale, il nord-est era considerato parte integrante del sistema economico-militare di lingua tedesca. In sostanza, l’Italia è la cerniera perfetta tra Est ed Ovest, tra Europa ed Asia.
Il primo colosso euroasiatico a cogliere il potenziale dell’Italia è stato, nell’ultimo decennio, la Russia di Vladimir Putin che, non confidando (a ragione) sulla stabilità dell’Ucraina, aveva già valutato nel 2006/2007 (governo Prodi II) di diversificare la rete di gasdotti europei, usando l’Italia come principale testa di ponte in Europa Occidentale: Otranto e Tarvisio sarebbero dovuti diventare i due terminali del gas in arrivo dalla Russia, via Mar Nero, consentendo al nostro Paese di trasformarsi in uno snodo energetico di primo piano, con benefici in termini di minor costi energetici e maggiori introiti per il pedaggio del metano. L’intrinseca debolezza economica e politica dell’Italia, unita alla crisi ucraina (annessione della Crimea del marzo 2014), indussero i russi a rinunciare al South Stream nel dicembre 2014, poi riesumato in forma ridotta col Turkish Stream. L’Italia, così, non solo perse l’occasione di costruire il gasdotto tramite Saipem, ma soprattutto vide sfumare la possibilità di diventare il “ponte energetico” tra Russia ed Europa occidentale. È un ruolo, quello che avrebbe potuto essere dell’Italia, ereditato in buona parte della Germania: questo è punto decisivo, su cui bisogna affermarsi.
Il South Stream aveva un corrispettivo nel Mar del Baltico, il Nord Stream, con una capacità annua di 55 miliardi di metri cubi di gas sull’asse Germania-Russia: nonostante le rimostranze polacche ed angloamericane, il gemello nordico del Nord Stream è stato regolarmente terminato nel 2011. Non solo: i tedeschi hanno colto l’opportunità di trasformare il loro Paese in ciò che avrebbe potuto essere l’Italia, ossia lo snodo tra Est ed Ovest. Hanno così messo in cantiere il raddoppio del Nord Stream che, con i suoi 110 milioni di metri cubi annui di gas, rimpiazza de facto il defunto South Stream. Tutto si può dire, meno che quest’opera sia costata poco alla Germania, che ha dovuto reggere l’assalto angloamericano al sistema Paese (Dieselgate e Deutsche Bank), fronteggiare l’ostruzionismo di Bruxelles, incassare le minacce di Trump all’ONU (dove il presidente americano collocò Berlino, “totalmente dipendente dalla Russia”, fuori dall’emisfero occidentale2). Stando agli ultimi sviluppi, non è nemmeno escludibile che le aziende tedesche coinvolte nella realizzazione del Nord Stream 2 siano oggetto di sanzioni economiche in un prossimo futuro, come una società iraniana o russa qualsiasi. Ciononostante, la Germania tira dritto in vista di un risultato ecclatante: diventare il centro di smistamento europeo del gas russo, un ruolo che avrebbe potuto essere anche dell’Italia.
Per la Nuova via della Seta, vale lo stesso discorso. Contando sul fatto che la Cina è ormai il primo partner commerciale della Germania, i tedeschi hanno costruito in silenzio la propria via della Seta, marittima e terrestre. La declinazione marittima, quella più strettamente in competizione con l’Italia, poggia su un sistema portuale “allargato” che inizia a Rotterdam e termina ad Amburgo: sono porti distanti 5 (Genova e Trieste) o 7 giorni di navigazione (se le navi attraccassero in Meridione) più lontani di quelli italiani, eppure più competitivi, grazie alle migliori infrastrutture. La declinazione terrestre, invece, poggia sui treni transcontinentali che fanno la spola tra Cina e Germania, via Russia: trenta treni alla settimana coprono ormai la tratta euroasiatica e la città tedesca di Duisburg, le cui fortune sono state a lungo legate al carbone e all’acciaio, si è “reinventata” come terminale ferroviario dei treni merci in arrivo dalla Cina3.
Se l’Italia, anziché cogliere al balzo l’opportunità offerta dalla Nuova Via della Seta, esiterà o, addirittura, cederà alle pressione euroatlantiche, rimandando sine die il progetto, avverrà quanto già sperimentato col South Stream: la Germania “risucchierà” i traffici italiani, con l’effetto di allargare ulteriormente il divario di ricchezza tra i due Paesi e condannare la penisola ad un ruolo periferico. C’è ancora un’alternativa, tutt’altro che remota: che solo un pezzo della penisola italiana entri nella Via della Seta. Il Nord Italia, cioè, potrebbe infine allacciarsi al piano cinese in virtù della sua dipendenza economica e geopolitica con il mondo tedesco, mentre il Sud, sede delle basi statunitensi strategiche e di importanti infrastrutture tecnologiche israeliane ed angloamericane, ne rimarrebbe tagliato fuori, spaccando il Paese in due. La Nuova Via della Seta, in conclusione, è l’occasione del XXI secolo per l’Italia: il precedente del South Stream, non consente però di essere ottimisti sulla sua realizzazione.
1https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-05-14/gentiloni-cina-l-italia-puo-essere-protagonista-nuova-via-seta-152407.shtml?uuid=AEaKmFMB
2https://www.cbsnews.com/news/why-were-un-diplomats-laughing-at-trump/
3https://www.handelsblatt.com/today/companies/the-freight-game-how-china-put-duisburg-back-on-the-trade-map/23583018.html?ticket=ST-2521982-jnf7psa5IeR5WyBC7jBQ-ap5
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org/via-della-seta-un-nuovo-south-stream/
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