Nontuttosubitismo, subito!
di IL PEDANTE
Oggi esiste una parola nuova: il «tuttosubitismo». Che alcuni usano per deplorare chi, tra gli elettori della frazione euroscettica e leghista del governo, esprime delusione e amarezza per la mancata realizzazione del programma Basta Euro di Matteo Salvini e accusa di «tradimento» i suoi autori. Dopo un anno di governo, notano i «tuttosubitisti», non sono stati adottati provvedimenti per emanciparsi dal giogo politico, economico e monetario dell’Unione, mentre alcuni messaggi pubblici suggeriscono l’intento opposto. Dall’altra parte, esponenti e sostenitori del partito controbattono che il peso relativamente esiguo della componente parlamentare sovranista nella coalizione, il sostegno sinora scarso dell’opinione pubblica, i compromessi dettati dall’alleanza di governo, le resistenze istituzionali che riflettono interessi e automatismi culturali sedimentati da decenni, nonché la delicatezza degli equilibri internazionali sottesi, rendono il percorso di recupero della sovranità nazionale necessariamente lento e faticoso. Che, appunto, non si può ottenere tutto e subito, ma ci si prova.
La querelle del «tuttosubitismo» solleva nell’elettore interrogativi importanti sulla volontà del partito di perseguire davvero gli obiettivi dichiarati in campagna e su quanto sia coeso, o lo sia mai stato, nel farli propri. Il problema non è nuovo:
Look at the Thiers, look at Guizot, in opposition and in place! Look at the Whigs appealing to the country, and the Whigs in power! Would you say that the conduct of these men is an act of treason, as the Radicals bawl,—who would give way in their turn, were their turn ever to come? No, only that they submit to circumstances which are stronger than they,—march as the world marches towards reform, but at the world’s pace (and the movements of the vast body of mankind must needs be slow), forgo this scheme as impracticable, on account of opposition,—that as immature, because against the sense of the majority,—are forced to calculate drawbacks and difficulties, as well as to think of reforms and advances,—and compelled finally to submit, and to wait, and to compromise. (W. M. Thackeray, Pendennis, 1851)
Il «tuttosubitismo» e la sua critica hanno a che fare con il consenso di un partito politico e il suo debito elettorale. Possono perciò difficilmente offrire un criterio di valutazione della legislatura intera. Anzi, rischierebbero di anestetizzare quella valutazione se appiattissero i tanti e gravi pericoli della condizione politica attuale in una dialettica senza uscita. Se cioè, nel divergere tutta l’attenzione di chi lotta verso il cuore inespugnabile della cittadella nemica, lo rendessero ignaro delle incursioni, dei saccheggi e delle stragi delle truppe ostili, fino all’irrecuperabile sconfitta. Mi spiego.
Per molti, grazie anche al lavoro di chi oggi siede nelle aule, lo stretto nesso causale tra l'(auto)imposizione dei vincoli europei e la regressione produttiva, salariale, occupazionale, infrastrutturale ecc. del nostro Paese non è più un mistero. Oggi quasi un quinto degli italiani ritiene che l’appartenenza all’Unione Europea sia «un male» e quasi la metà di non averne tratto vantaggi. Ciò che invece sfugge di norma, o si sottintende con troppa facilità, è che i trattati europei non sono che l’agente di un più ampio processo indirizzato non tanto all’unione di un continente, quanto a trasferire il potere diffuso iscritto negli ordinamenti delle nazioni – e quindi, per corollario diretto, anche delle ricchezze e della libertà di chi ci abita – dalle masse al vertice. Questo processo, che possiamo chiamare per semplicità «globalista», incrocia senz’altro il «sogno» europeo ad esempio là dove quest’ultimo indebolisce e vincola i governi eletti, liberalizza i movimenti di merci e capitali, fissa il tasso di cambio a detrimento della competitività dei più deboli ecc., ma non vi si identifica.
Lo ripetiamo: non vi si identifica. Né quindi vi si può esaurire.
La revoca del potere diffuso si consuma anche in seno alle giurisdizioni nazionali, sia limitando la democrazia nei fatti e nelle norme, sia introducendo nuove forme di costrizione e controllo dei cittadini, tra le quali spiccano oggi la dematerializzazione dei processi (fino alla dematerializzazione della democrazia) e il governo biotecnico dei corpi. Che queste strategie si stiano dispiegando negli stessi tempi e modi, e con gli stessi slogan, anche in Canada, Stati Uniti, Australia, Sud America ecc. dovrebbe bastare per riposizionare il «problema Europa» in un contesto che lo trascende di molti ordini e che potrebbe addirittura sacrificarlo, senza con ciò disinnescarne i motivi.
Fissate le coordinate del problema, non si può purtroppo ignorare che su questa «corsia interna» la legislatura attuale sta correndo molto, moltissimo, a rotta di collo, più di qualunque altra della storia recente. Non solo e non tanto per la qualità dei provvedimenti ereditati dai predecessori, attuati, incrementati o escogitati ex novo. Non solo perché la «agenda digitale» con le sue appendici di sorveglianza, controllo, manipolazione, insicurezza e costi per i più deboli è subito decollata con la fatturazione elettronica obbligatoria per tutti, la schedatura dei dati sanitari, il controllo biometrico dei dipendenti, la fregola di votare con i touchscreen e di rendere ogni cosa «smart», il cinqueggì, l’abracadabra della blockchain e della «intelligenza artificiale» – molto credibilmente affidate a un testimonial ottantatreenne. Non solo perché subordina alla somministrazione di farmaci il diritto all’istruzione e al lavoro, nel momento di minore allarme epidemiologico della nostra storia. Né perché incita con pelosa urgenza alla pratica, già degenerata altrove, dell’autosoppressione dei deboli. E non solo perché vuole incrinare ulteriormente i bastioni della democrazia nazionale colpendo insieme la democrazia – con l’idea altrimenti assurda di ridurre il numero dei parlamentari – e la nazione – con lo svuotamento delle sue competenze e la loro dispersione asimmetrica nelle regioni.
Non solo per tutte queste cose, che non sono nuove. Ma per il metodo con cui le persegue, nella velocità e nel silenzio. L’esempio più emblematico è anche il più recente. Il 2 marzo appariva in Gazzetta la determina AIFA n. 21756/2019 con cui si inseriva un chemioterapico, la triptorelina, tra i farmaci a carico del SSN se utilizzato per arrestare la pubertà dei dodicenni in crisi di identità sessuale. Ora, non solo è rivoltante l’idea in sé, di stravolgere con un antitumorale lo sviluppo psicofisico di un bambino, ma più rivoltante è l’indifferenza bovina di tutte le voci politiche sul tema, evidentemente derubricato a cavillo, a notula indegna dell’attenzione di chi bada alle cose serie (?). Eppure stiamo parlando dello stesso Paese che dieci anni fa – non cento! – dava bagarre in Aula sulla più blanda «pillola del giorno dopo». Che è successo? Quanto è inutile e perversaun’assemblea che tace mentre si entra nella carne dei piccoli? E che dire dell’obbligo di fatturazione elettronica? Come è stato possibile che un provvedimento che non voleva nessuno sia stato approvato con l’assenso tacito o vocale di tutte le sponde politiche? A che serve una rappresentanza che non rappresenta? Con le maggioranze che si imbavagliano a vicenda brandendo irrilevanti vincoli «contrattuali» (l’unico contratto è con gli elettori) e le minoranze che si disattivano per rincorrere gli ologrammi scodellati dalla propaganda più lisergica e puerile, che chiamano «opposizione»?
Di questo garbuglio si può dire una cosa: che non ha freni e che marcia unanime e imperturbato, per le ragioni più lontane ma convergenti al traguardo, in coda al pastore globale. Agli elettori di ogni parte non resta che augurarsi di barattare l’amaro calice con qualche forma di riscatto – prima o poi, quale che sia. O se esaurito il credito, portare le proprie istanze dalla sorda Versailles alle piazze-giocattolo della rete e ai parlamenti-giocattolo dei social, che però rispondono agli azionisti, non alla Carta. Lì potrebbero perciò essere censurate, menomate, penalizzate. Anzi possono esserlo, lo sono già. E dopo? Dove si sfogheranno gli elusi? E come?
Tutto ciò sta accadendo molto velocemente e da ciò – mi auguro e mi appello in questo senso ai lettori – il palcoscenico del «tuttosubitismo» non ci deve distrarre. Se in quella trama si fotografa una parte, forse la più calcificata e avanzata, del problema, nuovi veleni devono ancora colare sulle radici della democrazia costituzionale e delle sue filiali. Occorre perciò invertire il messaggio e dirsi invece «nontuttosubitisti», far precedere all’auspicio di controriforme sacrosante ma lontane la condizione più urgente di una assenza di riforme e il dovere di resistere a uno Zeitgeist che finge di accogliere le alternative per sopprimerle. Coltivare cioè il katéchon, il «trattenitore» paolino (2 Tes. 2:6-7) che rallenta l’avvento dell’Anticristo intralciandone il cammino, il potere oppositivo che per Carl Schmitt (Der Nomos der Erde) salva l’umanità mettendo un freno ai suoi «progressi». La metafora teologica allude non per forza alla fine dei tempi storici, ma certamente a quelli della disseminazione materiale e politica dell’età costituzionale, il cui crepuscolo è già evidente.
L’illusione di «governare la modernità» – di accettare cioè ogni sua singola clausola cambiandone qua e là il titolo e la posizione nel testo – segna l’orizzonte angusto e penoso di tutte le politiche di matrice globale. Non viene il dubbio che quella «modernità» possa non essere che il marchio commerciale di una agenda tra le tante, la cui trazione è ormai tale da rendere vergognosa e oscena la sola ipotesi di dubitarne. E che quell’agenda possa non essere né vecchia né nuova, ma semplicemente indesiderabile alla radice e quindi in ogni sua singola parte.
Nel merito hanno ragione i critici del «tuttosubitismo»: non si può respingere in campo aperto un nemico radicato e potente, un nemico dai cui successi dipendono i successi dei più forti del mondo. Crederlo è sbagliato, farlo credere è scorretto. Ma per tradurre il giusto monito in atti e non ricascare nelle trappole successive dovrebbero però aggiungere che occorre sottrarsi a esso in ogni suo campo e in ogni sua metamorfosi, per quanto possibile: sparpagliarsi nei boschi, non rispondere alle sue chiamate o rispondere tardi, non eseguire i suoi comandi o eseguirli male, temporeggiare, piegarsi alla sua violenza ma non alle sue minacce, temerne le armi ma disprezzarne le lusinghe, disseminare falle nel codice, non prendere l’iniziativa, salire per ultimi e scendere per primi, accamparsi nell’ombra, riverirlo ma non rispettarlo.
Perché questo possiamo oggi pretendere: che non accada tutto, non subito. Che in un mondo che si precipita a gara nell’abisso ci resti un piccolo vantaggio, una piccola differenza che può trasformarsi domani in salvezza.
Fonte: http://ilpedante.org/post/nontuttosubitismo-subito
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