Condorcet. Un manifesto per la scuola
di LE PAROLE E LE COSE (Mauro Piras)
[Condorcet. (Ri)pensare la scuola è un gruppo di docenti, dirigenti scolastici, esperti e appassionati di scuola che vuole rilanciare il dibattito sulla politica scolastica, liberandolo dalle secche in cui si è incagliato negli ultimi anni. Vuole proporre una prospettiva di alto profilo, dalla quale discutere dei problemi più generali dell’istruzione. Per questo si rivolge non solo agli addetti ai lavori, ma a tutti quelli che si sentono coinvolti dal mondo della scuola, direttamente o indirettamente.
Abbiamo scelto il nome per riportarci al momento fondativo della Rivoluzione francese: Condorcet è stato infatti l’autore del primo grande progetto di istruzione pubblica nel passaggio alla fase repubblicana della Rivoluzione. L’idea guida è il principio propulsivo della politica moderna, l’eguaglianza: “stabilire tra i cittadini una eguaglianza di fatto e rendere reale l’eguaglianza politica riconosciuta dalla legge. Questo deve essere il primo obbiettivo di una istruzione nazionale e, da questo punto di vista, essa è per il potere pubblico un dovere di giustizia” (Condorcet, Rapporto sull’istruzione pubblica, 1792).
Condorcet ha un manifesto, che presenta il suo programma, costituito da quattro punti: 1) la riforma dei cicli scolastici e l’abolizione delle bocciature; 2) il ripensamento del rapporto tra scuola, società e lavoro; 3) l’istituzione di carriere per i docenti; 4) il rilancio dell’autonomia scolastica. Il manifesto e le schede di approfondimento su questi punti si trovano sul sito, dove sono già stati pubblicati anche diversi contributi di chiarimento o su altri aspetti della politica scolastica.
Chiunque sia interessato a partecipare all’iniziativa può contribuire in molti modi, come spiegato in questa pagina, in cui si trova anche il link per iscriversi alla Newsletter.
Il testo che segue è una presentazione del tutto personale della prospettiva politica di Condorcet, di cui mi assumo interamente la responsabilità (mp)]
1.
La scuola è in crisi, sembra. Se ne parla solo in negativo: aggressioni a docenti, bullismo, tetti che crollano; oppure, più in generale, scarsi risultati degli studenti italiani, alti tassi di dispersione, bassi stipendi e bassa considerazione dei docenti. E così via. La percezione diffusa è che la scuola italiana sia travolta da un declino irresistibile. Le due interpretazioni più accreditate di questa crisi sono speculari: una è “non c’è più la scuola di una volta”; la seconda è “la scuola è sotto attacco”.
La prima occupa facilmente i paginoni dei giornali, con editoriali di “grandi firme” che ogni tanto, fuori dal loro campo di studi, decidono di parlare di istruzione, e di denunciare una scuola lassista, che promuove tutti, che non insegna più l’etica dello studio faticoso, dell’impegno, della responsabilità, che rammollisce le discipline nelle competenze e la disciplina nell’indulgenza; e di condannare una politica scolastica che ha smantellato una scuola “che funzionava”, un modello liceale che aveva una grande tradizione. E ogni tanto scrivono un bell’articolo sulla crisi del Liceo Classico.
La seconda si muove sul fronte opposto. È di sinistra. Condanna gli attacchi che la scuola democratica e “della Costituzione” subisce da almeno vent’anni. La scuola viene caricata sempre più di funzioni estranee al proprio compito. Le viene chiesto di adattarsi al mondo esterno, cioè al mondo del lavoro e della produzione. Viene sempre più invasa dalla logica “aziendalistica” e manageriale. I docenti non devono più formare persone ma consumatori. Gli studenti e le famiglie vengono considerati “utenti”. Le discipline e la cultura si perdono nel vago delle “competenze”, trasversali, funzionali al mercato, alla lotta sociale per l’esistenza. Insomma, la scuola subisce, come tutta la società, l’attacco del neoliberismo imperante.
Su una cosa convergono le due letture: è stata smantellata una “scuola che funzionava”. Per eccesso di “donmilanismo”, da una parte, o per aver tradito don Milani, dall’altra.
A tutto questo però si accompagna un’esperienza straniante. Nelle scuole superiori (più che mai oggetto di queste discussioni) tutto sembra essersi fermato. Entri in una classe, e si fanno sempre le stesse cose. Sempre gli stessi autori, sempre le stesse interrogazioni, sempre gli stessi compiti a casa. Sempre i banchi disposti in quel modo, la cattedra, il professore che spiega. Non proprio sempre, certo. Ma molto spesso, molto più spesso di quanto si creda. Però in un contesto in cui niente di tutto questo regge più, in cui le energie degli studenti, ingabbiate, ostacolate, inceppano a loro volta il meccanismo. E quindi si litiga su tutto. I consigli di classe sono penosi regolamenti di conti, in cui si cerca di salvare una scuola che affonda, scaricando tutto sulla presunta incapacità degli studenti, delle famiglie, della società, del sistema, del capitalismo, del mondo moderno tutto.
Che cosa sta succedendo? Qualcosa di completamente diverso da quello che dicono quelle due interpretazioni della crisi. Entrambe partono da un errore di analisi, trascurano un dato fondamentale: la scolarizzazione di massa, in Italia, è recentissima. Entrambe infatti parlano della scuola, e soprattutto dei problemi delle scuole superiori, come se la scolarizzazione di massa fosse stata raggiunta da tempo (negli anni settanta? negli anni ottanta?) e i problemi, più recenti, non venissero da lì, ma da altro: l’abbandono di sani modelli pedagogici del passato, o il cedimento alla logica del mercato. Non è così. Il passaggio definitivo alla scuola di massa è avvenuto negli anni duemila, non prima. Nell’anno scolastico 1984-85 il tasso di scolarizzazione tra i 14 e i 18 anni era del 55,7%; nel 1990-91, era del 68,3%; nel 2001-02 raggiunge l’89,8%; solo l’anno successivo supera il 90%, e dal 2013-14 a oggi siamo attestati al 93% (ISTAT, Serie storiche. Tassi di scolarità per livello di istruzione, sesso e ripartizione geografica. Anni scolastici 1984/85-2013/14).
È questa la causa strutturale della trasformazione profonda che stiamo vivendo: solo in questi ultimi anni una grande quantità di ragazzi che prima stavano fuori dal sistema di istruzione ne sono diventati parte integrante. La scuola fa fatica ad accoglierli, fa fatica a gestire una dimensione di massa, perché nella secondaria superiore è rimasta ancorata a strutture rigide e antiquate. Le difficoltà emergono con i tratti noti: ragazzi svogliati, poco motivati allo studio, con scarsa preparazione di base; conflitti con loro e con le famiglie, difficoltà e “tenerli”; risultati finali insoddisfacenti, che portano a “regalare le sufficienze”. Il sistema risponde segregando e escludendo: i casi più difficili vengono scaricati “verso il basso” del sistema scolastico (leggi istituti, soprattutto professionali, o scuole di periferia); oppure ne vengono espulsi, con il picco della dispersione che si concentra nel primo biennio delle superiori, che, ricordiamolo, è scuola dell’obbligo.
La scuola secondaria italiana, sia di primo che di secondo grado, si sta dimostrando inadeguata alla scolarizzazione di massa, o meglio al passaggio da questa, che è una condizione oggettiva prodotta da forze sociali anonime, alla scuola democratica inclusiva, che dovrebbe essere l’obbiettivo del sistema di istruzione in una democrazia.
2.
Quali sono le strozzature che impediscono alla scuola italiana di rispondere a questa sfida? La prima si trova nella struttura dei cicli scolastici. Si tratta anzi di più strozzature, non di una sola. Il percorso dello studente italiano è segnato da alcuni “salti” che lo rendono via via più selettivo. Il primo è il passaggio dalla scuola primaria alla secondaria di primo grado (la scuola media): in tre mesi, nell’estate dalla quinta elementare alla prima media, gli studenti italiani passano da un sistema concentrato sui saperi fondamentali e fortemente collegiale a un sistema in cui c’è già una forte dispersione disciplinare, e in cui la programmazione procede per singole discipline, tendenzialmente isolate. Inoltre, si passa da una scuola in cui c’è spesso il tempo pieno a una in cui è quasi inesistente; da un primato del lavoro in classe a un ruolo preponderante dei “compiti per casa”; da un lavoro in classe prevalentemente attivo e individualizzato a un predominio dello schema “spiegazione-verifica”. Tutti questi passaggi avvengono troppo rapidamente, in un momento in cui sarebbe ancora necessario un approfondimento dei saperi fondamentali, e con una attenzione particolare al lavoro in aula. I risultati all’uscita dalle medie confermano queste difficoltà: aumentano i tassi di bocciature, irrilevanti alla primaria (0,2%), arrivando alle medie quasi al 3%; aumentano i divari di apprendimento tra i gruppi sociali più e meno svantaggiati, e tra gli italiani e gli stranieri; si accumulano i ritardi sulle competenze fondamentali. Questo quadro si aggrava nel salto successivo, cioè nel passaggio alla secondaria di secondo grado, dalla scuola media alle scuole superiori. Qui si entra in un sistema altamente differenziato e pluridisciplinare: a quattordici anni i ragazzi devono scegliere tra indirizzi rigidi, dai quali è difficile spostarsi senza alti costi; questi indirizzi hanno da subito forti connotazioni specialistiche, che definiscono percorsi molto lontani tra loro grazie alle “materie di indirizzo”; sono fondati su una gerarchia implicita ma ben nota a tutti, che va dai licei “nobili” (classico e scientifico) a quelli “meno nobili” per chi “studia di meno” (artistico, linguistico, scienze umane ecc.), agli istituti tecnici e professionali; in tutti, ma soprattutto nei licei, tende a dominare una didattica fondata sul primato dello “studio a casa” e sullo schema “spiegazione-verifica”; in tutti c’è una corsa contro il tempo dettata dalla necessità di “avere molti voti” e di “fare il programma”. Tutto questo rende il sistema delle scuole superiori rigido e selettivo: come è noto, i tassi di bocciature si concentrano nel biennio delle superiori, e così quelli di dispersione; la correlazione tra i due è evidente. Sia i primi che i secondi sono molto più alti negli istituti, soprattutto professionali, che nei licei, soprattutto “nobili”. Quindi le bocciature e la dispersione colpiscono in modo socialmente selettivo, senza pietà verso il basso. Sappiamo infatti che negli istituti si concentra la popolazione scolastica proveniente dalle classi sociali più svantaggiate e dalle famiglie di immigrati. Tra l’altro, questo tipo di selezione sociale nella scelta delle scuole superiore è prodotta consapevolmente dal sistema: il cosiddetto “orientamento” all’uscita delle scuole medie, infatti, è viziato da un classismo ingenuo e spietato: nella maggior parte dei casi, a chi viene da ambienti sociali svantaggiati viene sconsigliato di “fare il liceo”, mentre chi viene da ambienti sociali o culturali avvantaggiati lo fa comunque, anche se non ne avrebbe le capacità, perché spinto dal contesto di origine.
Tutto questo ormai è un meccanismo insensato, che si sta imballando. All’origine si trova l’attaccamento a un ideale di scuola che non si ha il coraggio di abbandonare: il modello liceale. La scuola media unica è nata estendendo la scuola media preesistente, che era finalizzata solo all’accesso al liceo, a tutta l’istruzione secondaria inferiore, per superare la canalizzazione precoce e realizzare l’obbligo costituzionale fino a 14 anni. Facendo questo, la nuova scuola media è stata, all’inizio, una sorta di “annacquamento” del modello liceale da cui nasceva. Da questa origine abbiamo ereditato un impianto pluridisciplinare e microliceale di questo segmento. Inoltre, il primato del modello liceale preme, come è ovvio, nella struttura delle scuole superiori: i licei “nobili” sono i modelli di riferimento da cui gli altri licei sono nati per sottrazione e aggiustamenti, mentre i due ordini di istituti servono, fin dall’inizio, a sancire il dualismo tra canale dell’istruzione generale e canale della formazione tecnico-professionale. Questo dualismo, nel nostro sistema, oggi non è esplicito sul terreno normativo, ma continua a essere radicato nella percezione e nelle prassi sociali. Il primato del modello liceale è anche quello che ostacola un ripensamento del periodo tra i 14 e i 16 anni, che andrebbe a discapito di quel modello.
Eppure, tutti i problemi richiamati sopra sono causati dalla transizione incompiuta della scuola media e dal salto del primo biennio delle superiori. La soluzione proposta da Condorcet è una radicale riforma dei cicli. Non è un caso che questa fosse stata oggetto di discussione subito dopo la riforma della scuola media: già nel 1972 Marino Raicich aveva proposto un ciclo unico generale fino a 16 anni, seguito da una scuola superiore triennale (cfr. Monica Galfrè, Tutti a scuola. L’istruzione nell’Italia del Novecento, Roma, Carocci, 2017, pp. 257-258). Questa proposta, come molte altre, è rimasta irrealizzata, fino alla riforma dei cicli Berlinguer del 2000, che è diventata legge ma non è mai stata applicata, per essere poi abrogata nel 2003. Così l’Italia è arrivata impreparata all’appuntamento con la scuola di massa.
La riforma dei cicli che serve è proprio quella di un ciclo unificato, dai 6 ai 16 anni: un primo ciclo unico, che si concentri sui saperi fondamentali, cioè sui quattro “assi” già individuati dalla normativa vigente: linguistico, storico, matematico, scientifico. Questo ciclo iniziale potrebbe essere suddiviso in due sottocicli, uno dai 6 agli 11, e un altro dagli 11 ai 16; il primo dovrebbe servire ad acquisire le conoscenze di base, il secondo ad approfondire i quattro assi fondamentali. Quest’ultimo non sarebbe come l’attuale scuola media, perché non moltiplicherebbe inutilmente le discipline e terrebbe insieme il periodo della preadolescenza e della adolescenza. Il triennio successivo, dai 16 ai 19 anni, sarebbe invece diversificato per indirizzi, ma anche, in parte, per materie opzionali.
3.
Una riforma dei cicli di questo genere permetterebbe di affrontare anche il problema delle bocciature. Attualmente, nel sistema scolastico italiano si boccia poco come media generale, ma si boccia molto se si guardano i dati disaggregati. Infatti, nelle scuole superiori il tasso di bocciature nei quattro anni (escludendo l’anno finale dell’Esame di Stato) è del 9,2% (a. s. 2015-16); tuttavia, è molto più elevato nel primo anno del biennio (14%, sempre 2015-16) e, come detto, negli istituti tecnici e professionali (soprattutto in questi, ecco i dati, media dei primi quattro anni: licei 5,3%, tecnici 11,6%, professionale 14,3%, sempre a. s. 2015-16). Tuttavia, gli studi sulle bocciature, o meglio sulle ripetenze (la ripetizione di un intero anno di corso) hanno mostrato che esse sono didatticamente inefficaci e socialmente inique. Perché dunque continuare a sostenerne il costo? Tuttavia, abolirle senza modificare il sistema didattico potrebbe portare a renderlo totalmente inefficace. Nel quadro di una riforma dei cicli, si potrebbe pensare a una soluzione di questo genere: abolire le ripetenze, ma in modo progressivo a seconda del grado di scuola.
Più in dettaglio: nella scuola del primo ciclo, le ripetenze potrebbero essere abolite del tutto, contando sul fatto che, nel secondo sottociclo (11-16 anni), i tempi distesi di un lavoro concentrato sugli assi fondamentali dovrebbero rendere più facile recuperare gli studenti che hanno difficoltà di apprendimento. Oppure, potrebbero essere abolite senza residui nel primo sottociclo (6-11 anni), portando a norma l’attuale situazione di fatto della primaria, mentre per il secondo sottociclo (11-16 anni) si potrebbe adottare gradualmente il sistema da adottare senz’altro nel secondo ciclo, cioè nel triennio finale (16-19 anni). Questo sistema dovrebbe essere fondato sulla abolizione delle ripetenze dell’intero anno, sostituite da una sorta di “bocciatura selettiva”: lo studente che, alla fine di un anno scolastico, non ha raggiunto i livelli di apprendimento previsti in una materia, ripete l’anno in quella materia, e non nelle altre; se vuole evitare questa ripetizione, può fare un esame di recupero a settembre e rimettersi in pari. Questo sistema avrebbe il vantaggio di far saltare una serie di rigidità che rendono “drammatica” la gestione delle valutazioni: se il docente sa che “bocciare” nella sua materia non significa “far perdere l’anno”, ma ripetere solo un anno di quella materia, può dare i voti, a fine anno, più serenamente, senza essere costretto a mercanteggiamenti o “voti di consiglio”; se lo studente sa che, alla fine del ciclo, non gli viene dato un diploma onnicomprensivo, ma una certificazione dei diversi livelli di apprendimento raggiunti, sia lui che la famiglia sono più responsabilizzati a non restare indietro. Allo stesso tempo, questo sistema di “percorsi differenziati” può adattarsi meglio ai tempi di apprendimento degli studenti, senza penalizzare loro e le famiglie costringendoli a ripetere il corso intero di un anno. Si possono prevedere delle forme di recupero, alla fine del percorso, delle singole materie in cui si è rimasti eventualmente indietro.
4.
La riforma dei cicli e l’abolizione delle ripetenze possono sembrare progetti troppo ambiziosi. Eppure, il dibattito sulla politica scolastica, da anni, è viziato da una forte miopia: lo sguardo si attacca alle questioni contingenti, ci si limita solo al breve periodo. La crisi dell’istruzione va affrontata invece andando alla radice delle strutture che l’hanno generata. Per affrontare progetti così ambiziosi, la prima cosa da fare è aprire un dibattito coraggioso, con l’intento non di proporre in tempi brevi disegni di legge o applicazioni normative, ma di iniziare a costruire un nuovo consenso, una nuova koiné sulla scuola: ricostruire lentamente, dal basso, nell’opinione pubblica, una visione generale. Questa visione però deve essere definita: non deve nutrirsi di parole d’ordine vaghe, ma di progetti orientati, che si schierano per una proposta chiara, per quanto controversa.
Dello stesso tipo sono gli altri terreni di intervento individuati da Condorcet. Anche qui si tratta di superare delle strozzature ereditate da tentativi di riforma mancati o realizzati male; anche qui si tratta di pensare a un sistema di istruzione più aperto e flessibile rispetto a quello attuale.
Uno è il problema della carriera dei docenti: ogni tentativo su questo terreno è fallito, da anni, così come la via degli incentivi. Eppure, se il lavoro dei docenti deve essere di qualità non serve soltanto una formazione iniziale di alto profilo (cosa che si sta perdendo, per la scuola secondaria) e un reclutamento selettivo (anche qui, troppe sabbie mobili, troppi cambiamenti poco chiari in poco tempo), ma anche una prospettiva di miglioramento professionale: quello dell’insegnante deve essere un lavoro qualificato e appetibile, in termini di riconoscimento sociale. Non può quindi restare agganciato a un avanzamento stipendiale solo per anzianità. È possibile pensare a un profilo professionale in cui sono presenti più carriere, più livelli di professionalità, a cui si accede per selezione, tramite titoli acquisiti anche attraverso una valutazione individuale del lavoro docente.
Un altro terreno è quello dell’autonomia scolastica. Questa, nell’ordinamento italiano, compie venti anni. Tuttavia, la sua applicazione è stata limitata e sempre più distante dallo spirito originario: la pressione dell’apparato burocratico sulle scuole e sui dirigenti è diventata sempre maggiore, invece di diminuire; le responsabilità dei dirigenti scolastici sempre più gravose, senza essere compensate da una reale possibilità di azione sulle risorse della scuola, sia finanziarie che di personale. Il problema non è soltanto realizzare l’autonomia, ma anche alleggerire le scuole da un carico burocratico che le opprime a tutti i livelli, penetrando nella vita quotidiana dei docenti.
Infine, ma non per importanza, il difficile rapporto della scuola con il mondo del lavoro. Qui è essenziale chiarirsi sui presupposti. Il sistema di istruzione deve rispondere, in generale, a tre esigenze: la formazione della persona, la formazione del cittadino, e la creazione di eque opportunità di realizzazione sociale. Questo vuol dire che non basta la formazione generale della persona per garantire a tutti i cittadini, per quanto possibile, un accesso equo al mercato del lavoro: per fare questo, da un certo momento del suo percorso (secondo ciclo) la scuola deve occuparsi anche di sviluppare le competenze che possono aprire più possibilità professionali. Se non facesse questo, concentrandosi solo sulla formazione generale, colpirebbe proprio le classi meno avvantaggiate, che non dispongono del capitale sociale e culturale per accedere a posizioni sociali superiori. Che la scuola si occupi del rapporto con il mondo del lavoro non è un tradimento della sua missione, ma la realizzazione di un imperativo democratico, sancito tra l’altro dall’art. 3 della nostra Costituzione. La riforma dei cicli proposta sopra, comunque, permetterebbe di stabilire il giusto rapporto tra l’istruzione generale e la formazione “indirizzata” a competenze specifiche: la prima verrebbe rafforzata, istituendo una continuità fino a 16 anni, mentre la seconda potrebbe essere pensata in modo flessibile, nell’ultimo triennio, anche per mezzo dell’opzionalità. Inoltre, il rapporto con il lavoro va concepito in modo del tutto nuovo: non si tratta più di pensare a una istruzione e formazione che avviene solo nella prima parte della vita, a cui segua il lavoro senza istruzione e formazione. La formazione, intesa nel senso più generale, deve essere permanente. La prima frontiera del rapporto tra scuola e lavoro è quella dell’istruzione degli adulti, settore in cui l’Italia continua a rimanere gravemente indietro.
(Firenze, 22 marzo 2019)
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