Il governo invisibile
di JACOBIN ITALIA (Giuliano Santoro)
La competizione mediatica tra Lega e M5S dimostra che la maggioranza non si limita a svilire il ruolo del parlamento, come avviene da diverse legislature. Ad essere svuotata, comunicando un implicito senso di impotenza, è la funzione dell’esecutivo stesso
Partiamo dagli eventi degli ultimi giorni. Un presidente del consiglio tacciato, con qualche ragione, di essere poco più di un prestanome invita il ministero dell’interno a dedicarsi al lavoro e a studiare piuttosto che alle chiacchiere. Quest’ultimo, dal canto suo, è considerato l’uomo forte dell’esecutivo, ai danni della principale forza della maggioranza. Con la quale ha ingaggiato da mesi una lotta all’ultimo post per la conquista dello scenario mediatico post-televisivo.
Il plot della politica italiana è intricato. La scena madre è ormai inflazionata, eppure mantiene la sua carica suggestiva: i rivoluzionari assaltano il Palazzo, entrano nelle stanze del potere ma le trovano vuote. È, ad esempio, la metafora attorno alla quale si gioca gran parte dell’ipotesi neo-anarchica contenuta nei testi del Comitato invisibile che circolavano qualche anno fa. Adesso, con un certo gusto del recupero vintage, questi reperti del passato molto prossimo sono stati raccolti in unico volume in edizione italiana dalla collana Not di Nero edizioni. Quelli del Comitato invisibile afferrano una parte del problema e poi si fermano in mezzo al guado: constatano il feticcio di ciò che oggi chiamiamo potere, dicono che questo mutamento della forma del comando non rimanda a forze occulte ma come nella Lettera rubata di Poe avviene sotto gli occhi di tutti ogni giorno, eppure non riconoscono il tema di costituire nuove istituzioni di segno diverso che consentano di riempire quel vuoto. Di quel mancato riconoscimento fanno una questione identitaria, che sposta la politica sul piano antropologico. In questo modo, la questione della democrazia, e del potere costituente, viene relegata a «spiritosa menzogna». Utilizzano Agamben per dirci che il potere non può che essere totalitario, dunque sarebbe sufficiente negarlo, combatterlo significa automaticamente cancellarlo. La critica meriterebbe di essere approfondita, qui tagliamo con l’accetta perché vorremmo sostenere un’altra ipotesi. L’immagine di una stanza dei bottoni senza bottoni ci è utile a comprendere la situazione in cui si trova il Movimento 5 Stelle a un anno dal trionfo elettorale che lo ha incoronato con ampio margine primo partito del paese e condotto fino ai vertici dello stato.
Come è noto, l’allegoria della «stanza dei bottoni» venne proiettata per la prima volta dalle parole del segretario del Partito socialista italiano Pietro Nenni quando si trattò di spiegare le ragioni dell’ingresso al governo e la nascita del primo centrosinistra. «Con l’accrescersi delle prerogative dello stato nel campo economico i bottoni sono enormemente aumentati di influenza e di numero», affermò Nenni illustrando la sua strategia. Dunque, nonostante i tintinnii di sciabole che minacciavano colpi di stato e con tutti i rischi di compromessi al ribasso, dal suo punto di vista valeva la pena di entrare in maggioranza con la Democrazia cristiana. Con la recente pubblicazione dei diari del leader socialista, abbiamo saputo che Nenni già pochi anni dopo aveva rivisto il suo giudizio e formulato una descrizione più complessa, meno sloganistica, del funzionamento del potere: «La verità è che per governare occorrerebbe conoscere tutti gli uomini dell’amministrazione civile e militare e io non ne conoscevo nessuno», appuntò tra le sue carte. Ciò nonostante, in pochi possono obiettare che con tutte le loro contraddizioni gli anni del centrosinistra abbiano prodotto riforme rilevanti, la nazionalizzazione dell’industria elettrica e la costruzione di importanti pezzi di welfare.
La nostra tesi è che il Movimento 5 stelle sia andato al governo non solo sopravvalutandosi, anche sovrastimando la possibilità che le cose potessero cambiare agendo solamente dall’alto, senza uno straccio di partecipazione reale e mobilitazione concreta, senza alcun radicamento sociale a far da contrappeso. «Avresti vinto pure col Gabibbo», dice l’ex presidente dell’Assemblea capitolina Marcello De Vito in un’intercettazione che resterà nell’immaginario collettivo. Il cinismo della sua sentenza sarebbe stato ancora più efficace se si fosse reso conto di aver vinto grazie al Gabibbo, ma rende l’idea di come il M5S sia privo di una massa critica pronta a far pressione e non pare avere idea di come eventualmente forzare i limiti imposti. Si ha l’impressione che Luigi Di Maio e i suoi stiano cercando di muovere alcune leve, di pigiare qualche tasto (leve e tasti che, è appena il caso di sottolineare, in quest’epoca sono molti di meno quanto a influenza e numero rispetto all’illustre precedente descritto da Nenni), ma si siano trovati quasi subito di fronte a salotti di raso vuoti e macchine burocratiche che girano per conto proprio.
C’è un abisso tra i neo-anarchici del Comitato invisibile e i 5 Stelle, i primi almeno esaltano l’azione collettiva e producono forme di conflitto. Eppure, entrambi non hanno idea di un’istituzione alternativa. Nel caso dei grillini, ciò avviene perché traggono buona parte della loro teoria del potere dalla bizzarra traduzione dell’anarcocapitalismo digitale in salsa neotelevisiva che era stata abbozzata da Gianroberto Casaleggio. «Noi non vogliamo entrare nella stanza dei bottoni, vogliamo dare una stanza dei bottoni a ogni cittadino», diceva Beppe Grillo un paio di anni fa. Ma dopo questo primo anno dell’era gialloverde possiamo dire definitivamente che la piattaforma Rousseau non è il nucleo fondante di un dispositivo pensato per sostituire il parlamento, come dicono alcuni benpensanti con scalpore. Anche la squinternata piattaforma digitale dei grillini si rivela una stanza vuota, disertata in primo luogo da attivisti ed elettori del Movimento 5 Stelle e priva di ogni funzione costituente. Al massimo serve agli eletti per comunicare con qualche migliaio di attivisti che coltivano il sogno di sostituirli («Un giorno potreste esserci voi al posto mio», promette sempre Di Maio ai suoi) o a ratificare decisioni prese ai vertici.
Nell’introduzione alla raccolta dei testi del Comitato invisibile c’è una sentenza condivisibile: «Governare si è ridotto ad un esercizio di comunicazione». Ce ne siamo accorti, solo per fare un esempio recente, in occasione delle tensioni interne alla maggioranza gialloverde sulla Tav. Dopo qualche penultimatum e un paio di schermaglie poco convinte tra alleati, l’automatismo amministrativo ha proseguito lungo i suoi binari e secondo i tempi previsti. I bandi sono partiti con qualche piccola correzione semantica ma la componente grillina si è affrettata ad esultare e rivendicare il proprio successo. Si dirà che questo governo, quanto a svuotamento del parlamento, si è limitato a raccogliere il testimone di quelli che lo hanno preceduto. Ciò è sicuramente vero.
Quanto a ricorso alla decretazione e alle questioni di fiducia, siamo in perfetta continuità con gli esecutivi precedenti. La strada era stata segnata, ma i gialloverdi si sono spinti più avanti. L’ultima legge di bilancio è stata votata praticamente al buio, alle camere è stata recapitata una scatola vuota, in attesa che le ultime trattative con gli apparati europei consentissero al governo di decidere le sorti delle finanze pubbliche. Altrettanto paradossali sono le discussioni in aula: molto spesso intervengono solamente i parlamentari delle opposizioni.
Gli esponenti della Lega e soprattutto del Movimento 5 Stelle si astengono da ogni forma di presa di parola. Sia alla camera e che al senato si limitano a votare aderendo alla linea che è stata deciso dai vertici in applicazione del famigerato “contratto di governo”. È accaduto, ad esempio, in occasione della legge sulla legittima difesa, quando il primo gruppo parlamentare non ha contribuito in nessun modo e con nessuna argomentazione all’approvazione di quel testo. Semplicemente hanno premuto un tasto e lo hanno approvato.
La novità è che però il governo Salvini-Di Maio non si limita ad accentrare su di sé le decisioni, come in misura variabile hanno fatto tutti quelli della Seconda repubblica. In questo caso, non è solo il parlamento a essere esautorato. A patire la mancanza di potere, a essere lentamente svuotato dall’interno, è il governo stesso. L’uomo che è stato scelto per presiederlo, che dovrebbe essere il primus inter pares nella squadra di ministri, esercita notoriamente un mandato a sovranità limitata. Di recente il costituzionalista Sabino Cassese ha notato come i consigli dei ministri si svolgano a fine giornata e durino molto meno del solito, il tempo di firmare qualche decreto. «Ad esclusione dell’incontro dello scorso 8 febbraio, che si è prolungato per 2 ore, quasi tutte le riunioni del consiglio dei ministri sono durate meno di 1 ora, per un dato medio che si attesta sui 47 minuti. Tra tutti spicca l’incontro del 19 febbraio, con la presentazione di un decreto legislativo per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizione europee e la non impugnazione di 3 leggi regionali, che è durato solamente 5 minuti»: così sintetizza in una nota Open Polis.
Matteo Salvini, in effetti, fa di tutto tranne che stare al Viminale, esercitando in forma anomala una delega che richiederebbe culo sulla poltrona e capacità decisionale per reagire agli eventi imprevisti. Ma siamo arrivati al punto che anche l’intervento che lo ha caratterizzato di più in questi mesi, il divieto di sbarco e la chiusura dei porti, è stato formulato via tweet, ha valore dubbio non solo dal punto di vista dello stato di diritto ma anche da quello formale-legale. Luigi Di Maio si è preso due deleghe pesanti, accorpando funzioni che si vorrebbero divergenti se non avesse l’idea aconflittuale della società che lo contraddistingue.
Nel gestire lo “sviluppo economico” e la “sicurezza sociale”, parlando con imprenditori e lavoratori passando da un ministero all’altro, non molla di un centimetro il suo ruolo di “capo politico” del Movimento 5 Stelle. La cosa crea qualche cortocircuito, tanto che se uno si prende la briga di incrociare, come ha fatto sempre Open Polis, l’agenda degli incontri Di Maio in qualità di ministro con agenzie ed esternazioni, scopre che qualcosa non torna. Il resto lo fa la pletora di comunicatori sparpagliati in ogni strapuntino di scrivania degli uffici occupati da questa maggioranza: nei due rami del parlamento, a Palazzo Chigi, accanto ai ministri, sulla tolda di comando delle macchine propagandistiche delle forze politiche. Si moltiplicano video embeddati su Facebook, gli esperti calcolano che la potenza di fuoco dell’apparato social possa raggiungere 5 milioni di utenti. Di volta in volta, i testimonial annunciano svolte storiche, vittorie campali, conquiste straordinarie.
Questo dilagare di produzione di immagini a mezzo di immagini serve a mascherare l’impotenza del governo, è direttamente proporzionale alla debolezza di chi pensava che bastasse amministrare in forma tecnica, impersonale eppure impeccabile perché «una buona idea non è né di destra né di sinistra», per rastrellare soldi alla Casta e redistribuirli alla Gente. Del resto, dicono quelli, del Comitato invisibile, «I politici non sono lì per rappresentarci, sono lì per distrarci». In questo l’attuale governo svolge perfettamente la sua funzione.
*Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).
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