Nella società del neoliberalismo (e della meritocrazia), sei tu il più tirannico padrone di te stesso
di VOCI DALL’ESTERO (Henry Tougha)
Un articolo su Jacobin descrive come il neoliberalismo (per alcuni, neoliberismo), già insinuatosi in tutti i meandri della società, dell’economia e della politica, stia diventando padrone delle nostre menti. I risultati di una recente meta-analisi su dati psicologici mostrano un continuo aumento dei livelli di perfezionismo nelle persone (specialmente nei giovani). La percezione (purtroppo non infondata) di dover essere eternamente competitivi e migliori esaspera il disagio emotivo e ostacola i legami di solidarietà e i valori collettivi. La cosiddetta “sinistra”, abdicato al suo ruolo tradizionale, ha abbracciato appieno l’individualismo meritocratico, e ora marcia sui temi che contrappongono le persone, anziché incentivare le battaglie comuni contro il potere neoliberale.
di Meagan Day, gennaio 2018
Un nuovo studio ha descritto l’allarmante crescita di una nuova forma di stress psicologico che possiamo chiamare “perfezionismo neoliberale”.
Un nuovo studio di Thomas Curran e Andrew Hill, pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Bulletin, ha mostrato che il perfezionismo è in crescita tra le persone. Gli autori, entrambi psicologi, concludono che “l’ultima generazione di giovani ha la percezione che gli altri siano più esigenti verso di loro, più esigenti verso gli altri, e più esigenti verso se stessi”.
Quando si cerca la causa di questa crescente sete di eccellenza, Curran e Hill non fanno tanti giri di parole: è il neoliberalismo. L’ideologia neoliberale esalta la competizione, scoraggia la cooperazione, promuove l’ambizione e vincola il valore personale al successo professionale. Non sorprende che le società governate da questi valori producano individui propensi alla critica severa e fortemente ansiosi del giudizio altrui.
Gli psicologi, tradizionalmente, parlavano del perfezionismo come di un costrutto unidimensionale: il perfezionismo diretto dal sé verso il sé. Questo è ancora l’uso colloquiale del termine, ovvero ciò che normalmente intendiamo quando diciamo che qualcuno è perfezionista. Ma degli ultimi due decenni i ricercatori hanno preferito ampliare il concetto. Curran e Hall si basano su una definizione multidimensionale, che include tre tipi di perfezionismo: orientato verso il sé, orientato verso gli altri e imposto dalla società.
Il perfezionismo orientato verso il sé è la tendenza ad attenersi a standard irrealisticamente elevati, mentre il perfezionismo orientato verso gli altri implica l’avere aspettative irrealistiche verso gli altri. Ma “il perfezionismo imposto dalla società è, fra le tre, la forma più debilitante”, affermano Curran e Hall. Esso descrive il senso di paranoia e di ansia prodotto dalla sensazione persistente – e non del tutto infondata – che gli altri siano sempre in attesa che facciamo uno sbaglio per cancellarci definitivamente. Questa iper-percezione delle impossibili aspettative altrui verso di noi provoca alienazione sociale, auto-osservazione nevrotica, sentimenti di vergogna e di svalutazione, e “un senso del sé sommerso dalla preoccupazione patologica, dalla paura di una valutazione sociale negativa, caratterizzata da un’esclusiva attenzione verso le mancanze, e sensibile alla critica e al fallimento”.
Nel tentativo di valutare quanto questo fenomeno del perfezionismo sia culturalmente determinato, Curran e Hall hanno svolto una meta-analisi sui dati psicologici disponibili, considerando come è cambiato di generazione in generazione. I risultati hanno mostrato che le persone nate negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada dopo il 1989 hanno avuto punteggi molto più elevati rispetto a quelli delle generazioni precedenti nei tre tipi di perfezionismo, e che questi punteggi sono aumentati linearmente nel tempo. La dimensione che ha visto l’aumento più drammatico è stata quella del perfezionismo imposto dalla società, che è cresciuto al doppio della velocità rispetto alle altre due dimensioni. In altre parole, i giovani sentono di essere giudicati più duramente dai loro pari, e questa sensazione si intensifica a ogni anno che passa.
Curran e Hall attribuiscono questo cambiamento all’ascesa del neoliberalismo e alla sua cugina, la meritocrazia. Il neoliberalismo favorisce metodi “di mercato” per assegnare valore ai beni, e include qualsiasi cosa possibile nella definizione di merce. A partire dalla metà degli anni ’70, i regimi politico-economici neoliberali hanno sostituito sistematicamente la proprietà pubblica e i contratti collettivi con la deregolamentazione e la privatizzazione, promuovendo, nel tessuto stesso della società, il valore dell’individuo al di sopra di quello del gruppo. Nel frattempo la meritocrazia – l’idea che lo status sociale e professionale sia la conseguenza diretta dell’intelligenza, della virtù e del duro lavoro del singolo individuo – ha convinto le persone che fallire la propria scalata sociale equivalga a non valere nulla.
La meritocrazia neoliberale, suggeriscono gli autori, ha creato un ambiente avvelenato nel quale ciascuno è l’ambasciatore di se stesso, l’unico portavoce del proprio prodotto (ovvero di se stesso) e il manager del proprio lavoro, in un mare di competizione senza confini. Come osservano Curran e Hall, questo stato di cose “pone l’esigenza continua di combattere, di esibirsi e di avere successo, come elemento centrale della vita moderna”, molto più che nelle generazioni passate.
Gli autori citano dati che mostrano come i giovani di oggi siano meno interessati di un tempo a impegnarsi in attività di gruppo per svago, preferendo invece dedicarsi a sforzi individuali che li facciamo sentire produttivi o che gli diano una sensazione di successo. Se il mondo ti richiede di dimostrare continuamente che vali, e non riesci a toglierti di dosso l’impressione che il rispetto dei tuoi simili sia sempre condizionato e provvisorio, avrai meno interesse a passare del tempo allegramente coi tuoi amici, e preferirai startene a curare meticolosamente il tuo profilo sui social media.
Una conseguenza di questa crescita del perfezionismo, sostengono Curran e Hall, è un’epidemia di gravi disturbi mentali. Il perfezionismo è fortemente correlato con l’ansia, i disturbi alimentari, la depressione e i pensieri suicidari. La compulsione costante a essere perfetti, e l’inevitabile impossibilità di riuscire in questo intento, esaspera i sintomi dei disturbi mentali nelle persone già vulnerabili. Ma anche i giovani senza alcun disturbo diagnosticabile tendono a sentirsi più spesso a disagio, perché l’aumentato senso di perfezionismo verso gli altri crea un clima di gruppo di ostilità, sospetto e disprezzo – nel quale la giuria sono tutte le persone che avete attorno, e sottostante sempre a un incombente giudizio del gruppo. Il perfezionismo imposto dalla società, poi, implica un acuto riconoscimento di questa alienazione. In breve, le ripercussioni del crescente perfezionismo vanno da un maggiore disagio emotivo a (letteralmente) la morte.
C’è poi un’altra ripercussione del crescente perfezionismo: è difficile costruire legami di solidarietà, che è proprio ciò di cui avremmo bisogno per cercare di resistere all’assalto del neoliberalismo. Senza delle auto-percezioni sane non possiamo costruire delle relazioni solide, e senza relazioni solide non possiamo unirci in numero sufficiente a scuotere, e tantomeno a cambiare, l’intero ordine politico-economico.
Non è difficile vedere i parallelismo fra le tre dimensioni del perfezionismo e la cosiddetta cultura del “call-out” [il clima di continua denuncia verso il razzismo, il sessismo, l’omofobia, e altri veri o presunti atteggiamenti sociali disdicevoli; un esempio è il fenomeno della chiamata al “me too”; NdT]. Questa cultura è diventata l’ultima tendenza egemone nella Sinistra: una condizione in cui ciascuno osserva gli altri aspettando una loro fatale scivolata, mentre spinge se stesso verso impossibili standard di virtuosa abnegazione ed è, al contempo, paralizzato dalla segreta (e anche stavolta non infondata) paura di essere perennemente sacrificabile, e che il proprio giorno del giudizio sia sempre dietro l’angolo. Questa situazione fa tutt’uno con altre manifestazioni del perfezionismo meritocratico neoliberale, dall’ammissione ai college all’ossessiva cura di Instagram. E poiché tutto questo ci divide, anziché unirci, non ci lascia modo di costruire un movimento che miri a colpire al cuore questo potere.
Il perfezionismo ci rende sprezzanti gli uni verso gli altri, preoccupati da chi abbiamo intorno e, nel migliore dei casi, insicuri di noi stessi. Ci vieta quel tipo di legami solidaristici e quel tipo di azioni collettive che sarebbero necessarie per rovesciare il capitalismo neoliberalista, cioè l’origine stessa del problema. L’unico possibile antidoto a questo perfezionismo atomizzante e alienante è il rifiuto assoluto dell’individualismo e la reintroduzione dei valori collettivi nella società. Si tratta di un compito gigantesco – ma stretti nella morsa del neoliberalismo che si chiude sopra le nostre menti, è l’unica strada percorribile.
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