Come si sta arrivando allo scontro di civiltà tra Cina e Usa
di IL BOLLETTINO IMPERIALE (Giorgio Cuscito)
Huawei, Europa, Estremo Oriente, America Latina e persino Artico: il duello tra Washington e Pechino è ormai a tutto campo. Il richiamo all’aspetto culturale può precludere ogni dialogo.
Le relazioni tra Stati Uniti e Cina hanno registrato nel giro di poche settimane l’ennesimo avvitamento, materializzatosi sotto varie forme: il fallimento dei negoziati commerciali; le misure annunciate da Washington per impedire a Huawei di acquistare componentistica americana e di vendere i suoi prodotti negli Usa; le manovre militari dei due paesi in Asia-Pacifico; le nuove tensioni in teatri contesi quali Europa (cui è dedicato il nuovo volume di Limes), Artico e America Latina.
La posta in palio tra le prime due potenze al mondo è il primato economico, militare e tecnologico. Washington non vuole solo ridurre drasticamente il deficit commerciale con la Repubblica Popolare (pari a 420 miliardi di dollari), ma impedirle di affermare la sua versione della globalizzazione. Il progetto infrastrutturale “Una cintura, Una via” (o Belt and Road Initiative in inglese) è la sua manifestazione strategica. L’accostamento iconico alle antiche vie della seta è la base su cui Pechino plasma il suo nuovo marchio globale.
La competizione tra le due potenze ha assunto i toni pericolosi della “battaglia tra civiltà”. La direttrice della pianificazione politica presso il dipartimento di Stato Usa Kiron Skinner ha parafrasato maldestramente le teorie a riguardo del politologo Samuel P. Huntington a fine aprile, incoraggiando l’inconciliabilità non solo tra gli interessi nazionali cinesi e quelli a stelle e strisce, ma tra le rispettive culture.
Il presidente cinese Xi Jinping ha risposto indirettamente, durante la conferenza sul dialogo delle civiltà asiatiche (Pechino, 15-22 maggio). Qui, Xi ha offerto ai paesi dell’Estremo Oriente un’alternativa alla globalizzazione a guida statunitense. Il leader cinese ha rimarcato che “pensare che una civiltà sia superiore a un’altra e insistere nel trasformare o persino sostituire le altre è una follia”. Xi ha poi detto che “non c’è mai stato uno scontro di civiltà in Cina”, malgrado il suo paese abbia registrato l’ingresso delle culture greca, romana, mediterranea e delle religioni buddista, musulmana e cristiana. La rimozione delle “barriere culturali” evocata dal presidente stride con la rigida censura imposta su Internet e sul dibattuto processo di “sinizzazione” che Pechino conduce nel Xinjiang per assicurarsi la fedeltà della minoranza musulmana degli uiguri. Tali dinamiche esporranno il governo cinese alle critiche internazionali e a una crescente pressione americana sulla questione dei diritti umani.
Il tema del duello culturale e la sua possibile deriva ideologica possono accelerare il deterioramento complessivo dei rapporti sino-statunitensi.
Dal commercio al ciberspazio
Il fallimento dei negoziati commerciali non è dipeso da minuzie. Pechino non ha accolto le richieste statunitensi in diversi campi: tutela della proprietà intellettuale, trasferimento tecnologico, competizione tra imprese, accesso al settore finanziario e manipolazione della valuta. Ciò ha spinto Washington ad attuare un nuovo giro di dazi del 25% su oltre 200 miliardi di dollari di merci cinesi. Pechino ha risposto di conseguenza, annunciando che dal 1° giugno innalzerà barriere commerciali dal 5/10% al 20/25% su prodotti made in Usa pari a 60 miliardi di dollari.
La Repubblica Popolare ha alternato parole dure a segnali di apertura e tramite i suoi media ha paventato alcune contromisure non tariffarie. Per esempio, lo stop all’acquisto dei prodotti agricoli statunitensi, la riduzione degli ordini dalla Boeing e la vendita dei buoni del tesoro Usa. Tralasciando che quest’ultima mossa sarebbe controproducente: la Cina (principale creditore degli Stati Uniti) ne ha bisogno per tenere basso il prezzo dello yuan e competitive le esportazioni, il cui peso è ancora essenziale per l’andamento dell’economia cinese.
Poi Washington ha deciso di colpire Huawei. Il presidente Usa Donald Trump ha siglato un ordine esecutivo per impedire alle aziende americane di acquistare tecnologia straniera qualora questa venga considerata una minaccia alla sicurezza nazionale. Inoltre, il dipartimento del Commercio americano ha annunciato che inserirà Huawei e 70 imprese a lei affiliate nella lista di compagnie a cui le omologhe a stelle e strisce non potranno vendere prodotti a meno che non abbiano l’approvazione esplicita di Washington. Si tratta della stessa mossa attuata contro Zte esattamente un anno fa. In quel caso, il colosso tecnologico cinese – che dipendeva fortemente dalla filiera produttiva americana – ha dovuto fermare temporaneamente le proprie attività.
La mossa di Trump potrebbe danneggiare Huawei, ma anche le compagnie americane con cui quest’ultima ha rapporti. Degli oltre 70 miliardi di dollari spesi dall’azienda cinese nel 2018 per l’acquisto di componentistica, 11 miliardi sono entrati nelle tasche di compagnie a stelle e strisce come Qualcomm, Intel e Micron Technology. Il colosso cinese era pronto a un attacco americano e da diversi mesi stava accumulando prodotti made in Usa. A ciò si aggiunga che Huawei è a oggi leader nel settore del 5G e che la sua esclusione dal mercato americano potrebbe avere ripercussioni sullo sviluppo di questa tecnologia negli stessi Stati Uniti. Non è chiaro se Trump voglia effettivamente bandire Huawei dagli Usa o piuttosto usare l’argomento come leva negoziale.
Il protrarsi della guerra commerciale potrebbe indurre anche Pechino a rivalersi contro le imprese statunitensi operanti in Cina. Da aprile, la potente Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme ha anche il compito di valutare se gli investimenti stranieri rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale. I nuovi poteri della Commissione derivano dalla nuova legge sugli investimenti cinese, la quale secondo Pechino dovrebbe facilitare l’attrazione dei capitali stranieri. Secondo il Financial Times la Cina starebbe per annunciare anche un rafforzamento della cornice normativa sulla cibersicurezza. L’obiettivo sarebbe colpire le aziende straniere responsabili di violazioni in questo settore. (L’articolo continua dopo la carta)
Dall’Europa all’America Latina, Usa contro Cina
Nel frattempo, gli Usa faticano a convincere i paesi europei a bandire Huawei. La maggior parte degli alleati di Washington nell’ala orientale dell’impero americano intende dare seguito alle collaborazioni avviate con il gigante tecnologico. È il caso per esempio di Italia, Germania e Regno Unito, che puntano su di esso per lo sviluppo del 5G e delle smart and safe cities. Londra – membro dei Five Eyes – in particolare starebbe pensando di circoscrivere la collaborazione a componenti “non essenziali” delle proprie infrastrutture critiche. Berlino potrebbe seguire l’esempio britannico, firmando con Huawei un accordo “antispionaggio”.
Le acque del Mar Cinese Meridionale sono sempre calde. La Cina sta costruendo la sua terza portaerei, mentre si accinge a dichiarare operativa la seconda. Navi americane continuano a costeggiare le isole artificiali cinesi. L’Esercito Usa invierà tra i 5 mila e i 10 mila soldati nel teatro del Pacifico (in aggiunta agli 85 mila già presenti), nell’ambito di una nuova rotazione di truppe. Inoltre, la Camera dei rappresentati Usa ha approvato una legge per sostenere Taipei e incoraggiarla a incrementare il budget militare in chiave anti-Pechino. Non è chiaro quando il Senato voterà la legge, ma il governo cinese ha già mostrato il proprio dissenso. La Repubblica Popolare punta alla riunificazione con Taiwan (eventualmente anche manu militari) quale elemento imprescindibile del “risorgimento della nazione” cinese. L’isola fungerebbe da scudo strategico a difesa della costa cinese e da piattaforma tramite cui accedere liberamente all’Oceano Pacifico.
L’Artico è un teatro freddo solo all’apparenza. A metà maggio, il segretario della Difesa Usa Mike Pompeo ha criticato la Cina per le sue attività al Polo. Negli ultimi anni, Pechino ha incrementato notevolmente le attività scientifiche, culturali e commerciali in questa parte di mondo e spera in futuro (scioglimento dei ghiacci permettendo) di svilupparvi una nuova rotta commerciale permanente verso Occidente. Pompeo ha chiesto al Consiglio Artico di affrontare anche questi argomenti. Pretendendo implicitamente il loro appoggio a Washington, che a breve potrebbe accrescere le sue manovre al Polo.
Anche l’America Latina sta acquistando rilevanza crescente nella partita sino-statunitense. Pechino considera l’area “un’estensione naturale” del progetto “Una cintura, una via”. Questa settimana, la Cina ha inviato nuovi aiuti umanitari al Venezuela. Gli Usa sponsorizzano l’autoproclamato presidente ad interim Juan Guaidó affinché rimpiazzi Nicolás Maduro. Pechino non vede più in Caracas un partner affidabile, ma continua a sostenere l’erede di Chavéz con tre obiettivi: preservare gli interessi energetici e minerari nell’Orinoco; rientrare degli investimenti e prestiti elargiti al governo venezuelano; usare il paese caraibico come perno per espandere la sua influenza in America Latina.
Trump potrebbe incontrare Xi Jinping al summit del G20 che si terrà a fine giugno a Osaka in Giappone, quindi dopo l’eventuale entrata in vigore dei dazi cinesi. Pechino lascia intendere di voler trovare una soluzione alla guerra commerciale, a patto di non danneggiare la crescita economica del paese – che richiede riforme strutturali – e l’immagine del Partito comunista agli occhi della popolazione. Ciò spiega perché il governo cinese abbia deciso di attuare i dazi solo tra due settimane.
Il vertice di Osaka potrebbe anche determinare una nuova intesa commerciale, ma certamente non basterà a risolvere tutti gli altri dossier.
Fonte:http://www.limesonline.com/sezione-rubrica/bollettino-imperiale
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