L’ascesa della Cina nelle organizzazioni internazionali
di LIMESONLINE.COM (Giorgio Cuscito)
Qu Dongyu, nominato direttore generale della Fao il 23 giugno 2019. Foto di VINCENZO PINTO/AFP/Getty Images
BOLLETTINO IMPERIALE Pechino non ambisce solo a un ruolo più rilevante negli enti sovrastatali creati dagli Usa. Istituirne di nuovi secondo i propri standard serve a gettare le basi della globalizzazione con caratteristiche cinesi.
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Le organizzazioni internazionali sono un prodotto della geopolitica degli Stati. Il fattore che ne determina l’agire è infatti la capacità delle potenze di orientarle verso i propri interessi strategici.
I più importanti enti multilaterali (Onu, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio eccetera) sono in buona parte il prodotto dell’ordine mondiale modellato dagli Usa dalla seconda guerra mondiale in poi, emerso dall’esigenza dei vincitori di creare delle strutture sovrastatali utili a prevenire nuovi conflitti. Washington e i governi delle potenze occidentali ne hanno definito gli standard politici, economici e legali. Per lungo tempo, se ne sono anche aggiudicati i vertici. L’ascesa della Cina sta progressivamente incidendo su tale dinamica.
Rappresentanti cinesi sono anche a capo di altre agenzie Onu come l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao), l’Organizzazione per lo sviluppo industriale, il Dipartimento per le questioni economiche e sociali e l’Unione per la telecomunicazione internazionale. A ciò si aggiunga che tra il 2007 e il 2017 la hongkonghese Margaret Chan è stata direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Il caso dell’Icao è particolarmente interessante. Da quando Liu Fang ne ha preso le redini nel 2015, Taiwan non è stata più invitata all’assemblea dell’organizzazione. Taipei ha perso il seggio presso l’Onu nel 1971, quando è stata sostituita dalla Repubblica Popolare, ma fino al 2013 aveva partecipato all’Icao. La questione riemergerà quest’anno. Pechino ambisce nei prossimi anni a ricongiungere l’isola di Formosa alla Cina continentale e considera essenziale isolare diplomaticamente il governo taiwanese per agevolare questa – per ora improbabile – dinamica.
Per Pechino, un risultato particolarmente importante sarebbe ottenere la guida del Dipartimento per le operazioni di peacekeeping, ora affidata dal francese Jean-Pierre Lacroix. La Cina è prima tra i membri del Consiglio di sicurezza Onu per truppe impiegate in queste attività ed è il loro secondo finanziatore dopo gli Usa. La maggior parte dei soldati cinesi sono impiegati in Africa, per fare esperienza in teatri di battaglia reali e difendere le radicate attività economiche nel continente.
A proposito di nuovi consessi multilaterali e sicurezza, il 15 luglio Pechino ha ospitato il primo forum pace e sicurezza Cina-Africa. In realtà è il secondo nel suo genere visto che lo scorso anno nello stesso periodo la Repubblica Popolare ha promosso un evento simile. Il suo nome differiva solo per la presenza dalla parola “difesa” invece di “pace”, ma l’obiettivo è lo stesso: creare una piattaforma di dialogo securitario con i paesi africani, per offrirsi come garante alternativo agli Usa.
Fino a pochi mesi fa Pechino vantava anche la leadership dell’Interpol, affidata a Meng Hongwei. Questi è stato arrestato dalle autorità della Repubblica Popolare lo scorso settembre, mentre ancora rivestiva la carica di presidente. Meng, ex viceministro della Pubblica Sicurezza cinese, avrebbe confessato davanti alla corte intermedia di Tianjin di aver ricevuto tangenti per due milioni di dollari. La sua estromissione è probabilmente dipesa dalla lotta di potere interna al Partito comunista. Meng infatti è stato alle dipendenze dello “zar” dei servizi Zhou Yongkang, la prima “tigre” colpita dalla campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping. Dalla prospettiva cinese, il ruolo di Meng contribuiva alle attività per riportare in patria i politici e gli imprenditori corrotti fuggiti all’estero. In quel caso, Xi ha fatto capire che il controllo del Partito ha la priorità sulle questioni di politica estera.
Lo sviluppo della Belt and Road Initiative (Bri, le nuove vie della seta) è gestito direttamente dal governo cinese, ma il suo forum serve a riunire tutti i partner alla corte di Xi, per fare il punto sul progetto geopolitico di Pechino. Le prime due edizioni si sono svolte nella capitale cinese, nel 2017 e nel 2019. In altre parole la Bri non è solo un progetto infrastrutturale, ma anche il volano del marchio cinese nel mondo. Lo conferma il fatto che oltre 130 paesi (Italia inclusa) abbiano firmato accordi di cooperazione nell’ambito delle nuove vie della seta.
La Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali (Aiib) è l’esempio degli sforzi cinesi per creare e guidare nuovi poli multilaterali. Malgrado l’inevitabile connessione con la Bri, Pechino non vuole associarla espressamente alle nuove vie della seta. Piuttosto, l’Aiib punta sulla multilateralità e sulla trasparenza per elevare indirettamente l’immagine della Cina. L’istituto creato nel 2015 e basato a Pechino ha recentemente raggiunto cento membri grazie agli ingressi di Gibuti, Ruanda e Benin. Quasi il doppio dei suoi fondatori. Tra i partecipanti rientrano diversi paesi occidentali, inclusi il Regno Unito (uno dei più attivi) e l’Italia. Non sorprende l’assenza di Usa e Giappone, che vedono nell’Aiib un concorrente della Banca mondiale e della Banca asiatica per lo sviluppo, sui quali esercitano rispettivamente la loro influenza. L’istituto promosso dalla Repubblica Popolare si concentra per ora sugli investimenti in Oriente. Delle operazioni approvate (6,4 miliardi di dollari), l’India (rivale della Cina) è il principale destinatario.
La più datata Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (fondata nel 2001) è frutto della necessità di Cina, Russia e dei paesi centroasiatici di contrastare le minacce terroristiche e allo stesso tempo della volontà di Pechino e Mosca di espandere le proprie attività in Eurasia. L’esempio più importante di questo intento è la recente visita del capo del controterrorismo Onu – il russo Vladimir Voronkov – nell’instabile regione cinese del Xinjiang. A conferma dell’uso strumentale delle organizzazioni internazionali, Voronkov ha tralasciato la questione dei campi di rieducazione creati da Pechino per “deradicalizzare” (leggi de-islamizzare) la minoranza etnica degli uiguri e si è concentrato sull’importanza della lotta al terrorismo. Sull’agire del rappresentante Onu ha pesato l’agenda di Mosca e l’allineamento tattico con la Cina in chiave anti-Usa.
L’incremento della presenza nelle organizzazioni internazionali esistenti richiede a Pechino un minore sforzo diplomatico rispetto alla promozione di enti totalmente nuovi. Tuttavia, nel lungo periodo lo sviluppo di piattaforme di dialogo a guida cinese costituirà un’importante risorsa per le strategie globali della Repubblica Popolare.
Fonte: http://www.limesonline.com/rubrica/cina-usa-organizzazioni-internazionali-onu-fao-aiib
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