Piketty: il capitalismo non è più in grado di giustificare le sue disuguaglianze
Di MICROMEGA (Fabrizio Tonello)
Thomas Piketty non è certo uno sconosciuto tra gli economisti: prima di compiere 30 anni aveva già scritto una massiccia analisi della formazione e distribuzione della ricchezza in Francia (Le haut revenus en France au XX siècle, 2001). Un decennio di lavoro l’aveva poi portato a pubblicare nel 2013 Il capitale nel XXI secolo, 696 pagine fitte di grafici e tabelle, che non solo fu un bestseller in Francia e negli Stati Uniti ma fu tradotto in 40 lingue e fino ad oggi ha venduto oltre due milioni e mezzo di copie. Ora il “giovane” economista francese (48 anni) ci riprova con Capital et idéologie, che ha ben 1088 pagine e da qualche giorno è in libreria a Parigi (l’edizione inglese uscirà nel 2020, mentre quella italiana non è ancora stata annunciata).
Nel caso del Capitale nel XXI secolo le astuzie della Storia si sono fatte beffe degli esperti del mercato editoriale e hanno fatto del libro la bibbia di movimenti come Occupy Wall Street, influenzando poi partiti come il Labour di Jeremy Corbyn e, ora, perfino il Fondo Monetario e la Banca Mondiale. Capiremo presto se un analogo successo arriderà al nuovo libro, dove Piketty si avventura su un terreno non strettamente suo: quello dell’analisi delle ideologie e della storia economica.
Ma di cosa parla Capital et idéologie? Parla del fatto che, “La disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica”. Questa la conclusione più ovvia dell’ambiziosissima indagine storica presentata dall’autore, che parte dall’antichità e arriva ai giorni nostri. Piketty spiega: “Il mercato e la concorrenza, profitti e salari, capitale e debito, lavoratori qualificati e non qualificati, lavoratori locali e stranieri, i paradisi fiscali e la competitività non esistono in quanto tali. Queste sono costruzioni sociali e storiche, che dipendono interamente dal sistema giuridico, fiscale, educativo e politico prescelto e dalle categorie [di pensiero] che decidiamo di adottare.
Da quando esiste l’agricoltura e non siamo più cacciatori-raccoglitori, ogni società umana, secondo Piketty, “deve giustificare le sue disuguaglianze: bisogna trovarne le ragioni, altrimenti l’intero edificio politico e sociale rischia di crollare”. Ogni epoca produce quindi discorsi e ideologie (più o meno contraddittorie) che legittimano la disuguaglianza esistente descrivendo come naturali le regole economiche, sociali e politiche che strutturano l’insieme.
Nelle società contemporanee, la narrazione dominante è quella “meritocratica” già analizzata da Michael Young negli anni Cinquanta in un libro capito a rovescio (Meritocracy era una satira, recentemente è stato preso come un manuale per far carriera). Piketty riassume così lo storytelling del neoliberismo: “La disuguaglianza moderna è giusta, perché deriva da un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà, e dove tutti beneficiano spontaneamente dell’accumulazione dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili [alla società]”.
L’economista francese sottolinea che questa visione in teoria si colloca all’estremo opposto rispetto ai meccanismi della disuguaglianza nelle società premoderne, che si basavano su rigide, arbitrarie e spesso dispotiche disparità di status. Il problema, afferma il libro, “è che questa grande narrazione proprietaria e meritocratica, che ha avuto la sua prima ora di gloria nell’Ottocento, dopo il crollo delle società dell’Ancien Régime, e una riformulazione radicale di ambizioni mondiali dopo la caduta del comunismo sovietico e il trionfo dell’ipercapitalismo, appare oggi sempre più fragile”.
Capital et idéologie affronta in prospettiva storica il problema della distribuzione della ricchezza all’interno delle società più diverse, dalla Svezia al Brasile, dagli Stati Uniti all’India, arrivando a due conclusioni: primo, la diseguaglianza è fortemente aumentata negli ultimi anni, essenzialmente per scelte politiche dei governi e, senza interventi correttivi, essa è destinata ad aumentare ancora: “C’è ovunque un abisso tra i proclami ufficiali ‘meritocratici’ e la realtà che le classi svantaggiate devono affrontare in termini di accesso all’istruzione e alla ricchezza. Il discorso meritocratico e imprenditoriale appare molto spesso un modo conveniente per chi trae vantaggi dal funzionamento dell’attuale sistema economico per giustificare qualsiasi livello di disuguaglianza, senza nemmeno doverlo esaminare, e per stigmatizzare i perdenti per la loro mancanza di meriti, virtù e diligenza”.
Una critica non nuova del neoliberismo, con la differenza che Piketty offre al lettore una mole di dati impressionante (decine e decine di tabelle sempre originali) che integrano i 17 capitoli del volume, mettendo anche in guardia dal pericolo di regimi autoritari: “Se l’attuale sistema economico non si trasforma profondamente per renderlo meno disuguale, più equo e più sostenibile, sia tra i paesi che al loro interno, allora il populismo xenofobo e i suoi possibili futuri successi elettorali potrebbero ben presto avviare il movimento per distruggere la globalizzazione ipercapitalista e digitale degli anni 1990-2020”.
Dall’Ungheria al Brasile, passando per gli Stati Uniti e l’Italia, il pericolo dei movimenti autoritari e xenofobi rende urgente affrontare con radicalità il tema della disuguaglianza: se non lo fa la sinistra lo faranno i nuovi demagoghi al potere. Su questo punto, Piketty introduce un’interessante analisi di come i partiti dei lavoratori (comunisti, socialdemocratici, laburisti) siano diventati almeno dal 1990 i “partiti dei diplomati e laureati”. Nei principali paesi europei e negli Stati Uniti, “la somiglianza delle traiettorie del voto invita allo scetticismo su sulle ipotesi che si tratti di fenomeni strettamente nazionali”. Al contrario, occorre analizzare su scala globale “le ragioni che hanno portato una parte crescente dei gruppi sociali svantaggiati a sentirsi scarsamente rappresentati (o addirittura abbandonati) dalla sinistra che si presenta alle elezioni”.
Piketty insiste sul fatto che esistono ragioni materiali ben precedenti alla crisi economica del 2008 per questo allontanamento della parte più povera della popolazione dalla sinistra: le politiche fiscali e scolastiche in primo luogo (la riduzione delle tasse sugli alti redditi, per esempio, si è tradotta in un aumento delle tasse indirette, che colpiscono i consumatori, quindi penalizzano la parte economicamente più debole della popolazione).
Per scongiurare il rischio di regimi autoritari, scrive Piketty “la conoscenza e la storia rimangono le nostre migliori risorse”, auspicando un “nuovo socialismo partecipativo per il XXI secolo”. L’autore francese rimane ottimista: le disuguaglianze sono esistite nell’arco di tutta la storia umana ma, nel passato, “le rotture e i processi rivoluzionari e politici che hanno permesso di ridurre e trasformare le disuguaglianze del passato sono stati un grande successo, e sono all’origine delle nostre istituzioni più preziose: quelle che hanno reso possibile che l’idea di progresso umano diventasse realtà (suffragio universale, istruzione gratuita e obbligatoria, assicurazione sanitaria universale, tassazione progressiva).
Una necessaria boccata d’ossigeno nei momenti di pessimismo, quando non di disperazione, che ci colgono guardando a un panorama politico mondiale dominato da leader fascistoidi come Trump, Erdogan, Bolsonaro e Salvini.
(19 settembre 2019)
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