In quell’ettaro di Palazzi romani
di ALESSANDRO GILIOLI
In linea di massima, a me viene da pensarla come molti miei amici e contatti: ridurre la rappresentanza non è un bene, né è un bene diluire il rapporto tra elettore ed eletto, indebolirne le radici, e il Parlamento-base-della-democrazia andrebbe valorizzato non avvilito, e così via.
Poi però se passeggiate un mercoledì mattina nel centro di Roma, in quell’ettaro di Palazzi che sta tra la Galleria Alberto Sordi e la gelateria Giolitti, scansando i numerosi crocchi di orridi ceffi incravattati e arroganti col codazzo di portaborse e lobbisti vari, non è che i parlamentari li vorreste un po’ ridurre: li vorreste proprio decimare – numericamente parlando, s’intende.
Sì, lo so, è bruttino e “populista” da dirsi, ci sono anche ottime persone tra onorevoli e senatori, e con loro mi scuso.
Tuttavia non ho detto “mercoledì mattina” a caso, dato che se vi capita la ventura di entrare alla Camera o al Senato dal giovedì pomeriggio al martedì alle dieci trovate solo stanchi uscieri – ogni cento metri – intenti a sfogliare il Messaggero sulla loro scrivania tra gli affreschi. I parlamentari, altrove: magari in tivù, ai talk show, che è il modo con cui ritengono di tenere il decantatissimo “rapporto con il territorio”.
Vedete, qui vicino a dove lavoro io – sulla Cristoforo Colombo, a Roma – c’è un anonimo palazzone grigio di semiperiferia in cui nei primi due o tre decenni della Repubblica abitavano tanti parlamentari, anche di fama e di potere. L’avevano costruito, attraverso una cooperativa, proprio per andarci a vivere loro. Io lo guardo sempre con una certa ammirazione, quel brutto edificio da minuscola borghesia e da statali in pensione: ma tu guarda, i padri costituenti, dove si accontentavano di abitare. Oggi non ce n’è uno che prenda casa a più di 500 metri da piazza Colonna.
Un po’ qualunquista anche questo pensiero, certo, lo ammetto. Però, colpisce un po’ lo stesso, il cambiamento.
A proposito, una volta ho suggerito a un quasi-amico onorevole della sinistra radicale – uno di cui ho stima – di trasferirsi a Tor Pignattara, per guadagnare in esperienza quotidiana e credibilità. Mi ha sgranato gli occhi come se lo stessi insultando.
E detto tutto questo mi vien da pensare che questo famoso taglio dei parlamentari non è tanto un «risparmio per lo Stato» (come dicono i suoi vessilliferi) né una «mortificazione della rappresentanza» (come sostengono i contrari), ma più semplicemente l’effetto di una trasformazione e di un comportamento, insomma di pratiche.
L’effetto di troppe pratiche arroganti, presuntuose, un po’ troppo privilegiate, indifferenti al servizio, non proporzionate alle capacità e alla serietà, spesso bossy, qualche volta (molte volte) ai limiti del codice penale. Con una presenza al posto di lavoro inversamente proporzionale ai cambi di casacca per convenienza, con un attaccamento alla propria perpetuazione dentro il Palazzo che troppe volte sembra essere l’unico motivo per cui si alzano al mattino.
Con le dovute eccezioni, certo, sempre.
Insomma l’altissimo ruolo del Parlamento (non è ironico, lo credo veramente) purtroppo è già stato mortificato, da molti di quelli che lo impersonavano. E questo taglio a furor di popolo è un castigo che loro stessi assecondano sperando di placare così la sete di vendetta diffusa.
“Populismo di autodifesa”, lo chiamerei.
Insomma, degli eletti non riusciamo a migliorare la qualità – anzi – sicché ci consoliamo riducendone la quantità.
Il che forse è meglio di niente, s’intende, se per conseguenza diminuiscono anche gli ingombranti crocchi di brutti ceffi nell’ettaro romano di cui sopra. Cosa di cui, tuttavia, non ho alcuna certezza.
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