La polemica. Se la Commissione Segre diventa strumento di controllo politico-sociale
di BARBADILLO
Uno degli strumenti più efficaci con cui la sinistra post-marxista è riuscita a consolidare la sua egemonia culturale anche dopo la caduta del Muro è costituito dalla capacità di vincere la battaglia delle parole. Se ne parla da più di mezzo secolo, è vero, ma nessuno è stato capace di opporvisi seriamente.
Il metodo è noto e si traduce in genere in tre strategie. La prima è adottare un vocabolo con un significato specifico, legato a un determinato contesto storico, e attribuirgli una valenza universale: l’ur-fascismo, per usare il termine coniato da Umberto Eco, è il caso più evidente. La seconda consiste nell’attribuire un significato negativo a una semplice vox media, criminalizzandola. Un caso tipico è legato all’abuso del suffisso –fobia. Fobia deriva dal greco antico phobos, paura. La paura può non essere considerata un sentimento particolarmente nobile, ma non costituisce di per sé una minaccia. Può essere semmai la reazione di chi si sente minacciato, per cui compito primario del politico dovrebbe essere valutare se tale minaccia è reale o no, ed eventualmente rimuoverla. Invece si è cominciato con lo stigmatizzare la paura dello straniero (xenofobia), per passare poi alla paura del fondamentalismo islamico (islamofobia), tacendo invece sull’aggressiva cristianofobia diffusa nel mondo musulmano e anche fra molti musulmani che hanno trovato accoglienza in Europa.
La terza strategia consiste nel coniare neologismi o per colpevolizzare orientamenti culturali difformi dalla vulgata marxista (basti pensare alla battaglia contro il “revisionismo” di Renzo De Felice), o per elaborare nuove costruzioni giuridico-lessicali attraverso cui esercitare un controllo sociale. L’invenzione più recente è il cosiddetto hate speech (in italiano “incitamento all’odio”, ma scriverlo in inglese fa più fino), da cui ha tratto origine la Commissione interparlamentare proposta dalla senatrice Segre.
Intanto, è opportuna una premessa. Che l’odio, o comunque l’aggressività sia in crescita, a livello virtuale e anche nella vita reale, è fuori di dubbio. Le conseguenze sono moltissime, dalla crisi economica alle inevitabili tensioni che comporta la nascita di una società multiculturale e multireligiosa, dalle tensioni interne ai nuclei familiari all’estrema razionalizzazione della vita lavorativa legata all’informatica. Razionalizzazione che comporta paradossalmente una moltiplicazione dei comportamenti irrazionali. Il corriere che è controllato minuto per minuto nei suoi spostamenti dal navigatore satellitare, mentre prima poteva ritagliarsi tempi morti per fermarsi al bar e fare due complimenti alla cameriera, il professore che appena suonata la campanella deve precipitarsi a compilare il registro elettronico, da cui risultano ora e minuti del suo ingresso in classe, il medico di base che più che la gola del paziente influenzato fissa lo schermo del computer per digitarne il codice, perché una svista comporterebbe sanzioni, il poliziotto che vive nel terrore di essere filmato se non si comporta da gentleman con uno spacciatore arrestato, la telefonista che deve vendere un certo numero di contratti taroccati di telefonia mobile, pena il licenziamento da un posto per cui non è mai stata assunta, il bancario obbligato a imporre alla clientela obbligazioni emesse dalla sua banca, il capotreno costretto a sorvegliare da solo un treno locale in cui sono sempre più numerosi i portoghesi e in più a fare da capostazione a ogni fermata, perché i la maggior parte delle stazioni non è più presidiata, hanno visto negli ultimi anni diminuire non solo la loro capacità di spesa, ma il loro tenore di vita. Tutto questo ha comportato una crescita dell’aggressività sociale che prende tutte le direzioni, non solo politiche. Basta scorrere le lettere al direttore di un quotidiano per trovarsi di fronte ai contenziosi più disparati: genitori di bambini petulanti che si scagliano contro proprietari di cani abbaianti, lavoratori autonomi contro dipendenti, giovani disoccupati contro anziani pensionati (che poi magari sono i loro stessi genitori, o nonni, da cui sono mantenuti), ciclisti contro automobilisti e pedoni contro ciclisti, e naturalmente viceversa. A tutto questo si aggiungono i risentimenti di natura politica o prepolitica, contro cui la Commissione Segre dovrebbe operare.
Buona parte di questa aggressività è legata alla Rete. L’informatica fornisce infatti una straordinaria possibilità di controllo, sia verticale – da parte dei superiori e dei gestori -, sia orizzontale (il ragazzino che filma il professore che non riesce a tenere la disciplina e mette on line il video). Ma al tempo stesso la rete offre tramite i social una possibilità di sfogo prima impensabile alle frustrazioni che provoca. Invettive rozze o violente, che prima erano confinate ai tavoli di una bettola o alle pareti di un orinatoio, oggi divengono di pubblico dominio. È per arginare questo fenomeno che la Commissione Segre è stata istituita.
Sarà veramente utile, o costituirà, come da taluno paventato, la premessa per la creazione di un orwelliano “ministero della verità”, o magari, visto il costume italiano, si risolverà in una nuova fabbrica di prebende e di piacevoli missioni all’estero per i suoi membri (niente male per un Parlamento che si è prefisso il compito primario di ridurre le spese del Palazzo, a partire dai vitalizi alle vedove dei deputati)?
Prima di azzardare una previsione, è onesto considerare alcuni aspetti del problema. In primo luogo in Italia esistono due leggi specifiche, contro il neofascismo e contro l’odio razziale, la legge Scelba e la legge Mancino. La prima è stata raramente applicata, per la sua collisione col principio costituzionale della libertà d’opinione, tant’è che contro molti movimenti neofascisti è stata paradossalmente utilizzata la norma del codice penale fascista che persegue le associazioni sovversive. La seconda ha avuto un’applicazione più vasta. Il limite della legge Mancino, al di là di altre considerazioni, è che persegue esclusivamente l’odio di razza, ma non l’odio di classe. Lo scrissi – mi si perdoni il vezzo dell’autocitazione – in un articolo uscito sulla terza pagina del “Messaggero Veneto”, diretto all’epoca da quel galantuomo di Vittorino Meloni – quando il decreto era ancora in discussione. Dietro questa omissione c’è un preciso motivo. È esistito un partito in Italia che fin dalla sua nascita ha propagandato l’odio di classe e che su quest’odio, e sull’invidia di chi non ha e vorrebbe avere (e se avesse forse si comporterebbe come e peggio di chi oggi odia), ha costituito le sue fortune. Il primo hate speech è stato quello del partito comunista e della componente massimalista del vecchio Psi. Purtroppo nemmeno nella mozione istitutiva della Commissione Segre è presente un riferimento all’esigenza di contrastare la diffusione dell’odio di classe, cui si aggiunge oggi anche l’odio fra i sessi o l’odio intergenerazionale (eppure è difficile immaginare che cosa sarebbe successo se un politico di destra avesse proposto quello che Grillo ha proposto per gli ultrasessantacinquenni per i rom o per i cittadini italiani di origine straniera). Eppure è noto come antisemitismo e odio di classe siano strettamente intrecciati: in Germania Hitler mieté consensi presentando gli ebrei come capitalisti sfruttatori del popolo, in Italia molti fascisti di sinistra, sui cui nomi è bene stendere un velo pietoso, appoggiarono le leggi razziali in nome della lotta alla borghesia. Senza contare che, se l’odio di razza ci ha portato ad Auschwitz, l’odio di classe ha portato allo sterminio dei Kulaki, ai Gulag, alla rivoluzione culturale cinese, ai massacri del Sud-Est asiatico. Si potrà obiettare che il Pci non esiste più, anche se in qualche festa del Pd si continua a cantare “Bandiera rossa”. Ma esistono i Centri Sociali, i rappers che inneggiano all’odio politico, gli anarchici che esaltano la lotta allo Stato borghese.
Un ultimo elemento critico della mozione istitutiva della Commissione Segre è costituito dall’assenza di qualsiasi riferimento agli haters antioccidentali e anticristiani. Si citano documenti relativi all’“antigitanismo”, all’antislamismo, alle discriminazioni verso minoranze e immigrati, ma non si parla delle violenze contro i cattolici, delle profanazioni di chiese e cimiteri, della propaganda fondamentalista che naviga su internet. Si parte dall’assunto che debbano essere difese solo le minoranze, senza considerare che una minoranza agguerrita può condurre alla “sottomissione”, tanto per citare il romanzo a tesi di Houellebecq, una maggioranza timida e divisa. In sostanza, è giusto e doveroso combattere l’odio, ma in tutte le sue forme, non solo quelle verso i nomadi o gli immigrati. Anche quello, magari, degli occidentali verso se stessi.
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