Christophe Guilluy, “La società non esiste. La fine della classe media occidentale”
Di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
Christophe Guilluy è un geografo francese che ha scritto questo più che opportuno libro nel 2018 poco prima che il movimento dei Gilet Gialli occupasse il centro di una scena che così abilmente descrive[1].
L’oggetto principale del suo sguardo è largamente riconosciuto[2] (se pur c’è qualcuno che ancora lo nega[3]): il declino dei ceti medi e la crescita di quello che chiama “il mondo della periferia”. È chiaro che questa descrizione è scandalosa; attesta il fallimento di un modello che ha da sempre[4] inteso la propria legittimazione per la rivendicata capacità di creare ricchezza per la maggioranza. Non è possibile sottovalutare la potenza di questo principio di legittimazione nella modernità. Anche se i ‘ceti medi’ sono sempre stati una ‘insalata di occupazioni’, come diceva Wright Mills, tuttavia erano uniti da uno status sociale, prima ancora che da reddito. Status che essenzialmente indicava una dinamica ascendente, almeno potenziale, un maggior grado di istruzione e di consumi, rispetto alle classi ‘inferiori’, soprattutto più sicurezza nelle prospettive di lavoro, una certa protezione. Essere nel ‘ceto medio’ ha sempre significato essere, insomma, nel centro della società e godere quindi di una piena cittadinanza. La cosa importante è che questa descrizione, l’esistenza di questo centro, maggioritario, è assolutamente necessaria per considerare fondato il buon diritto della società esistente alla sua conservazione. Si tratta di un mito indispensabile.
Dunque Guilluy attacca una pietra angolare dell’attuale piramide ideologica.
Muoviamo dunque all’attacco.
Per farlo occorre preliminarmente diradare una nebbiolina intorno al concetto: si può sempre tracciare una stratificazione, in relazione a parametri quantitativi come il reddito individuale o familiare, individuare una mediana[5], prendere una congrua fascia sotto e sopra e nominarla “ceto medio”. Si tratta di un semplice esercizio matematico.
Ma se pure in questo modo si può individuare un 70% che staziona nell’intervallo, un 10% sopra ed un 20% sotto, la verità è che fuori dei nostri modelli e delle aule universitarie nelle quali ce li raccontiamo, per consolarci, il ‘ceto’ maggioritario protetto dalla dinamica sociale dell’economico non c’è più. Si polarizza, ascende in qualche parte e discende in parte maggioritaria, ovvero si divarica. Ormai la massa presente al centro della distribuzione non è solo una ‘insalata’, ma è anche incapace di percepire un unico destino. In particolare è imploso un modello che riusciva ad integrare, e proteggere, le classi popolari, le quali, questo è importante, “costituivano lo zoccolo duro della classe media occidentale, e ne incarnavano i valori”.
E quel che discende, perdendo la sicurezza che è l’elemento centrale dello ‘status’, non è solo presente dove è sempre stato, nei ghetti e nelle zone marginali (nelle ‘periferie’ estreme che tanto volentieri fotografiamo e riprendiamo), ma, sostiene Guilluy, staziona nelle zone ‘periferiche’, nelle piccole città, nel ‘suburbano imposto’, nelle aree rurali, in quelle rade e miste. Non è per caso che proprio in questi territori continui a rafforzarsi l’ondata populista, quel fenomeno socio-politico irrompente che “mostra sempre la stessa geografia (le periferie urbane e rurali) e la stessa sociologia (le categorie umili che rappresentano la maggioranza della classe media)”. Questa non è un margine, qualcosa di fisiologico, ma una potenziale maggioranza.
Si tratta del risultato di una tenaglia tra i processi di gentrificazione[6] e di ghettizzazione[7]; di quella area grigia in mezzo. Emerge da classi che per la ricchezza possono essere distinte in “povere”, “modeste” e “medie”, per l’identità in francesi e immigrate. Dove, ovviamente, essere nella seconda categoria ordinariamente implica un minor grado di inclusione di cittadinanza e quindi un aggravio notevole rispetto alla sostanza dell’essere ‘classe media’.
Quindi nella definizione di “classi popolari”, non rientrano solo gli abitanti dei quartieri di edilizia popolare delle grandi città, “dove si concentrano le categorie popolari dei poveri e degli immigrati”, ma anche l’insieme molto più ampio “degli abitanti dei territori deindustrializzati, delle zone rurali, delle città di piccole e medie dimensioni”. Una sorta di “Francia periferica” che va decisamente oltre la definizione e la coppia urbano/rurale. Se c’è una opposizione questa ormai è “tra grandi aree urbane globalizzate in fase di gentrificazione, da una parte, e tutti gli altri dall’altra”.
Per comprendere la dinamica in corso, due grandi forze trainano la dinamica populista: la precarietà sociale, che è l’effetto del modello economico, e la precarietà culturale, che per l’autore è l’effetto della nascita della società multiculturale. La ragione è elementare, se c’è solo la prima forma di insicurezza, sociale, si resta su sentieri normali, magari di sinistra radicale, e se c’è solo la seconda si aderisce all’elettorato borghese di destra.
Questo mondo, quello del voto populista, principalmente Le Pen in Francia, è, alla fine, semplicemente “il riflesso geografico della divisione sociale prodottasi nel ventunesimo secolo tra un ‘alto’, un mondo di sopra, economicamente integrato, e un ‘basso’, un mondo di sotto, relegato alla marginalità” (p.16).
Ciò significa anche che le separazioni più rilevanti non passano più per:
– destra/sinistra, classe operaia/padroni, rurale/urbano,
ma:
– privilegiato dalla globalizzazione/debole e perdente dalla stessa, nomade/sedentario, nuove classi superiori/nuove classi popolari,
Ovvero significa che: “per la prima volta nella storia dell’occidente, i gruppi a basso reddito non vivono nei luoghi in cui si creano la maggior parte dell’accumulazione e della ricchezza e, cosa ancora più rilevante, non possono permettersi di viverci”. Naturalmente ci sono tantissime eccezioni, in tutte le direzioni, ma confermano questa indicazione, perché nelle enclave ricche delle zone periferiche hanno votato Macron, e nelle sacche marginali entro le aree forti Le Pen. Del resto questo sembra essere il gradiente decisivo, un intero insieme sociale si è mosso. Non solo i segmenti marginali degli operai e dei contadini, ma dipendenti, lavoratori manuali, piccoli colletti bianchi, giovani, pensionati, abitanti delle zone rurali e urbane. Tutti strati che, uno alla volta e uno dopo l’altro, sono stati scientemente sacrificati. Prima la classe operaia, poi il terziario precarizzato, quindi tutti i servizi nei quali si era rifugiato il lavoro ormai debole, ora la pressione si sta spostando su impiegati e piccoli lavoratori autonomi.
Ormai sono “tutti marginali”. Ma “il problema è che sommando tutti questi marginali si ottiene un insieme completo: quello della vecchia classe media occidentale” (p.33). Come mostra bene, infatti, anche Bagnasco, in realtà il ‘ceto medio’ occidentale non era stato prodotto dagli spiriti animali del capitalismo, ma era stato costruito nelle lotte e sotto la pressione del modello alternativo del socialismo da ‘contratti sociali’ che erano strettamente connessi, intimamente, con il modello di capitalismo industriale del dopoguerra[8]. Un capitalismo che si era accontentato di “coniugare insieme crescita economica e coesione sociale, in un quadro di democrazia politica”[9]. La base sociale di questa regolazione vedeva una grande, anche se mai maggioritaria, e abbastanza coesa classe operaia, e il “ceto medio” che si connetteva con questa in un continuum e proseguiva in quei segmenti necessari per tenere in piedi la grande macchina. Questo processo di inclusione sociale molto forte, anche se parziale, includeva i manager, necessari per la crescita di organizzazioni sempre più grandi e complesse, gli strati superiori degli impiegati e degli operai (la cosiddetta “aristocrazia operaia”), la “service class” che gli ruotava intorno e parte del pubblico impiego. Un insieme sociale che accompagnava l’istituzionalizzazione del conflitto ed il “compromesso socialdemocratico”. Lo Stato, notevolmente presente ed interventista, cercava di gestire la domanda e spingere la spesa pubblica, nei momenti di flessione, per garantire l’occupazione e salvaguardare l’inclusione, oltre che la pace sociale anche attraverso la contemporanea crescita del “welfare state” (che è un movimento molto più ampio e generale rispetto alle sole politiche keynesiane). Complessivamente tutto questo meccanismo di regolazione era rivolto alla gestione e riduzione dei rischi, via inclusione, in cambio di lealtà politica.
Tutto questo è stato smontato, e progressivamente continua ad esserlo, ma senza porsi davvero più il problema della coesione sociale. Affidando tutto alla disintegrazione delle identità sociali, all’inattivazione individualista, ed a forme sempre più autistiche di edonismo e narcisimo[10]. Bagnasco lo chiama uno “smontaggio senza costruzione”.
Quella che si è generata è, insomma, una nuova geografia sociale e quindi politica. Che vale anche per la Germania, per l’Italia (che è emersa il 4 marzo). Ma anche per il segnale forse principale, naturalmente: quello della elezione di Trump. Né quella di Macron è davvero una eccezione, che indica la dinamica di ribasso dell’ondata populista, come si è detto con un sospiro di sollievo; in realtà si tratta della stessa ricomposizione politica. Entrambi, se pur su sponde opposte, sono estranei al rispettivo campo, sono outsider.
Quando si arriva ad avere tassi di disoccupazione reali negli Stati Uniti del 20%, ca 90 milioni di persone, di cui 50 vivono con i buoni alimentari, l’aspettativa di vita cala in tutti i paesi per le classi medio-basse, e questo avviene sia nell’Ohio sia nella campagna francese, allora è cominciata l’estinzione della classe media. Processo che sarà completo quando anche i decani, ora sotto attacco sia in Francia sia in Italia, dovranno ridurre il loro tenore di vita, giudicato un peso insopportabile ed una sorta di perversa ingiustizia. Chi soffre non capisce perché altri non lo facciano. Ma sono i pensionati che, in vario modo, hanno rallentato l’ondata populista[11]. La cosa è semplice, in fondo: “per tosare i decani della classe media occidentale tuttavia serve una giustificazione ed i beneplacito del resto della popolazione, perciò diventa essenziale presentare queste persone come appartenenti a categorie di privilegiati, e i media e la classe accademica sono impegnati in questo senso” (p.42). Quando sarà compiuto la precarizzazione dei pensionati (molti dei quali lo sono già) sarà l’ultimo passo.
Se accadrà non ci sarà più una vera e propria classe media. La frattura tra le classi dominanti, ormai sempre più separate, e le classi precarizzate, spaventate e insicure, sarà definitivamente compiuto. Ma con questo si perderà anche il più potente stabilizzatore sociale. In epoca di ormai avanzata secolarizzazione, quando non si crede più a valori e quadri cosmologici comuni, verrà meno quel “sentimento di appartenenza alla classe media” che non si è mai basato solo sul reddito, neppure sulle professioni (pur essendo queste due dimensioni importanti), ma sul “sentirsi portatori di valori maggioritari”. E questi valori sentirli “parte integrante di un movimento economico, sociale e culturale avviato dalle classi dominanti”. Si trattava, insomma, del tessuto che teneva insieme la società e la teneva connessa e coerente con lo strato dominante.
Se dal “centro” si guarda su, però, è in qualche modo necessario che “dall’alto” si risponda allo sguardo. Ed è questo che, a partire dagli anni ottanta, per Guilluy è collassata la coesione sociale. Come ricorda spesso anche David Harvey, le classi superiori, prendendo per anni tutto il surplus prodotto e serbandolo per sé, si sono separate. Hanno cominciato a parlare di “miserabili”, di “sdentati”, hanno visto formarsi tra lo spaventato e l’indifferente, una sottoclasse razzista, rancorosa e ignorante. L’hanno quindi abbandonata sdegnate. Hanno proposto modelli multiculturali, rifugiandosi nel “politicamente corretto”[12], senza comprendere che nessuna integrazione è possibile se non si muove dalle classi popolari. Hanno reagito al senso di tradimento, rancore e dolore, che viene dal basso colpevolizzando.
Comincia così il tempo della “a-società”, il tempo delle opposte secessioni[13].
“Il sacrificio della classe media occidentale sull’altare della globalizzazione è stato solo il primo passo in un processo che porta il mondo di sopra ad abbandonare i modelli e i valori comuni che costituivano i pilastri della società occidentale. Per la prima volta nella storia, la classe dominante e i suoi portavoce nel mondo dei media, della cultura e dell’università non parlano né a nome né contro le classi popolari, perché ormai esse sono fuori della storia” (p.63).
Questo processo ha spesso preso i nomi fuorvianti di “metropolizzazione”, o di “open society”, in realtà è un arroccamento. Chi consegna le vittorie elettorali (ad esempio a Macron) sono sempre i garantiti dal sistema sociale, ma queste sono sempre più difficili, per due motivi: i garantiti sono sempre di meno e questi hanno sempre meno egemonia. Peraltro questo sistema tendenzialmente non garantisce nessuno, e quindi i garantiti di oggi saranno le vittime di domani.
Sulla base di questa valutazione emerge il concetto guida della rappresentazione dell’autore. Quello di “Francia periferica”. Che “non va confuso con quello di ‘periferie’; esistono periferie tanto nelle aree metropolitane che nella Francia periferica. Di nuovo, il concetto di Francia periferica designa tutti quei territori lontani dalle prime quindici metropoli del paese, in cui vive quali il 60% della popolazione francese. La categoria serve ad analizzare la ricomposizione sociale dei territori e il ruolo delle classi popolari nel modello globalizzato, ma questo non significa assolutamente che il cento per cento dei territori e delle città della Francia periferica siano in declino o siano abitati esclusivamente da classi popolari precarie, né che tutti i territori metropolitani siano gentrificati. Piuttosto la categoria di Francia periferica serve a descrivere dinamiche economiche che si ritrovano in tutti i paesi sviluppati e sono caratterizzate da processi di concentrazione della ricchezza e dell’arroccamento delle classi superiori in territori da cui vengono progressivamente allontanate le classi popolari”. Si tratta di una categoria che serve a rendere visibile il doppio fenomeno interconnesso della gentrificazione e della desertificazione, del quale parla ad esempio la parabola svedese, il rifiuto del modello multiculturale nel momento in cui chi è già “umile”, non sopporta giustamente di diventare anche minoranza, di contendere risorse calanti[14]. Una divaricazione nella quale trova spazio, in alto, individualismo e gregarismo sociale, ed in basso, solidarietà imposta dalle circostanze e forme di comunitarismo difensivo.
Fenomeno, peraltro, che deve restare oscuro, del quale non si deve parlare in quanto chi ne parla rischia il più duro ostracismo. In particolare se fa parte del ceto preposto al controllo delle idee, degli intellettuali e degli operatori dei media.
C’è anche un altro problema, e qui probabilmente la vicenda in corso dei Gilet Gialli ne è una conferma: si tratta di un fenomeno nel quale è “molto difficile creare le condizioni della rivoluzione intesa alla maniera dei secoli precedenti, quando esisteva ancora il legame (conflittuale a volte) tra classi popolari e classi superiori. La secessione della borghesia e la dispersione delle classi popolari stanno creando una situazione politica senza precedenti, per cui tutte le tensioni sociali e identitarie vengono annientate dal disimpegno delle classi superiori. Infatti nessun processo può emergere senza che una frazione dell’élite o della borghesia scenda in campo”[15]. Insomma, “non esistono movimenti di massa, non esistono rivoluzioni senza alleanza tra le classi”.
Questa incapacità di mettersi in contatto, anche quando si provi, è dimostrata per Guilluy dalle parabole di Skyriza e di Podemos, che hanno reso evidente l’impossibilità di rappresentare le aspirazioni popolari da parte della borghesia illuminata. Inoltre, oltre che impossibile, è anche individualmente pericoloso: il muro minaccioso del ‘politicamente corretto’, le accuse di razzismo, le deplorazioni degli ‘analfabeti funzionali’, le ‘campagne contro l’odio’ (ovvero contro il conflitto sociale), sono tutte armi che sono rivolte specificamente contro quella porzione delle classi superiori e intellettuali che volessero essere tentate di spendersi. Nessuna di queste armi ha infatti veramente senso contro i ceti popolari, che sanno quel che sono e vogliono, e da tempo hanno perso la timidezza, ma sono efficacissime nel far capire a chi, facendo parte del ceto superiore non volesse capire il suo posto, e tradire la classe, che il prezzo sarà la morte civile. In questo modo si impedisce l’accumulazione delle condizioni di un reale cambiamento.
Ma non sta davvero funzionando.
Il “mondo di sotto” è ormai troppo forte, ed esercita quello che l’autore chiama un “invisibile soft power”, il quale è il motore dell’ondata populista. Questo costringe i politici ed i media a trattare i temi fino a poco fa proibiti. Anche quando provengono da partiti che fino a ieri sostenevano, e di fatto sostengono, altri ceti ed interessi[16]. Del resto è più generale, come scrive: “la verità è che Donald Trump, Marine Le Pen, Jean-Luc Mélenchon, Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Steve Bannon, David Goodhart o Eric Zemmour non influenzano in alcun modo l’opinione pubblica: al contrario, si nutrono di essa” (p.122). La ragione è semplice, tutto il movimento populista, comunque sia orientato, è causato dagli effetti della scomparsa della classe media, non dal talento di un tribuno. È l’effetto politico di una potente richiesta di protezione sociale e culturale. Di fatto si tratta, per i più umili, solo di conservare il proprio capitale sociale e culturale. L’unica cosa che gli appartiene e non può essere sottratto, l’essenziale della loro vita. Tutto questo le classi dominanti lo chiamano “populismo”, ovvero fascismo, ma per Guilluy è solo movimento democratico.
Ovvero è l’esito necessario del tentativo:
– di fronte alla volontà di ridurre il welfare, di preservare il bene comune,
– alla deregolazione e denazionalizzazione di opporre un inquadramento nazionale,
– al mito dell’ipermobilità contrapporre un mondo popolare sedentario,
– rispetto al mondo senza distinzioni culturali far valere un mondo che protegge il capitale culturale collettivo.
Questo è il movimento che porta ad imporre temi come: il protezionismo, la regolazione della immigrazione, la lotta alla speculazione finanziaria. Ovvero a contrastare il dogma centrale del liberalismo, la libertà di movimento di merci, persone e capitali.
Fino a che non si capirà che tutto è semplicemente l’effetto del finale fallimento di un sistema che non riesce a creare società, e quindi fallisce nell’essenziale, non si potrà superare la crisi (sociale e quindi economica).
[1] – La protesta inizia a sedimentare, infatti, nel maggio di quell’anno, ma è solo dal 17 novembre che iniziano le, fino ad ora ininterrotte, ‘giornate’ di protesta.
[2] – Ad esempio si può leggere il libro di un sociologo che non richiede presentazioni come Arnaldo Bagnasco in “La questione del ceto medio”, 2016, o Branko Milanovic, “Ingiustizia globale”, 2018, oltre che l’ampia analisi di Thomas Piketty, “Il Capitale del XXI secolo”, 2014, che dimostra la crescita delle ineguaglianze in occidente, Anthony Atkinson, “Disuguaglianza”, 2017, e via dicendo…
[3] – Leggeremo, ad esempio, il recente libro di Luca Ricolfi, “La società signorile di massa” che, con una lettura a tema non priva di forzature enfatizza fenomeni certamente presenti, ma di nicchia, e con un gioco di prestigio li amplifica a “massa”, con ciò producendosi in una confutazione del declino della classe media, cui attribuisce una consistenza immutata.
[4] – Si veda ad esempio Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore”, la legittimazione e ispirazione più profonda del liberalismo è il rifiuto dell’incertezza derivante dagli scontri sociali e culturali e l’aspirazione ad una vita tranquilla, concepita nella forma della borghesia ascendente. L’energia impegnata nell’etica dell’onore viene dirottata verso il lavoro e l’industria, sulla base di una promessa essenziale: la ricchezza porterà la pace. E’ assolutamente necessario a questo concetto che ci sia progresso. Ovvero pacificazione ideologica, persino in un popolo di demoni, come scrive Kant in “La pace perpetua”, i quali si dedichino ai propri affari e così producano il maggior bene per tutti. Non si può concepire la logica del liberalesimo senza credere a questa armonizzazione, necessaria e progressiva, degli interessi sulla base del solo “dolce commercio” e del minimo necessario di autorità. Quel che chiamiamo l’economia deve, quasi da sola, realizzare il miracolo secolare di renderci felici, fraterni e buoni, perché ricchi. Il problema è che se manca la crescita, e tanto più se interviene un lungo processo di impoverimento e di insicurezza, l’incanalare grazie a strumenti giuridici e di mercato vizi privati e virtù fallisce nell’obiettivo (che è quello prioritario) di ottenere una società ben ordinata. Come correttamente scrive Michéa, mercato e diritto sono forme di socializzazione, ma secondarie, e non sono in grado di fondare le proprie stesse basi. Esse si basano su una preesistenza: quella della lealtà e di un qualche sentimento morale che sia in grado, essendo abbastanza condiviso, di presupporre da parte degli attori il reciproco riconoscimento e quindi la fiducia reciproca. Non si può avere fiducia sulla base del calcolo egoistico, perché si retrocede ad infinitum nel gioco strategico. Occorre un fondamento antropologico radicato nel “ciclo del dono” (Mauss, “Saggio sul dono”).
[5] – Termine che si riferisce a quel punto di una distribuzione nel quale ciò che resta sopra è equivalente a quel che resta sotto. Non va confusa con la media, che è semplicemente la quantità diviso la numerosità, ad esempio reddito tortale diviso numero dei percipienti.
[6] – Si dice “gentrificazione” quando in un’area, tipicamente un quartiere, progressivamente si attiva un processo di sostituzione della popolazione originale con altra di maggiore ceto sociale, e questo, arrivando di fatto espelle quella residua. La meccanica è guidata dal mercato, nel senso che l’arrivo di ceti più alti tende a migliorare il quartiere sotto il profilo della sua attrattibilità e ciò alzai valori immobiliari e dei fitti. I nuovi venuto spingono per una riqualificazione degli edifici e programmi urbani di riqualificazione che accelerano il processo, fino a che letteralmente i vecchi abitanti non si possono più permettere di vivere sul posto.
[7] – E’ l’esatto opposto, quando in un quartiere per i più diversi motivi si concentrano popolazioni a basso reddito tendono ad espellere le popolazioni più abbienti, e ciò accelera il degrado, la carenza di manutenzione, fino a prendere una direzione di accelerazione e formare il vero e proprio ghetto.
[8] – Si veda anche, Arnaldo Bagnasco, Nicola Negri, “Classi, ceti, persone”, Liguori, 1994. In questo libro, della metà degli anni novanta, al culmine del processo di cetomedizzazione, si scrive che “i ceti medi sono un importante e a volte decisivo elemento di stabilizzazione della società. Cresciuti con lo sviluppo economico del dopoguerra e con le innovazioni tecnologiche, organizzative e politiche che questo ha comportato, essi acquisterebbero nuove funzioni di stabilizzazione sociale in una fase di instabilità dei grandi sistemi economici”, p.40.
[9] – Arnaldo Bagnasco, “La questione del ceto medio”, op.cit.,
[10] – Si veda la diagnosi di Lasch, in particolare “La ribellione delle élite”. In questo libro del 1995, l’ultimo, si chiede se il declino dell’industria manifatturiera, la contrazione della classe media, la crescita della povertà e il degrado territoriale lasceranno speranza alla democrazia. Come sosteneva anche l’ultimo Dahrendorf (si veda, ad esempio, “Dopo la democrazia”) secondo lui le classi privilegiate si sono separate e sono diventate sempre più cosmopolite e mobili. La necessità di spostarsi come requisito preliminare per fare carriera, ben noto nei ceti alti, è il più importante fattore che determina l’insorgere di una “mentalità turistica” e allontana di fatto dalla democrazia. Secondo Lasch kle élite hanno perso fiducia nei valori dell’occidente e hanno ristretto il radicalismo e la spinta al cambiamento a movimenti come il femminismo, l’antirazzismo, i movimento LGBT.. etc. che non “hanno nulla in comune tra di loro” e come rivendicazione coerente hanno solo la cooptazione nelle strutture dominanti. Si veda anche “La cultura del narcisismo”, 1979.
[11] – Questo accenno assomiglia, ma con più senso delle proporzioni, alla tesi centrale di Ricolfi.
[12] – Si veda Jonathan Friedman “Politicamente corretto”. Identifico con questo termine una forma di categorizzazione e quindi di comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in quella data identità preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)”. Rifiutandosi all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere, che si produce è che inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente di neutralizzarla; essa non può più essere localmente vera, perché è semplicemente troppo terribile. Al contrario diventa vero ciò che è buono, e perché lo è. Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di incertezza. Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite transnazionale (ben vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf) che cerca di neutralizzare l’opposizione moralizzando l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di controllo, la vergogna. La simmetria essenziale è con la politica mondiale a taglia unica (il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e passa per la riclassificazione del liberale come progressista e del socialista come reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale, astratto, verticale. La ‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso, ‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante, rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi. Questa è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma di controllo basata sulla classificazione creando un controllo operativo (“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena espressione è il mercato autoregolato.
[13] – Per quella delle élite si veda Christopher Lasch, “La ribellione delle élite”, 1995.
[14] – Un caso specifico e noto è la concorrenza per le case popolari, sempre di meno e quindi nelle quali la riserva di fatto o di diritto agli immigrati pesa sempre più. Si veda, Antonio Tosi, “Le case dei poveri”.
[15] – p.105. Un concetto simile lo esprime anche Lenin in “Che fare?”
[16] – Il maggior esempio è Salvini
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2019/11/christophe-guilluy-la-societa-non.html
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