Chi decide il futuro della Libia?
di DAVIDE GARAVOGLIA
Nel tentare di risolvere lo spinoso dossier libico, la via diplomatica e quella militare corrono parallele. Se da un lato, infatti, si sono intensificati gli incontri bilaterali tra i due leader libici ed i capi di Stato di diversi Paesi (europei e non) tanto da giungere ad un temporaneo cessate il fuoco, l’approvazione da parte del Parlamento turco dell’invio in Libia di un proprio contingente (non si sa ancora di che entità) segna un ribaltamento negli equilibri in campo.
Dopo averlo fatto in Medio Oriente, la Turchia punta a ritagliarsi un ruolo di rilievo anche in Nord Africa e ripropone delle dinamiche che l’hanno vista ottenere risultati significativi nell’esperienza siriana, andandosi ad interfacciare con lo stesso interlocutore: la Russia. I due Paesi, che in Libia come in Siria supportano fazioni opposte (Putin appoggia il generale Haftar, mentre Erdogan sostiene il Governo di accordo nazionale di Serraj), hanno dimostrato di saper dialogare ed intendersi benissimo quando si è trattato di fare scelte che portassero benefici reciproci.
Un “do ut des” che in Siria ha consentito ad Ankara, approfittando del vuoto creato dal ritiro americano, di agire indisturbata nelle zone curde e di creare una zona cuscinetto lungo il proprio confine meridionale, ed a Mosca di consolidare posizione ed influenza in Medio Oriente. Contrariamente all’operazione “Sorgente di Pace” in Siria, considerata necessaria per fronteggiare la minaccia alla sicurezza nazionale rappresentata dai curdi, la decisione di inviare truppe in Libia ha tuttavia spaccato l’opinione pubblica turca (oltre ad aver indignato gran parte di quella internazionale).
È evidente come in questo caso non ci sia la sicurezza alla base della mossa del Sultano, ma piuttosto la possibilità di inserirsi prepotentemente in un contesto di estrema rilevanza da un punto di vista geografico-strategico ed economico-energetico. In cambio dell’invio di armi, veicoli e truppe, Erdogan si sarebbe infatti garantito il controllo di una fascia di mare dove in futuro dovrebbe passare il gasdotto EastMed, l’ambiziosa infrastruttura che si propone di collegare il Mediterraneo orientale all’Europa tagliando fuori proprio la Turchia.
Così, mentre l’Europa dialoga internamente senza trovare una linea comune, Russia e Turchia si adoperano per giungere alla Conferenza di Berlino (che dovrebbe tenersi il 19 gennaio) nelle migliori condizioni possibili. Minacciato dall’ingerenza turca, Putin ha convocato a Mosca i due leader libici, proponendo un accordo che prevede il ritiro nelle caserme delle milizie impegnate nei combattimenti, lo stop alla missione militare turca ed il mantenimento del cessate il fuoco sotto la supervisione russa e delle Nazioni Unite. La mancata firma da parte dell’uomo forte della Cirenaica, tuttavia, rappresenta un passo indietro sulla strada della risoluzione politica e rende la tregua estremamente precaria.
Per sperare di avere ancora un ruolo nel processo di transizione libico, i Paesi europei (ed in particolare l’Italia) devono in fretta prendere coscienza delle mutate condizioni e riconsiderare la propria strategia. Il presidente Conte, che dopo aver incontrato entrambi i leader libici in Italia (non senza polemiche ed incomprensioni) si è recato prima ad Ankara e poi a Il Cairo, sta tentando di mantenere Roma al centro dei negoziati (almeno per quanto riguarda la controparte europea), ma ci sarà bisogno di maggior coraggio e di alcune azioni concrete.
L’Italia è il Paese che ha più da perdere dall’instabilità libica e deve dunque dimostrare, qualora fosse necessario, di essere pronta ad intervenire anche sul campo, in accordo con Nazioni Unite, Unione Europea o NATO. La creazione di una forza di interposizione improntata sul modello UNIFIL libanese, d’altronde, è già stata presa in considerazione (anche se messa in standby dai vertici europei) e potrebbe rivelarsi, qualora riuscisse ad ottenere il benestare di tutti, una soluzione più efficace di collaborazione tra gli attori interessati.
Una coalizione militare (oltre che politica) sarebbe l’occasione per dimostrare sul serio l’intenzione di portare e garantire la pace nel Paese nordafricano. Ridimensionerebbe il ruolo di Russia e Turchia (che devono certamente essere coinvolti) e disincentiverebbe l’escalation del conflitto tra gli attori libici, costringendo le parti a sedersi insieme (una volta per tutte) al tavolo dei negoziati.
Fonte: http://polikos.it/geopolitica/2020/01/chi-decide-il-futuro-della-libia-2/
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