Le sfide di un comandante
da ANALISI DIFESA (Giorgio Battisti)
La guerra in Ucraina è il primo conflitto convenzionale e ad alta intensità combattuto sul continente europeo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
I combattimenti, che compaiono negli aggiornamenti informativi, nei video e nelle foto condivise sui social media, avvengono con modalità che non si vedevano da decenni (Guerra di Corea 1950 ÷ 1953 e Iraq – Iran 1980 ÷ 1988) e ai quali gli eserciti occidentali non sono più abituati e preparati ad affrontare: intenso e continuo fuoco di artiglieria, esteso ricorso alle fortificazioni campali con prolungata vita in trincea, attacchi aerei al suolo, scontri tra mezzi corazzati, accanite lotte per il controllo dei centri urbani, elevato tasso di perdite tra i reparti.
Un conflitto caratterizzato da dispositivi diradati sia per lunga linea di contatto (dai 1.500 ai 1.800 km a seconda delle fasi) sia per sfuggire alla ricognizione avversaria ed evitare l’individuazione (e la pronta neutralizzazione) delle proprie forze. Ciò anche per la variegata configurazione del “campo di battaglia”: ricoperto di foreste, punteggiato di numerosi insediamenti urbani, attraversato da numerosi corsi d’acqua e con estese pianure e aree boscose.
Tale situazione ha comportato maggiore autonomia d’impiego dei complessi pluriarma a livello battaglione (e inferiore) e richiesto – di conseguenza – ai comandanti di dover agire con maggiore indipendenza, flessibilità e adattamento alla realtà del momento e, soprattutto, avere un grande ascendente sui propri gregari.
L’intensità dei combattimenti, inoltre, ha provocato uno eccessivo logoramento nei reparti più esperti – schierati in prima linea – e in particolare dei comandanti di queste unità.
Fonti aperte, considerate attendibili, riportano la morte (dicembre 2022) di oltre 800 tenenti e capitani russi in Ucraina (non sono note le perdite ucraine che potrebbero risultare quanto meno simili) e se e si aggiungono i feriti è verosimile che la metà dei comandanti di compagnia più competenti non siano ora disponibili (J. Kaliberg, Leader Loss: Russian Junior Officer Casualties, Center for European Policy Analysis, December 23, 2022).
Le elevate perdite tra i comandanti con maggiore esperienza ha comportato, come avveniva nei due conflitti mondiali, la necessità di assegnare a giovani ufficiali incarichi di comando superiori al loro grado e preparazione, privando allo stesso tempo le compagnie di una leadership competente e motivata (RUSI, Preliminary Lessons in Conventional Warfighting from Russia’s Invasion of Ukraine: February – July 2022, 30 November 2022).
I leader a livello tattico sono essenziali per l’esecuzione delle operazioni in quanto coordinano il fuoco, il movimento e le unità di supporto, agevolati dai sistemi comando e controllo che consentono di trasmettere più velocemente le informazioni in senso verticale e orizzontale e di condividere la stessa visualizzazione del campo di battaglia.
Il comandante di compagnia, inoltre, è l’ufficiale più alto in grado che conosce ogni soldato del proprio reparto e dirige l’esecuzione di una missione con la sua presenza: l’assenza di una valida leadership tattica può portare a un aumento delle perdite in combattimento.
Uno scenario che ha determinato l’assunzione di accresciute responsabilità da parte dei giovani comandanti, sottoponendoli a un forte e continuo stress, dovendo prendere decisioni che incidono sulla condotta generale delle operazioni e allo stesso tempo cercare di esporre il meno possibile a rischi i militari alle proprie dipendenze.
Una realtà già emersa nelle operazioni di counterinsurgency, che lascia i comandanti il più possibile liberi di prendere decisioni in relazione al momento e alle necessità contingenti. Roger Trinquier, ufficiale francese con una grande esperienza coloniale, ha sottolineato negli anni Sessanta che la guerriglia è una guerra per Tenenti e Capitani.
Un dilemma che non trova risposta in una soluzione preconfezionata che fornisca la formula per imparare a gestire al meglio i momenti ad alta tensione emotiva. Non esistono manuali che insegnino a prendere la decisione giusta al momento opportuno, ma serve una combinazione di elementi quali intuito, esperienze personali, carattere e, come affermava Napoleone, un pizzico di fortuna: le dottrine da sole non fanno un guerriero!
Un comandante deve possedere la capacità di rendersi conto della situazione, la rapidità e la sicurezza nel decidere e la determinazione nel reagire nel modo più appropriato. Sono lo spirito e il carattere che Napoleone affermava dovesse avere un “uomo di guerra”.
Gli aspetti che consentono a un comandante di ridurre al massimo i fattori d’incertezza e aumentare la resistenza in condizioni limite sono individuabili nella formazione, nell’attribuzione dell’incarico, nella coesione del reparto e nella preparazione del personale alle dipendenze e nello stile di comando.
Formazione
I conflitti hanno subito importanti cambiamenti negli ultimi anni. Si sono estesi nel tempo, nello spazio e in profondità con molteplici attori (regolari, irregolari, criminali, terroristi, contractor, partigiani), che si contendono tutti e cinque i domini operativi (terrestre, marittimo, aereo, spaziale, cibernetico) e agiscono rapidamente e spesso simultaneamente.
Al giorno d’oggi, i comandanti sempre più spesso devono essere in grado di ricevere e analizzare una grande quantità d’informazioni, prendere rapidamente decisioni non standard e assumere l’iniziativa.
Il conflitto in Ucraina, ma già prima quello nel Nagorno Karabakh (settembre – novembre 2020), ha evidenziato la prioritaria necessità di assicurare ai giovani leader una preparazione superiore a quella dei loro colleghi impegnati in precedenti operazioni.
Un’esigenza già evidenziata in passato dal Generale Dwight D. Eisenhower (1890 – 1969), che affermava: Dobbiamo cercare persone che siano in grado di adattarsi al nuovo ambiente, di ampliare le proprie vedute in breve tempo e di assumersi le proprie responsabilità.
La formazione di un comandante, che lo prepari a un esercizio responsabile del proprio ruolo, è il risultato di un processo armonico basato su conoscenza, capacità di analisi e abilità, che aumenta d’intensità e di spessore con la progressione di carriera, e come affermava Napoleone dall’esperienza: […] la conoscenza degli aspetti più rilevanti della guerra può essere acquisita solo con l’esperienza, studiando la storia delle guerre e le battaglie dei grandi capitani. Impariamo dalla grammatica a comporre un canto dell’Iliade, una tragedia di Corneille?
Quattro sono i cardini sui quali imperniare la preparazione di un (combat) leader. Il primo, è la formazione valoriale. Il soldato è chiamato ad agire secondo un’etica peculiare che si traduce e interagisce con quelle di altre persone che possono non coincidere con le proprie. Questi valori di riferimento costituiscono la reale ricchezza umana della professione militare.
La maggior parte delle virtù che costituiscono il codice etico di un soldato sono racchiuse nella formula del giuramento, da cui discendono valori riconosciuti e comuni a tutti coloro che hanno scelto il mestiere delle armi: la disciplina, l’onore, il senso del dovere, la lealtà e lo spirito di corpo.
Il secondo, è la formazione rivolta al singolo individuo, che fa della centralità della persona un obiettivo costantemente perseguito; un modello educativo ove la coscienza dell’uomo (e della donna) è posta al centro della crescita morale e professionale, assicurandole il primato rispetto a ogni altra espressione della vita di gruppo.
Il terzo, è l’addestramento, che rappresenta una basilare funzione di comando; si distingue dalla formazione, sebbene ciascuna contenga elementi dell’altra.
Se la formazione è rivolta alla persona, l’addestramento si sviluppa in un ambito sia individuale sia collettivo. L’uno e l’altra, tendono a convergere e a sommarsi in un processo progressivo e articolato, fatto di esperienze “sul campo” e di studi professionali, che permette ai comandanti di acquisire e sviluppare competenza e padronanza nel gestire gli eventi.
Sir William Francis Butler (1838 – 1910), militare e politico britannico, ha scritto nelle sue memorie: “La nazione che insisterà nel tracciare una linea di demarcazione tra l’uomo che combatte e l’uomo che pensa, rischia di trovarsi a combattere con stolti e a pensare con codardi”. Il quarto, è la valutazione delle attività in fase condotta per trarre eventuali indicazioni da introdurre nel processo formativo.
Attribuzione dell’incarico
Ci sono doti innate che un leader possiede e altre, invece, che si possono costruire o sviluppare ma non tutti dispongono delle qualità per essere un buon comandante. La corretta assegnazione dell’incarico risulta determinante per disporre di comandanti che sappiano reagire “sul tamburo” nel modo più opportuno al manifestarsi di situazioni impreviste.
Una leadership in operazioni (battle command) che comprende due componenti vitali: la capacità di decidere e la capacità di guidare il proprio personale: entrambe richiedono fiducia in sé stessi, abilità, saggezza, esperienza e coraggio.
È diffusa in ambito militare una classificazione alquanto veritiera degli ufficiali in relazione ad alcune qualità che ne caratterizzano i comportamenti. Pare che il primo a coniare questa classificazione sia stato il generale tedesco Kurt von Hammerstein-Equord (1878-1943), che ricoprì nel periodo 1930-1933 l’incarico di Commander-in-Chief of the Reichswehr, anche se tale paternità è attribuita ad altri generali (H. M. Enzensberger, M. Chalmers: The Silences of Hammerstein, Seagull Books, 2009).
Egli divideva i suoi ufficiali in quattro categorie: gli intelligenti, gli stupidi, i volenterosi e i pigri. Ogni ufficiale, a suo dire, possiede almeno due di queste qualità.
Quelli intelligenti e volenterosi sono idonei a incarichi nello Stato Maggiore, perché aiutano il comandante a decidere bene (in quanto inclini al micromanage e alla ricerca dei dettagli). Gli stupidi e i pigri, che sono il 90% di ogni esercito, possono essere impiegati in compiti di routine.
L’uomo intelligente e pigro è adatto alle più alte funzioni di comando: ha il temperamento indispensabile per far fronte a tutte le circostanze e sa mantenere la calma e la freddezza necessarie a superare le crisi più difficili (l’intelligenza gli permette di definire esattamente cosa fare, mentre la pigrizia gli suggerisce di adottare la soluzione più semplice e meno complicata). Ma chi è contemporaneamente stupido e volenteroso costituisce un grave pericolo e deve essere immediatamente destituito!
Coesione
Lo spirito di corpo, legame che unisce i soldati di uno stesso gruppo, è il sentimento di fierezza di appartenere a una unità prestigiosa, dal passato ricco di tradizioni, di cui si è eredi e di cui non tutti possono farne parte. Ciò genera un senso di solidarietà e trova massima enfasi nella consapevolezza che dal comportamento del singolo può dipendere la sopravvivenza dell’intera compagine, ma anche l’assolvimento del compito assegnato e la credibilità del reparto.
Questo legame è la base della coesione che nasce tra individui accomunati dalle medesime difficoltà e rischi, che hanno perseguito gli stessi obiettivi e condiviso gli stessi sforzi, e che solo coloro che li hanno vissuti possono comprendere.
[…] Noi pochi, noi pochi felici, noi banda di fratelli:
perché chiunque ha versato il suo sangue insieme a me è mio fratello.
E quegli uomini che hanno avuto paura
si sentiranno inferiori quando sentiranno
come abbiamo combattuto e come siamo morti insieme.
(Discorso Marziale da “Enrico V” di Shakespeare)
L’addestramento e le esperienze comuni vissuti in combattimento permettono di sostenersi vicendevolmente e mantenere lo stato di coesione all’interno dell’unità in situazioni di pericolo. Il rapporto che si crea tra commilitoni e l’interdipendenza dei ruoli (in combattimento) sono le motivazioni che spingono i soldati a compiere atti coraggiosi.
Preparazione del personale alle dipendenze
Gli attuali scenari, caratterizzati da un ritorno del conflitto convenzionale, sono una “novità” inaspettata per le forze armate occidentali, che per vent’anni sono state impegnate in conflitti a “bassa intensità” in Afghanistan e in Iraq (e talvolta in prolungate attività in supporto alle Autorità di Pubblica Sicurezza, come in Italia e Francia).
Conclusasi la Guerra Fredda si è investito molto sulle Expeditionary Forces trascurando l’addestramento “classico” di arma/specialità e di cooperazione interarma e, ancora prima, dimenticando i “fondamentali” del soldato.
Il “campo di battaglia” è ora caratterizzato da alti livelli di volatilità, incertezza, complessità e ambiguità, contraddistinto da un modus operandi in cui l’uso della forza non è più limitato alla linea di contatto ma, grazie alle nuove tecnologie, si è esteso nello spazio e nella portata dell’offesa.
Una minaccia e nuove forme di lotta che richiedono al soldato di saper condurre azioni combat contro formazioni avversarie, garantire la libertà di movimento nelle retrovie e svolgere attività di assistenza a favore della popolazione civile.
A prescindere dai notevoli progressi tecnologici in campo bellico, la conduzione delle operazioni sarà sempre nelle mani dell’uomo (o della donna). Ciò significa che le azioni individuali, le carenze attitudinali, i limiti di rendimento e le diverse personalità continueranno a influenzare e determinare l’esito di un conflitto.
Il conflitto ucraino, oltre a evidenziare l’impellente necessità di acquisire il giusto equipaggiamento e disporre della giusta dottrina, richiede di svolgere un addestramento, dalla simulazione alle esercitazioni a fuoco, il più possibile realistico. Non ci sono surrogati tecnologici quando si tratta di addestrare, motivare e dirigere i propri soldati.
Tito Flavio Giuseppe, storico del I secolo d.C., asseriva: Essi (soldati delle legioni imperiali) si addestrano come se scendessero in battaglia e si preparano al combattimento come se stessero addestrandosi.
L’esercito britannico prevede l’utilizzo di un bunker protetto, chiamato Bomber OP (Observation Post), dove i militari sono sottoposti per ore al fuoco di artiglieria di vari calibri, affinché possano rendersi conto dell’effetto psicologico provocato da un prolungato bombardamento.
I Francesi avevano riscontrato nella Battaglia di Dien Bien Phu (Indocina 1954) che la guarnigione del caposaldo, che per anni aveva condotto solo operazioni di contro-guerriglia, non era più abituata a combattere e a tenere le posizioni sotto l’intenso fuoco dell’artiglieria Vietminh.
I militari devono quindi possedere una elevata robustezza fisica e mentale, la capacità di agire in terreni compartimentati e in condizioni climatiche avverse, e una spiccata mobilità e flessibilità, unite ad una grande dose di coraggio. Solo una solida formazione, finalizzata all’impiego, può consentire al personale di esprimere una professionalità concreta e di gestire eventi imprevisti e situazioni critiche in condizioni di larga autonomia, talvolta di vero e proprio isolamento, riducendo al minimo i margini di errore.
Karl von Clausewitz (1780 – 1831) affermava: “… sotto la pressione delle circostanze l’uomo è dominato assai più dai sentimenti che dal raziocinio.”
Molto spesso l’audacia dimostrata in combattimento è il frutto di una preparazione elevata, basata sulla fiducia nelle proprie capacità professionali, acquisita attraverso intensi e metodici cicli addestrativi, che porta l’individuo a reagire con automatismo quasi istintivo alle varie situazioni che può incontrare sul “campo di battaglia”.
Stile di comando
Lo stile di comando è l’espressione più completa dei modi comportamentali che concorrono a delineare il carattere distintivo della figura del comandante, nella quale si armonizzano le sue qualità individuali. Esso costituisce un’impronta irrinunciabile che, almeno in parte, deve trascendere dall’indole della persona, in quanto rappresenta una delle principali forme d’influenza nei confronti dei subordinati.
Il leader, soprattutto quello a livello tattico, deve comprendere le motivazioni dei propri uomini e donne, percepirne le attitudini e intuirne oltre le competenze professionali anche le potenzialità. Deve, inoltre, avere la capacità di stimolare e ascoltare i propri subalterni per ottenere i loro feedback in operazioni per migliorare la flessibilità d’impiego.
Egli deve essere in grado d’imporsi non solo (o non tanto) con l’autorità, il grado e la posizione ma con una qualità esclusiva: l’autorevolezza. Si tratta di quello che gli altri riconoscono in lui, fatto di iniziativa, spessore morale, etica, determinazione, fiducia e sacrificio.
Un insostituibile requisito dell’azione di comando è l’esempio, che dovrebbe essere il naturale corollario per tutti coloro che hanno scelto di essere comandanti, ed è la capacità di trasmettere le convinzioni che li guidano nelle loro scelte e li sostengono nei momenti di difficoltà, nonché la costanza di esercitare la pratica del dovere e di osservare le regole.
L’esempio è metodo, forma e sostanza insieme, ed è sicuramente più efficace e convincente di qualsiasi discorso, anche se incisivo, ricco di spunti di eloquenza e di contenuti interessanti.
[…] da noi nessuno riesce a esercitare il comando
se non ha conquistato la stima e il rispetto dei suoi uomini.
Non può dare ordini se prima non ha dimostrato di saperli eseguire,
né chiedere un sacrificio ai suoi soldati
se non ha mostrato per primo di saperne affrontare di più duri.
(Marcus Metellus Aquila, Comandante della II Legione Augusta, Legato dell’Imperatore L. Valeriano, 260 d.C.- Massimo Valerio Manfredi, L’Impero dei Draghi, 2005)
L’esempio porta a non chiedere ad altri quello che noi non faremmo, non chiedere ad altri quello che si dubita di fare, fare prima quello che si ordina ad altri di fare.
In una raccolta britannica di lettere dei primi anni dell’800, relativa al comportamento dei comandanti, è riportato: In situazioni particolarmente critiche, il soldato tende a interpretare l’espressione del volto del suo ufficiale. Se lo vede calmo e risoluto questo aumenterà la fiducia in sé stesso; al contrario, se scopre tratti d’insicurezza [nel suo comandante] sarà spaventato e demotivato a prescindere da qualunque cosa possa generare turbamento (The Military Mentor. Letters from a General Officer to His Son. R. Phillips, London 1809).
Per i comandanti delle unità coloniali italiane era considerato normale che il loro ruolo imponesse di rimanere in piedi sotto il fuoco avversario per essere d’esempio ai propri uomini (con elevata percentuale di perdite rispetto a quella degli ufficiali dei reparti nazionali).
Conclusioni
Un esercito efficiente è una struttura di consenso autoreferenziale basata su valori e tradizioni, addestramento e disciplina. La coercizione non basta a garantire l’obbedienza “sotto il fuoco” se non ci sono motivazioni quali la fratellanza d’armi a fronte di tutto il resto, la cultura dello spirito di corpo alimentata dalla forte aggregazione, la fedeltà alla parola data e il senso dell’onore.
Colui che compie un atto eccezionale ha come caratteristica il sentimento di appartenenza a un gruppo e la solidarietà con i compagni d’arme (si rischia la vita per fedeltà all’amico). In ogni conflitto, dall’antichità ad oggi, il coraggio è il requisito che consente a un militare di superare l’istinto naturale di conservazione e la paura di morire in combattimento per spingersi oltre il pericolo e raggiungere l’obiettivo.
È una disposizione d’animo che si manifesta con la propensione al rischio, la fiducia nella fortuna, l’audacia e la temerità; rappresenta la piena consapevolezza di quello che si sta facendo, acquisita attraverso le nozioni apprese e l’esperienza, ovviando agli imprevisti con lucidità: più un soldato è preparato, più si sente sicuro, anche se contano molto le doti personali.
Karl von Clausewitz affermava che Il coraggio è [anzitutto] la prima qualità dell’uomo di guerra.
Un comandante deve possedere la forza d’animo per affrontare tre tipi di coraggio: il coraggio fisico, che consente di superare i limiti della fatica, il coraggio morale, che permette di non soggiacere alla perdita della dignità, e il coraggio intellettuale, che costituisce la forza di esprimere (anche criticare) e sostenere il proprio pensiero in ogni situazione.
Lo stato emotivo è vitale per il soldato nei momenti di crisi, dove deve imparare a dominare la rabbia e la paura. Uno scarso autocontrollo delle proprie emozioni si riverbera in modo sensibile su tutte le altre capacità: il coraggio non è non aver paura, il coraggio è gestire la paura.
Virtù che hanno animato il Tenente dell’Esercito statunitense Andrew S. Rowan nel racconto “Un Messaggio per Garcia”, in occasione della guerra ispano-americana (1898), il quale rappresenta l’apologo dell’uomo che assolve bene il proprio compito, che ha spirito d’iniziativa, dedizione e senso del dovere e non mette in discussione gli ordini ricevuti (Elbert Hubbard, 1865-1915).
La capacità di leadership personale rimarrà essenziale anche nell’ipertecnologico XXI secolo e dovrà adattarsi al carattere evolutivo della guerra. Ciò comporta la necessità di aumentare la creatività e la libertà d’azione dei comandanti più giovani, che dovranno essere pronti ad affrontare scenari non previsti dai manuali, a prendere decisioni pragmatiche in condizioni d’incertezza e, soprattutto, ad evitare gli stereotipi cognitivi.
Dimentica tutto quello che hai imparato. In questa guerra si fa il contrario di quello che sta scritto nei regolamenti. Anzi, li si impara per fare esattamente il contrario. Così Jean Larteguy attribuisce la frase a un protagonista del suo romanzo “I Pretoriani” (1967), ambientato nella guerra d’Algeria (1954 – 1962).
In ogni caso non si avrà mai la certezza del comportamento di un comandante nel gestire le proprie emozioni in una situazione di stress: solo al momento della prova si avrà la conferma (o meno) delle sue doti di leadership!
Foto: Gian Micalessin, Ministero Difesa Ucraino, Ministero Difesa Russo, RIA Novosti e Telegram
FONTE: https://www.analisidifesa.it/2023/01/le-sfide-di-un-comandante/
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