Scontro Conte-regioni, il servizio sanitario torni ad essere nazionale
di STRISCIAROSSA (Pietro Greco)
Il caso più eclatante è quello del presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, che ha pensato bene di percorrere una strada tutta sua e prescrivere una lunga quarantena a tutti i lucani (con una particolare specifica per gli studenti) che rientrano in Lucania dopo aver soggiornato in qualche modo nelle regioni “infette” del Nord. Ma, in realtà, in questa emergenza da coronavirus le regioni italiane si comportano ciascuna nella maniera che crede. O, almeno, così denuncia il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Minacciando di togliere le deleghe in materia sanitaria ai venti enti territoriali.
Certo, c’è una evidente polemica politica in questo contenzioso. Ma questa polemica non potrebbe esistere senza un fondamento per così dire strutturale. Il Servizio Sanitario Nazionale è, ormai, la somma (e forse la sottrazione) di venti servizi sanitari regionali. Una situazione che la vicenda del virus Sars-CoV-2 sta rendendo eclatante, dimostrando la sua insostenibilità.
Venti modelli di sanità
Premessa, quando venne istituito, nel 1978, il Servizio Sanitario Nazionale costituì un enorme passo in avanti in tema di politica medica e di diritto alla salute. E, infatti, il Sistema Sanitario Italiano è risultato, anche di recente, uno dei migliori al mondo.
Il sistema si basa su un’articolazione delle competenze: allo stato compete definire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e, dunque, garantire un uguale diritto alla salute di tutti i cittadini italiani, alle regioni compete organizzare sul territorio che questo obiettivo venga raggiunto.
Detta in maniera meno burocratica, il sistema è diretto da venti (quelle regionali) più una (quella statale) teste. Tutto bene se tra i due livelli, quello nazionale e quello territoriale, funzionassero i meccanismi di raccordo. Tuttavia da alcuni anni a questa parte (almeno venticinque) le forze centrifughe stanno prevalendo sulle forze centripete. E ogni regione segue unmodello suo proprio. Abbiamo così il “modello lombardo” e in parte il “modello veneto” che puntano molte carte sul privato; quello “emiliano-romagnolo” e quello “toscano” che viceversa propongo modelli (altamente efficienti) fondati essenzialmente sul pubblico. Ci sono poi i modelli insufficienti, spesso largamente insufficienti – per tante cause, che non è qui il caso di analizzare – delle regioni del Mezzogiorno d’Italia.
Robin Hood al contrario
Un indicatore di queste diversità di fondo è il saldo della “migrazione dei pazienti”. O, più correttamente, il saldo dei valori della mobilità sanitaria. I cittadini del Sud emigrano verso le strutture sanitarie del Centro e soprattutto del Nord per farsi curare, nella convinzione che lì trovano livelli di assistenza decisamente superiore. E non per la qualità dei medici.
Morale: la regione Campania ha avuto un saldo netto negativo (insomma, ha dovuto sborsare) 323,4 milioni di euro per i cuoi cittadini che si sono fatti curare fuori altrove; la regione Calabria, 278,2 milioni di euro; la Sicilia 237,4: la Puglia 206,6. Un travaso netto di risorse monetarie dal Sud al Centro e al Nord, cui andrebbe aggiunto il saldo negativo delle cosiddette “risorse umane”, giovani meridionali laureati in medicina che vanno a cercare lavoro nel Settentrione. E, infatti, la Lombardia ha un saldo netto positivo nel bilancio della mobilità sanitaria di 804,6 milioni; l’Emilia Romagna di 302,4; la Toscana di 139,3; il Veneto di 138,2 milioni di euro.
Il Robin Hood al contrario della salute che sottrae quattrini ai poveri e li dona ai ricchi è uno dei fattori che determinano l’allargamento della forbice delle disuguaglianze di salute tra i cittadini del Sud, del Centro e del Nord. Un indicatore è la vita media diversificata in queste diverse aree.
Andrebbe, inoltre, analizzata la crescente disuguaglianza all’interno delle singole regioni. In molte le differenze tra chi può permettersi servizi privati e chi no sta tangibilmente aumentando.
Secondo molti esperti il Sistema Sanitario Nazionale non può reggere alle forze centrifughe che spingono venti diversi frammenti regionali a correre in direzioni diverse, talvolta opposte. Così rischia di perdere la sua qualità complessiva.
Non ce lo possiamo permettere. Non possiamo permettere che la sanità sia uno dei fattori che in Italia producono disuguaglianza dopo che, a partire dal 1978, ha prodotto un’integrazione a vantaggio di tutti. Non a caso la vita media in Italia è ancora tra le più alte del mondo.
Che fare, dunque?
Proviamo a lanciare una proposta che agli occhi di alcuni può sembrare una provocazione. Nuotiamo contro due flussi di corrente: quello che chiede una sempre maggiore presenza del privato, anche in sanità; quello che chiede una sempre maggiore autonomia delle regioni, anche in sanità.
È necessario recuperare lo spirito e la lettera della riforma del 1978 che portò all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Il che significa assicurare una omogeneità sempre più spinta nei Livelli Essenziali di Assistenza. Una omogeneità che solo una sanità nuovamente e pressoché integralmente in mano allo stato nazionale può assicurare.
Da troppi anni stiamo lasciando la via buona (il giudizio è dei massimi esperti internazionali) per quella meno buona. È ora di tornare indietro, prima che sia troppo tardi. È ora di tornare indietro prime che l’Italia sia divisa nei fatti dai confini di venti sistemi sanitari regionali.
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