Coronavirus. Chi è il vero nemico?
di SINISTRAINRETE (Carlo Formenti)
La crisi mondiale che stiamo affrontando ha una portata superiore persino a quella della grande crisi del 2008. Grazie alla lotta contro un nemico terribile stiamo riscoprendo un senso di solidarietà e uno spirito comunitario che negli ultimi decenni sembravano essere quasi del tutto spariti. Ma qual è la vera natura di questo nemico: siamo effettivamente di fronte a una minaccia puramente biologica, a una catastrofe naturale al pari di un terremoto, oppure la realtà è più complessa? Per sciogliere il dubbio occorre rispondere a tre domande: 1) da dove vengono le pandemie; 2) perché le reazioni a questa minaccia cambiano significativamente da un Paese all’altro; 3) se davvero, come molti dicono, dopo questa crisi nulla sarà come prima, cosa dobbiamo aspettarci dal futuro e soprattutto in che direzione dobbiamo lavorare perché si tratti di un futuro migliore.
- Da dove vengono le pandemie
Si dibatte sugli effetti economici dell’epidemia del covid19 ma nessuno ragiona seriamente su come simili eventi si producono. Ci si limita a prendere atto che si presentano ciclicamente, come le crisi economiche, con ritmi e modalità imprevedibili, e anche da questo punti di vista si evocano analogie con le crisi economiche. In realtà le relazioni fra i due ordini di fenomeni vanno al di là di una semplice analogia: infatti, se la “naturalizzazione” delle crisi economiche non può non apparire sospetta a chi non si accontenta delle narrazioni neoliberiste, nemmeno le pandemie andrebbero analizzate come eventi puramente biologici, privi di relazioni con il contesto socioeconomico in cui si sviluppano.
Assumere questo atteggiamento non significa stabilire una relazione causale meccanica fra modo di produzione capitalistico e pandemie, bensì indagare la dinamica dei rapporti fra sfera biologica e sfera socioeconomica, fra epidemiologia ed economia.
Partiamo dal fatto, tutt’altro che causale, che molte delle più recenti epidemie virali sono state etichettate con nomi di animali, come aviaria e suina. Questo perché erano il prodotto della trasmissione di un’infezione virale da una specie animale all’uomo (come quasi certamente è avvenuto con il covid19, anche se non è ancora chiaro da quale specie sia arrivato il contagio questa volta). L’evidenza empirica appena evidenziata suggerisce la necessità di indagare il nesso fra agri economia, urbanizzazione selvaggia provocata dall’attuale modo di produzione e pandemie virali. Alcuni autori (vedi i consigli di lettura a fine testo) distinguono, fra due possibilità: il virus nasce nel cuore stesso della produzione agro economica oppure nasce nel suo hinterland, cioè ai confini fra industrie agricole prive di regole e periferie degradate.
Nel primo caso, sono gli allevamenti di tipo iperintensivo in cui si ammassano grandi quantità di animali a stretto contatto reciproco e con difese immunitarie indebolite da condizioni igieniche, alimentazione, ecc. ad agire da incubatori, mentre i circuiti globali per la diffusione di merci e di forza lavoro diffondono rapidamente gli agenti patogeni, accelerandone le eventuali mutazioni adattative, che in alcuni casi possono selezionare le varianti più forti e aggressive. Nel secondo caso, invece, si tratta di un processo indiretto: la pressione della rendita capitalistica che si espande nei territori di confine con zone meno accessibili, fa in modo che gli le specie domestiche entrino in contatto con popolazioni selvatiche portatrici di virus sconosciuti, i quali entrano così nella catena del valore e vengono distribuiti nei circuiti del capitalismo globale. Detto altrimenti: la devastazione ecologica tende a ridurre le differenze e complessità ambientali che interrompevano le catene di trasmissione.
Dopodiché entrano in gioco quei fattori socioeconomici – sovraffollamento urbano, scarse condizioni igieniche, limiti e deficienze delle strutture sanitarie, ecc. – che fanno sì che a pagare il prezzo più alto siano sempre gli strati sociali più poveri (sui quali ricadono in maggiore misura anche gli effetti collaterali delle pandemie sul sistema economico). Un esempio tragico di tal senso aspetto risale alla pandemia del 1918 (la terrificante influenza spagnola che, secondo studi storici aggiornati, colpì un essere umano su tre e fece cinquanta milioni di vittime), un evento catastrofico in cui agli effetti della prima globalizzazione si sommarono quelli della Prima guerra mondiale.
Vediamo ora come, nel caso del covid19, queste catene causali interagiscono con gli equilibri dei sistemi geopolitico e socioeconomico globali.
- Immunità di gregge versus protezione dei cittadini
Con il termine immunità di gregge si intende l’idea secondo cui l’epidemia si risolve spontaneamente quando la maggioranza dei membri di una comunità ha contratto la malattia e ne è guarita, per cui ha acquisito l’immunità. Va in primo luogo ricordato che il coronavirus potrebbe smentire tale ipotesi, in quanto parrebbe trattarsi di una molecola in grado di mutare rapidamente (se fosse, come alcuni ipotizzano, una “nipote” della SARS, avrebbe rinnovato in pochi anni il 20% del proprio patrimonio genetico) per cui nessuno sarebbe al riparo da successive ondate. Ciò detto è evidente che chi assume si ispira a questa ipotesi per affrontare la sfida del covid19 dev’essere disposto a sacrificare un numero elevato di membri della propria comunità. Ciò non sembra tuttavia preoccupare alcuni esponenti di quelle élite occidentali che non sembrano avere reciso i legami con una visione politico-culturale che risale al malthusianesimo e al darwinismo sociale fra fine Ottocento e primo Novecento (ideologie che estendevano il principio del controllo della sovra popolazione e della selezione dei più adatti dalle comunità animali a quelle umane).
Quanto appena affermato trova conferma nel fatto che, a fronte delle misure draconiane di contenimento e controllo della diffusione epidemica adottate da Cina, Italia e, sia pure tardivamente, dalla Spagna, Germania e Francia hanno reagito in modo più blando e comunque con evidente ritardo, per tacere del fatto che la Merkel ha evocato la possibilità che il 70% dei tedeschi contragga il virus, il che sembra giustificare l’idea che, almeno inizialmente, non sia stata scartata la linea dell’immunità di gregge. Chi viceversa l’ha assunta senza riserve è Boris Johnson, il quale, seguendo i consigli di alcuni consulenti scientifici del suo governo si è lasciato andare a dichiarare che “molte famiglie perderanno i loro cari”, limitandosi ad invitare la popolazione a lavarsi spesso le mani, restare a casa una settimana se si ci si sente male e a evitare di uscire se si sono superati i sessant’anni. Ciò ha ovviamente indotto la gente a sottovalutare il rischio, come testimoniano le immagini di raduni di massa trasmesse dai media, mentre le attività economiche sono proseguite senza particolari limitazioni (business as usual) per alcuni giorni. Solo in seguito alle dure critiche subite e dall’aggravarsi della situazione, Johnson ha suggerito comportamenti più rigorosi, limitandosi tuttavia a “consigliarli”, senza imporli né rafforzarli con sanzioni (quasi a voler rimarcare la distanza fra il rispetto inglese della libertà individuale e l’autoritarismo “statalista” di altri Paesi).
Come si giustifica un simile atteggiamento? Paura che l’epidemia metta a nudo il tracollo di un sistema sanitario che è stato uno dei più ammirati al mondo prima di essere massacrato dai tagli decisi da conservatori e blairiani? Riemergere della tradizione culturale malthusiana e darwiniana sopra ricordata? Non solo, visto che alcuni quotidiani, fra cui l‘autorevole Times, hanno paragonato la cinica battuta di Johnson a quella di Churchill che prometteva sangue sudore a lacrime al suo popolo all’inizio della Seconda guerra mondiale. Parliamo di guerra dunque (e a usare questa parola non sono stati solo gli inglesi, ma anche Macron e molti altri), ma più che di guerra al virus, sembra trattarsi di guerra alle sue conseguenze per lo stile di vita e la ricchezza occidentali. Mentre la via cinese e la via italiana mettono al primo posto la tutela della vita di tutti i cittadini, anche a fronte del rischio di affrontare costi economici pesantissimi, la via inglese (e in minor misura quella tedesca, mentre la Francia sembra oscillare fra le due opzioni) assumono come prioritario l’obiettivo di salvaguardare l’economia “costi quel che costi” (vedi i 550 miliardi promessi dalla Merkel alle imprese tedesche che, per inciso, segna la crisi, se non la fine, della filosofia austeritaria ispirata alle teorie ordoliberiste) accettando di pagare un prezzo pesante in termini di vite umane, con il “vantaggio” che queste vite sono soprattutto quelle degli anziani, i quali non solo sono improduttivi ma pesano sul bilancio pubblico con le loro pensioni, esigenze sanitarie e altre voci di welfare. Riassumendo: la timidezza ed eccessiva gradualità delle misure prese fino ad ora, chiusura selettiva di frontiere, ‘raccomandazioni’, rinvii di manifestazioni, etc. per Paesi che sono a pochi giorni di distanza nella curva epidemiologica dalla Lombardia, mostra l’incertezza strategica nella designazione del vero nemico principale: è il virus o sono le sue conseguenze per la posizione di potere del Paese? Chi sceglie il virus è nella prima via, chi sceglie i suoi “effetti collaterali” è nella seconda via. Di più: la seconda via comporta implicitamente una vera e propria guerra economica nei confronti delle nazioni e dei popoli che scelgono la prima, in quanto spera di acquisire vantaggi competitivi nei loro confronti, sfruttandone le probabili recessioni e magari inducendoli a chiedere “aiuti” che li ridurrebbero a semicolonie dei vincitori (vedi in merito la cosiddetta “gaffe” di Christine Lagarde, la quale ha dichiarato che non è affare della Bce occuparsi dei problemi di spread di questo o quel Paese dell’Unione monetaria).
Certo il ragionamento è cinico (ma la natura criminale del sistema capitalista dovrebbe ormai essere chiara a tutti) e nel caso dell’Italia, se il nostro Paese restasse sotto la guida di forze politiche come quelle che attualmente lo governano (per tacere delle opposizioni) potrebbe anche funzionare. Diverso il caso della Cina, la quale uscirà ulteriormente rafforzata da questa prova, dal momento che avrà guadagnato in consenso e compattezza sociale quanto avrà perso in punti di Pil, questo perché, sulla lunga distanza, la forza della comunità si rivela sempre maggiore delle motivazioni individuali. Quindi il rinnovato senso di appartenenza comunitaria che anche noi italiani ci stiamo dimostrando capaci di recuperare, dovrà essere sfruttato per imprimere alla nostra storia una torsione che ci allontani dalla celebrazione del binomio guerra-concorrenza che inspira le culture liberal liberiste. E questo ci porta alla domanda: quale futuro dobbiamo auspicare per il dopo crisi?
- Una crisi epocale
Nulla sarà come prima. Può sembrare un luogo comune, ma in effetti siamo di fronte a un evento che promette di essere più devastante della crisi del 2008. Una cosa è infatti la rabbia dei milioni di cittadini occidentali costretti a pagare di tasca propria le criminali speculazioni di banche “troppo grandi per essere lasciate fallire”; altra cosa è ritrovarsi esposti alla minaccia di una pandemia che rischia di provocare migliaia di morti e di lasciarsi alle spalle milioni di disoccupati. Per tacere del fatto di vedersi costretti a provare sulla propria pelle gli effetti dei decenni di privatizzazioni e di tagli alla spesa pubblica che hanno colpito con particolare ferocia le strutture e la forza lavoro (oggi ipocritamente santificata) del sistema sanitario. Il Coronavirus potrebbe rivelarsi un potente strumento per delegittimare la narrazione neoliberista, per mettere a nudo il volto feroce di una globalizzazione che, da un lato, “mette in comune” virus, disastri ambientali, milioni di lavoratori senza diritti sradicati dai loro luoghi nativi, immiserimento delle classi subalterne, dall’altro, concentra nelle mani di pochi privilegiati poderose risorse economiche e le armi politiche, tecnologiche e mediatiche per garantirne il controllo e il possesso.
Infine, milioni di cittadini occidentali hanno avuto modo di mettere a confronto il modello cinese con quello che ci viene quotidianamente proposto dagli apologeti della Ue. Certo la Cina non è un Paese socialista nel senso tradizionale del termine, ma certamente è un Paese in cui permane un vasto sistema produttivo pubblico e in cui banche e servizi sociali fondamentali restano sotto il controllo dello Stato, ed è un Paese in cui anche le forze di mercato, ancorché in costante crescita, vengono indirizzate verso obiettivi ispirati agli interessi nazionali e della maggioranza della popolazione. Questo sistema si è rivelato di grande efficienza nel far fronte alla minaccia del virus riuscendo a controllarne i ritmi di diffusione in meno di due mesi. Qui in Italia si è preso atto con ritardo (e non senza dover superare forti resistenze dettate dalle preoccupazioni di ledere interessi economici, ovviamente spacciate per preoccupazioni di non limitare le libertà individuali) che per salvare le vite dei cittadini occorreva rallentare o addirittura bloccare tutte le attività e i comportamenti che le esponevano a gravi rischi. Mentre gli altri Paesi occidentali, come ricordato sopra, persistono nell’assumere comportamenti che costeranno migliaia di vite.
Da un lato, un’economia programmata che disponeva delle informazioni e dei mezzi di comando e controllo indispensabili per agire tempestivamente, mettendo al primo posto la salute dei cittadini. Dall’altro lato, un’economia governata dagli interessi privati dei grandi gruppi finanziari e industriali, una società che decenni di lavaggio del cervello hanno disintegrato in una miriade di atomi individuali, incapaci di concepirsi come comunità e di riconoscere il bene comune, in cui la propaganda delle élite dominanti ha demonizzato tutto ciò che riguarda lo Stato (per tacere di ogni idea che evochi lo spettro del socialismo). Un sistema economico e sociale che trova la sua massima espressione in quell’Unione europea che, dopo avere blaterato contro la minaccia sovranista, ci lesina gli aiuti (facendoci capire che li avremo solo pagandoli a caro prezzo) nel momento di massimo pericolo (persino aiuti immediati ed essenziali come mascherine e respiratori ci sono giunti dalla Cina piuttosto che dagli “amici” europei).
Nulla sarà come prima. La gente, di fronte a temi come i nuovi vincoli comunitari imposti dal Mes, alle rivendicazioni di ulteriori autonomie regionali (mentre la crisi ci ha insegnato quali disastri genera il mancato coordinamento fra Stato e regioni), all’esigenza di ridisegnare il sistema sanitario dopo lo sconcio che ha subito a causa di tagli e privatizzazioni (e più in generale alla necessità di ripensare dalle radici il ruolo dello Stato nel governo dell’economia e delle relazioni sociali), sarà auspicabilmente più ricettiva nei confronti dei discorsi che rivendicano la sovranità nazionale, democratica e monetaria del nostro Paese, come sarà più ricettiva nei confronti di chi invita a riconsiderare la possibilità che il socialismo del XXI secolo possa rappresentare un’alternativa tanto auspicabile quanto necessaria, al regime neoliberista, in quanto capace di restituire a tutti sicurezza, una vita dignitosa e la speranza di un futuro accettabile.
Gli scioperi spontanei indetti negli ultimi giorni dai lavoratori che rifiutano il ruolo di “carne da cannone”, da sacrificare sull’altare di una produzione incapace di offrire loro condizioni minime di sicurezza, sono un primo segno di risveglio delle nostre classi subalterne, i semi di una coscienza embrionale che potrebbe crescere fino a tradursi nel rifiuto di nuovi tagli alla spesa pubblica delle privatizzazioni, del separatismo dei ricchi predicato da certi governi regionali, e della svendita degli interessi nazionali sull’altare di un’Europa a conduzione franco-tedesca priva di ogni legittimazione democratica.
Per compiere questo salto, occorre però far nascere un nuovo soggetto politico capace di rappresentare gli interessi dei molti contro quelli di infime minoranze, e di costruire un programma di transizione verso un nuovo sistema economico, politico e sociale.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/societa/17247-carlo-formenti-coronavirus-chi-e-il-vero-nemico.html
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