di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
Il leader dell’attuale maggior partito di opposizione, destinato nei sondaggi ad assurgere a primo partito alle prossime elezioni, si produce in una dichiarazione in cui, chiaramente, il neo-liberismo, (forse a sua insaputa), si esprime tipicamente nel modo dissimulato che caratterizza la sua forza comunicativa nell’era €uropeista: cioè, nel proporre come innovative idee che sono la consueta e suggestiva cosmesi ripropositiva di quelle vecchie, e restauratrici, del capitalismo sfrenato.
2. Le dichiarazioni in questione si basano su due proposizioni di principio essenziali:
a) «Difendere il lavoratore significa anche promuovere forme nuove di democrazia e partecipazione sui luoghi di produzione, tagliando al tempo stesso i vecchi privilegi e le incrostazioni di potere del sindacato tradizionale»
b) «La presenza e l’incidenza del lavoratore nella governance della propria impresa va disintermediata»
Il Corsera, nel riportare la notizia, segnala subito una precedente presa di posizione, coerente e complementare, del 2013: «
Eliminiamo i sindacati — diceva nel 2013 a Brindisi durante il suo Tsunami tour —
che sono una struttura vecchia come i partiti politici. Non c’è più bisogno di loro, le aziende devono essere di chi lavora».
3. Mettendo insieme questi principi emergerebbe questo schema fondamentale: poiché il sindacato si caratterizza(va) come organizzazione che trascende la singola azienda e propone soluzioni “collettive” estese a interi settori economici di contrattazione (appunto sindacale e perciò “collettiva”), e poiché questo tipo di azione esige un apparato che non è determinabile completamente dalla volontà dei singoli lavoratori di ciascuna azienda, limitiamo questa gestione accentrata e di settore a favore di un’azione di diretta partecipazione dei singoli lavoratori (parla infatti di “disintermediazione della presenza e incidenza del lavoratore“) alla governance della propria azienda.
Nell’antecedente del 2013 parrebbe altresì che questo sarebbe da accompagnare con un riassetto della proprietà delle imprese – che, rammentiamo, sono normalmente in forma societaria e, sempre più (nell’ambito della “ristrutturazione” propria delle politiche €uropee), di dimensioni tali da implicare un capitale (in azioni o quote) di cospicuo ammontare finanziario,
seppure depresso nei valori dalla continua crisi indotta dall’austerità fiscale.
4. Insomma, la condivisione della governance, cioè dei poteri effettivi di indirizzo e gestione aziendale, significa normalmente compartecipazione al capitale, cioè proprietà di quote significative – cioè tali da garantire la partecipazione alla maggioranza di controllo- di esso da parte di chi compone la governance.
Ma è pensabile che il controllore nazionale, o, sempre più, estero, del capitale, sia disposto a cedere una parte della partecipazione di controllo che caratterizza la convenienza stessa del suo investimento?
Ed è poi pensabile che i lavoratori di una singola unità aziendale possano mai disporre del risparmio in misura tale da divenire compartecipi di controllo del capitale sociale, quando a malapena le retribuzioni attuali tendono a quel “livello di sussistenza” che è proprio della teoria del valore neoliberista mai come ora in auge?
5. Potrebbe ipotizzarsi che la dichiarazione attuale alludesse all’attuazione, in realtà finora mancata, dell’art.46 Cost.:
“Ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende“.
Ma, anzitutto, se così fosse, ci sarebbe stata una opportuna, se non ovvia, citazione della base costituzionale del principio che si voleva affermare; ma questo richiamo è mancato del tutto.
E la cosa non sorprende poiché la Costituzione economica, nei suoi precetti specifici e nel suo senso sistematico complessivo, come sappiamo,
è esattamente ciò che il paradigma €uropeo ha posto in stato di sospensione sine die, sicché l’intera politica rappresentata in parlamento, da anni, si fa un vanto di considerarla un orpello del passato e fa a gara nel disapplicarla in nome dei principi supremi dei trattati: liberalizzazione&privatizzazione e flessibilizzazione del lavoro-merce.
6. Ma ciò che esclude un’allusione alla previsione costituzionale è la connessione con la “eliminazione” dei sindacati: queste strutture “vecchie”, che accumulano “privilegi” e “incrostano” il mercato del lavoro, con la loro azione in sede contrattuale collettiva e di tutela sulla sua applicazione, sono in realtà considerate, dalla stessa Costituzione, cumulativamente applicabili insieme con l’art.46.
La partecipazione alla gestione dell’azienza, nelle modalità che leggi specifiche possono prevedere, è uno strumento in più, aggiuntivo rispetto all’azione sindacale, di “elevazione economica e sociale del lavoro”, non l’unico ammissibile dalla “modernità” dell’ordine del mercato e della globalizzazione.
Ora, poiché il sindacato, il contratto collettivo, la vigilanza organizzata e stabile della sua applicazione, sono strumenti di tutela che i lavoratori hanno prodotto da soli, spinti dalla fame e dalla disperazione, come reazione alla pressione aggressiva dei proprietari dei mezzi di produzione, per poter arrivare ad avere “un’esistenza libera e dignitosa” (art.36 Cost.: legata alla condizione del lavoratore, non a quella di disoccupato provocata dalla flessibilizzazione totale del lavoro), la disattivazione dell’organizzazione sindacale e la concessione di una governance partecipata, ma senza la possibilità realistica di accesso alla proprietà del capitale, non paiono poter essere il prodotto spontaneo della volontà della classe lavoratrice.
7. Piuttosto, la soluzione risulta, inevitabilmente, ascrivibile agli interessi della controparte, cioè della proprietà del capitale:
intanto si elimini l’influenza del sindacato nei rapporti d’impresa (e la precarizzazione creata, ormai definitivamente, dalle riforme del lavoro e dalla liberalizzazione del capitale già, nei fatti, hanno in gran parte prodotto questo
effetto, voluto, come evidenziava Galbraith);
poi, magari si faranno dei referendum per ratificare scelte già operate da chi gestisce effettivamente l’azienda.
Insomma, il quesito tipico, ogni quesito, sarà sempre accompagnato da un’alternativa, la prima delle quali è fissa ed immutabile e la seconda una domanda retorica che vincola la risposta:
“…sapendo che l’alternativa è la chiusura dell’azienda e/o il licenziamento (parte fissa ed immutabile), volete voi liberamente decidere di…Es; aumentare gli orari di lavoro oltre i limiti stabiliti nel contratto di lavoro, o lavorare nei giorni festivi, ovvero accettare di lavorare in un’unità produttiva ubicata a grande distanza da quella presso cui si è stati assunti, o essere assunti, con un contratto ad inquadramento e retribuzione deteriori, presso un’altra impresa a cui viene esternalizzata parte della produzione?”
8. In fondo, Grillo, mostra di avere una maggior efficienza nel propugnare gli stessi effetti finali senza doversi sobbarcare di complesse analisi della obsolescenza del quadro costituzionale sulla tutela del lavoro e della “necessità” di evolvere l’applicazione dei trattati verso il massimo predominio del sacro principio della libera concorrenza che, naturalmente, avvantaggia “gli interessi dei consumatori e utenti“, senza avere “il difetto di considerare gli interessi dei lavoratori” (! Sic).
In sostanza, non riuscendosi ad immaginare un diverso esito del modello che deriverebbe dalla “dichiarazione” in questione, si tratterebbe di
ampliare la flessibilizzazione del lavoro, cioè la deriva neo-liberista propugnata dall’€uropa come realizzazione della piena concorrenza, benefica per “
utenti & consumatori“, (ma specialmente per i profitti del capitale finanziarizzato), sfruttando il fastidio e l’ondata di disaffezione moralistica che investono il sindacato allorché rimanga in mezzo al guado di una restaurata società ordoliberista e, perciò, la sua azione perda di pratica efficacia e divenga una semplice agonia tesa, miopemente, all’autoconservazione.
9. Insomma, ai fini pratici e prevedibili, la dichiarazione contro il “vecchio” sindacato appare l’inevitabile liquidazione finale di organismi che traevano la loro legittimazione all’interno della Repubblica democratica fondata sul lavoro: simul stabunt simul cadent.
Con l’€uropa, prima o poi, questa caduta definitiva doveva verificarsi.
E quindi espelliamo un sindacato, ormai (auto)neutralizzato dai nuovi rapporti di forza, dal suo ruolo di difesa dell’occupazione e della retribuzione, obiettivamente superato dalle dinamiche concorrenziali che si gestiscono a livello “micro”, nelle singole unità produttive: meglio se svolge un ruolo consultivo residuale e di bandiera, sempre più caratterizzato da un pallido quanto inutile burocratismo, che ne contrassegnerà la progressiva estinzione.
Un risultato di tutto riguardo che anzitutto è imputabile alla “incomprensione”…incomprensibile dei trattati da parte dei sindacati e che poi, non può non condurre all’arrivo di un “nuovo” restauratore del libero mercato, con annessi referendum aziendali a risposte vincolate…dal paradigma €uropeo.
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