Il petrolio è caduto
da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Emanuel Pietrobon)
L’oro nero ora è cenere, ma la vera vittima è la globalizzazione.
Ore 20,30 del 20 aprile 2020, una data memorabile che è già entrata nella storia. La versione lunga è che la pandemia ha causato un’incredibile contrazione della domanda di energia, avvenuta sullo sfondo dello scontro russo-saudita sul greggio e della saturazione delle riserve strategiche, che infine ha portato ad un risultato tremendamente (in)atteso: gli operatori sulla piattaforma Nymex, il principale mercato mondiale di riferimento per opzioni e contratti a termine standardizzati (futures), hanno finalizzato una consegna di WTI (il petrolio made in Texas, che è il riferimento per il mercato statunitense) per maggio al prezzo di -37,63 dollari, il prezzo più basso mai registrato. Secondo Bloomberg, però, a giugno dovremmo assistere ad un recupero del prezzo al barile.
La versione corta è che il petrolio è caduto. Il baricentro dell’ordine economico internazionale, l’instrumentum regni dei giganti dell’energia è caduto sotto i colpi del contagio, l’ultima vittima eccellente mietuta dal Covid-19. È interessante notare come ciò sia accaduto nonostante i tentativi frenetici dell’amministrazione Trump di mediare fra Mosca e Riyad, il cui scontro a distanza minava la stabilità del prezzo dell’oro nero e, indirettamente, anche Washington, e nonostante le continue rassicurazioni fatte a mercati e investitori. Nulla è servito, il petrolio è caduto.
Mentre la finanza alterna momenti di panico e lucidità, necessaria quest’ultima per non far implodere l’intero mercato energetico, la globalizzazione nella quale siamo stati cresciuti e allevati dimostra giorno dopo giorno di essere giunta al capolinea. È un semplice dato di fatto, è un modello insostenibile: troppi conflitti inanellati fra loro, troppe schegge impazzite e squali impegnati in azioni speculative che colpendo l’angolo più remoto del pianeta hanno comunque effetti anche nella City di Londra. L’interdipendenza portata agli estremi si è rivelata controproducente: le economie del globo non sono più stabili, ma vulnerabili come mai prima d’ora. E mentre l’oro nero diventa cenere, che i produttori pagano per smaltire al miglior offerente, un nuovo modello di globalizzazione avanza, ma per ora possiamo solo intravederne i contorni.
La pandemia sposta e crea nuovi equilibri, e mentre le economie occidentali rispolverano vecchie politiche considerate folli, come l’autofinanziamento attraverso la creazione di denaro contante, incamminandosi su strade mai percorse fino ad oggi, come quella del lancio di soldi dall’elicottero (helicopter money), il liberismo cade a pezzi. Nel mondo che verrà non ci sarà spazio per l’apertura, e saranno condannati all’oblio coloro che persisteranno nell’esternalizzare funzioni e mansioni, nel delocalizzare all’estero le produzioni strategiche, nel cedere i campioni nazionali, nell’affidarsi al mito del vantaggio comparato, continuando ad importare in luogo di produrre in casa.
Trump ha segnato l’inizio di un nuovo capitolo delle relazioni internazionali e il Covid-19 sta proseguendo la sua scrittura. È un capitolo denso di politica da stadio, muscolarismi a volte insensati, medievalizzazione dei conflitti, ma anche di eventi spartiacque: lo scoppio della guerra fredda fra Stati Uniti e Cina, che aleggiava nelle menti dei grandi politologi da decenni, l’assassinio impunito di un uomo di stato, ossia il generale Qassem Soleimani, il designamento di un capo di stato come narco-terrorista, ossia Nicolas Maduro, la pandemia, la caduta del petrolio.
Fra gli eventi spartiacque vi è anche, appunto, il ripensamento della globalizzazione. Sullo sfondo di tutti questi fatti, l’economia statunitense è sempre meno dipendente da quella cinese, idem quella europea, che si avvia a diventare un tutt’uno con la casa madre, Washington. Anche gli altri grandi giocatori del teatro internazionale, come il Giappone e l’India, hanno colto il messaggio: il primo ha annunciato un pacchetto di incentivi per tutte quelle corporazioni che ri-localizzeranno le produzioni da Pechino a Tokyo, mentre la seconda ha introdotto in questi giorni uno scudo protettivo teso a troncare gli investimenti stranieri diretti provenienti dalla Cina per proteggere i campioni nazionali da possibili speculazioni.
Il disaccoppiamento è in pieno svolgimento, ed ogni punto concorre a formare un disegno più ampio. Contrariamente a quanto si pensa in genere, il disaccoppiamento non è qualcosa che riguarda la semplice sfera economica. Infatti, economia e politica sono inevitabilmente e naturalmente legati. Il disaccoppiamento è anche politico: la Cina non soltanto ha smesso di essere un partner commerciale affidabile, ma ha anche smesso di essere un collaboratore diplomatico, un nemico all’improvviso.
Sembra che fino a ieri fosse sconosciuta la natura dittatoriale del regime comunista costruito da Mao Tse Tung nel lontano 1949, che sia stata scoperta soltanto in questi mesi, grazie agli uiguri e all’amministrazione Trump. Certamente, la globalizzazione del mondo nuovo sarà esiziale per la Cina e per tutti quei paesi che hanno costruito le loro fortune sull’esportazione, vivendo della rendita garantita dal capitale straniero.
Ma la neo-globalizzazione potrà rivelarsi anche un’occasione irripetibile per ripartire da zero e seppellire la post-modernità economicista, riscoprendo il valore dell’autosufficienza autarchica e delle risorse nazionali. Lo faranno indubbiamente le potenze più lungimiranti, realmente imperiali, come gli Stati Uniti ed il Giappone, ad esempio, mentre è estremamente improbabile che l’opportunità sarà colta da potenze in declino, al crepuscolo, prossime alla scomparsa dai libri di storia, come l’Italia.
Fonte: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/esteri-3/il-petrolio-e-caduto/
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