Chi paga il conto della crisi? La soluzione della Bce francese. Ma se domani Karlsruhe dicesse Nein?
da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Musso)
“È certo che esiste un modo di dire meraviglioso al mondo da 2000 anni: “ultra posse nemo obligatur”. E dove l’ultra posse sia, questo lo si decide da soli”. Il cancelliere Helmut Schmidt al presidente della Bundesbank Otmar Emminger (30 novembre 1978).
La crisi che ci assale. La crisi economica che ci assale, non è né di offerta, né di domanda: essa deriva essenzialmente dalla decisione dello Stato di imporre la brutale chiusura di intere sezioni dell’apparato produttivo. Spiega Laurent Cordonnier su Le Monde Diplomatique. Alla domanda “chi pagherà?”, parte della risposta è già sotto i nostri occhi: lavoratori ed imprese, i redditi dei quali sono diminuiti o sono scomparsi. Ma impedendo brutalmente ai propri Sudditi di lavorare, lo Stato nega pure a se stesso di incassare le relative tasse.
E, siccome la responsabilità non è di altri che sua, lo Stato sarebbe tenuto a rimborsare i danni inflitti, per via di sussidi in varia natura oggi, di ricapitalizzazioni (che possiamo decidere se chiamare, o no, nazionalizzazioni) domani.
Siccome il bilancio dello Stato è un bilancio per cassa, la crisi degli incassi e la montata degli esborsi non possono che causare la montata del debito pubblico. Per questa eredità, “chi pagherà?”.
Il mercato finanziario no. È bastata la reazione ad una frase della presidente Bce (“we are not here to close the spreads”) per chiudere il dibattito. Allora chi?
La Francia discute. Jean Tirole, il premio Nobel francese, propone quattro alternative.
Prima alternativa, il ripudio del debito. Ma impedirebbe allo Stato di emettere nuove obbligazioni, costringendolo a vivere in regime di pareggio di bilancio, impossibile in tempo di crisi. Aggiungiamo che comporterebbe il fallimento di tutte le banche dunque, ipso facto, il bail-in di massa. Un doppio effetto recessivo che è il contrario di quanto necessita.
Seconda, la “solidarietà europea”. Ma Tirole avvisa che non esiste. Successivamente alla pubblicazione dell’articolo si è assistito all’aborto del Recovery Fund (in ultimo ridotto alla miseria di 320 miliardi per l’intera Ue e declassato a capitolo del bilancio, tanto da venire presto ribattezzato “Iniziativa”), a proposito del quale l’umana pietà nei confronti di Conte e Gualtieri suggerisce di tacere.
Terza, la monetizzazione del debito. Bce acquista le emissioni del Tesoro e le rinnova a scadenza indefinitamente. Aggiungiamo che gli interessi pagati sono ritornati, in forma di dividendo, agli Stati debitori dalla Banca centrale creditrice ma che è sempre lo Stato: una semplice partita di giro, che rende inutile la variante brutalista della cancellazione dei debiti/crediti incrociati. Tirole ha cura di sottolineare che è la soluzione che preferisce. Che la sa incompatibile con il Trattato europeo, ma lo stesso spera di convincere i tedeschi ad ingoiarla. Questa terza è certamente la soluzione francese, come conferma Alain Minc, apparentemente più deciso di Tirole nel negare qualsiasi rischio di inflazione nel breve, anche se entrambi la accettano nel medio termine: Tirole, perché la sa costante storica degli Stati che escono da grandi shock, Minc per via della indisciplina di politica fiscale che la monetizzazione potenzialmente indurrebbe. Lo stesso, Minc giudica di poter convincere “nos partenaires les Allemands”, con un argomento semplice, che tradotto suona: TINA – There is No Alternative.
Quarta, la patrimoniale, pure nella alternativa forma del prestito forzoso. Sulla quale Tirole ha cura di sottolineare che, per far fronte alle forti necessità delle finanze pubbliche, si applicherebbe pure alle classi medie. Nonché di specificare che “sarebbe particolarmente delicata nella zona euro. Richiederebbe un accordo tra i Paesi sul livello di repressione finanziaria consentita in ciascun Paese”. Tradotto, implicherebbe un preliminare accordo con Bce sull’imposizione del controllo movimenti capitali, e ciò gli appare “particolarmente delicato”. Quest’ultima obiezione ci pare di poterla respingere: sappiamo che questa è la soluzione che vorrebbe imporci la Germania, attraverso la Troika, dunque ci pare evidente che la Germania abbia già accettato un adeguato livello di repressione finanziaria per l’Italia.
A Tirole fa fedele eco Patrick Artus, nella sua rubrica su Le Monde, molto seguita.
Così si dibatte in Francia.
La Bce francese. In Italia, nel frattempo, il governo seguita ad aggrapparsi alla patetica speranza di un “Mes senza condizionalità” che spalanchi le porte ad un “OMT illimitato”.
Dibattito spazzato via dalla Lagarde, giovedì, con due perentorie affermazioni. Uno, “lo OMT fu creato nel 2012, chiaramente il Paese richiedente doveva essere sottoposto ad un programma Mes che aveva condizionalità”; ergo, no condizionalità, no OMT..
Due, “non c’è mai stato un trigger automatico per l’OMT. Il consiglio direttivo deve valutare l’esistenza di una chiara giustificazione e obiettivo della politica monetaria”, la quale sussisteva allora, perché il rischio era asimmetrico (riguardava singoli Paesi), ma “non stiamo più affrontando quella situazione”; oggi, “siamo di fronte a una situazione nella quale non è un singolo Paese ma sono tutti i Paesi, nella quale si tratta di uno shock globale che si applica in modo molto simmetrico”. Conclusione della Lagarde, “data la simmetria dello shock, chiaramente il Programma di acquisto di emergenza pandemica è stato progettato specificamente a tal fine”, “davvero lo strumento migliore che abbiamo nella nostra cassetta degli attrezzi è il PEPP”.
Bce ha, quindi, molto chiaramente preso partito contro la quarta alternativa indicata da Tirole (il Mes, cioè la patrimoniale) ed a favore della terza alternativa indicata da Tirole (la monetizzazione del debito).
Berlino all’assalto della Bce francese. Problema: la monetizzazione del debito non è omogenea. Bce, cioè, non distribuisce i propri acquisti fra i Paesi proporzionalmente al loro peso economico (il cosiddetto “capital key”), bensì sovrappesa pesantemente i Btp italiani, un poco pure gli Oat francesi, mentre sottopesa i Bund tedeschi. In misura massiccia, secondo le stime, anche se numeri certi ancora non ve n’è.
È questa la “flexibility”, la flessibilità, continuamente evocata dalla Lagarde. Teorizzata dal capo economista Bce, Philip Lane: durante una crisi, i capitali si rifugiano verso i Paesi a maggior rating, “a causa dell’alta sostituibilità tra i mercati delle obbligazioni sovrane in assenza di rischio valutario” (cioè della libera circolazione dei capitali e dell’esistenza stessa dell’Euro), indipendentemente dal fatto che la crisi abbia una causa esterna, non attribuibile al Paese che subisce la fuga dei capitali, quindi è risolvibile solo dalla banca centrale.
I tedeschi, naturalmente, non sono d’accordo: la crisi è “simmetrica” – dicono – perché, della fuga dei capitali, alcuni Paesi godono, non tutti la subiscono. Essa ha una causa interna, interamente attribuibile al Paese che subisce la fuga dei capitali, quindi è risolvibile solo da una bella Troika. Posizione impersonificata dal ministro olandese Wopke Hoekstra, che proponeva di rispondere alla pandemia di coronavirus con una inchiesta sul perché certi Paesi non avessero abbastanza soldi da spendere.
I tedeschi lamentano, inoltre, come gli acquisti di Btp vengano effettuati (già col QE, ma così pure col PEPP) solo per l’80 per cento da Bankitalia, ma per il restante 20 direttamente da Bce. Di quest’ultima è socia Bundesbank che, quindi, sopporterebbe una parte delle eventuali perdite. È un modo di guardare alle banche centrali, non monetario ma patrimoniale; di considerarle, in altre parole, come dei meri gestori di portafoglio: come un qualunque fondo sovrano. E non dovrebbe avere cittadinanza nel dibattito. Però lo ha, perché l’intera classe dirigente tedesca lo agita di fronte al proprio pubblico, incessantemente fin dalla fondazione dell’Euro, al fine meramente strumentale di condizionare le politiche monetarie, senza riguardo alle esigenze monetarie della Eurozona, bensì tedesche esclusivamente.
A queste preoccupazioni, Lagarde risponde che il PEPP “è eccezionale, è temporaneo, è mirato”, aggiungendo sottovoce che la flessibilità verrà riassorbita nel corso del programma di acquisti. Ma non è credibile, dal momento che i 750 miliardi del PEPP svaniscono a fronte della montagna di nuove emissioni alla quale gli Stati europei sono costretti dalla propria reazione al coronavirus. Tant’è che il suo capo economista dichiara che la crisi durerà tre anni. Sicché, un consigliere della Merkel, Volker Wieland, già annuncia di voler considerare il PEPP nulla più che un nuovo soprannome dello OMT, dunque illegale perché lo OMT richiede prima la Troika.
Karlsruhe. Insomma, l’equilibrio è precario. L’ora d’aria, concessa da Bce all’Italia, è appesa ad un filo.
Giovedì, Bce ha deciso di non decidere. Proponendo sì, un programma di finanziamento delle banche enorme, ma solo apparentemente, in quanto non si capisce perché mai le banche dovrebbero profittarne per espandere i crediti, in piena recessione e sotto la mannaia della vigilanza bancaria europea.
Due le interpretazioni offerte dalla stampa. La prima, risibile, che Bce starebbe attendendo il nominato e già abortito Recovery Fund. La seconda, molto più convincente, che Bce starebbe attendendo la sentenza della Corte costituzionale Tedesca di Karlsruhe, la quale si pronuncerà, sul QE, domani 5 maggio.
Se Karlsruhe non avrà cambiato idea, rispetto alla propria ordinanza del 2017, con la quale chiedeva un parere consultivo (invero, lanciava un ultimatum) alla Corte Europea di Giustizia, la sentenza di domani suonerà più o meno così: “Il QE costituisce un atto ultra vires se le seguenti condizioni non sono rispettate, la Banca Nazionale Tedesca può partecipare al QE solo se le seguenti condizioni sono rispettate; cioè se: • il volume degli acquisti è limitato sin dall’inizio, • i dettagli degli acquisti non sono annunciati, • è possibile verificare il rispetto di un periodo minimo tra l’emissione di titoli di debito sul mercato primario e l’acquisto dei relativi titoli sul mercato secondario; • il Sistema Europeo di Banche Centrali acquista unicamente titoli di Stato degli Stati membri che hanno al mercato obbligazionario un accesso che consente il finanziamento di tali titoli, • solo in casi eccezionali le obbligazioni acquistate sono detenute fino alla scadenza, • gli acquisti non includono obbligazioni che portano fin dall’inizio un rendimento negativo, • la ripartizione all’interno dell’Eurosistema delle perdite sugli acquisti viene fissata ad inizio programma e definitivamente, • la parte di tale ripartizione gravante sulla Banca Nazionale Tedesca direttamente od indirettamente attraverso la sua partecipazione al capitale di Bce ha ottenuto la preventiva approvazione del Bundestag tedesco conformemente ai principi stabiliti dal Senato nella sua giurisprudenza sull’EFSF e sul MES”.
Se Karlsruhe non avrà cambiato idea, la sentenza cancellerà il “reinvestimento” dei titoli acquistati quando giunti a scadenza, cancellerà la “flessibilità” della Lagarde, reimporrà il divieto all’acquisto di titoli di Stato junk, vincolerà l’avvio di qualsiasi grande programma di acquisti al preventivo voto favorevole del Bundestag. Ridimensionerà, insomma, il “whatever it takes” di Draghi a “whatever the Bundestag agrees”, qualsivoglia cosa gradisca il Bundestag.
A valere sul QE, ma praticamente pure sul PEPP, giacché Karlsruhe fisserebbe dei principi giuridici e sarebbe fin troppo facile per i ricorrenti chiedere un ordine sospensivo pure su PEPP, che Karlsruhe non potrebbe rifiutare.
La FAZ ieri avvertiva che, essendo QE e PEPP in corso, la Corte potrebbe usare la cautela di imporre le nuove condizioni solo a decorrere da un eventuale rinnovo dei due programmi di acquisto, ovvero sui programmi di acquisto futuri. Ma ciò non cambierebbe la sostanza, visto che QE e PEPP vanno rinnovati l’autunno che viene.
Dopo Karlsruhe. L’eventualità che Karlsruhe non abbia cambiato idea, è forse estrema, ma non irrealistica. Basti pensare a come la Repubblica Federale di Germania abbia, unilateralmente e senza chiedere alcunché ad alcuno, interrotto il sostegno alla Lira nel 1992 e Schengen nel 2020. Con le parole del cancelliere Helmut Schmidt al presidente della Bundesbank Otmar Emminger, il 30 novembre 1978: “Esiste un modo di dire meraviglioso al mondo da 2000 anni: ultra posse nemo obligatur. e dove l’ultra posse sia, questo lo si decide da soli”.
Tanto vale presentare la posta in gioco.
Dubitiamo fortemente che Bundesbank accetterebbe che le restanti Banche centrali nazionali producano autonomamente effetti, le conseguenze monetarie dei quali si ripercuoterebbero comunque in Germania. In altre parole, non accetterebbe di essere ridotta a mero gestore di portafoglio: come un qualunque fondo sovrano. Forse potrebbe accettarlo per qualche settimana, chissà per qualche mese. Ma col timer già ben innescato.
Per ciò stesso, Bundesbank pretenderà che Bce si conformi. Minacciando, in difetto, di non accettare più in Germania gli Euro creati “illegalmente” da Bce con le banche centrali che le saranno restate fedeli.
Quanto all’Italia, il Corriere confessa che il nostro establishment si sta preparando alla Troika ed alla patrimoniale che essa porta con sé: Merkel “la grande leader per venirci incontro deve poter dire che siamo disposti a usare un po’ dei nostri oltre 4 mila miliardi di risparmi privati per la ricostruzione. Sapremo farlo?”. Ma tale patrimoniale dovrebbe essere imposta da un governo malfermo, su una popolazione inferocita ed un sistema bancario se possibile peggio. Sicché, è più probabile che si andrebbe a cadere su un “preliminare” controllo dei movimenti dei capitali, che da solo basterebbe ed avanzerebbe.
Parigi potrebbe scegliere. Se si sottomette a Berlino (divenendone pure formalmente un vassallo, visto l’eventuale nuovo veto del Bundestag sulla politica monetaria), allora Bce cessa QE e PEPP. E siamo a domandarci: senza QE e senza PEPP, che accadrebbe alla Francia? Beh, a giudicare dalle posizioni di Tirole, Minc, Artus e Lagarde, la Francia non può stare senza QE e PEPP. Ergo, sarebbe più logico aspettarsi che tenga il punto e, quindi, accetti un confine monetario, fra sé e la Germania (entrambe coi relativi satelliti, Italia inclusa): pur entrambe sempre nell’Euro ma senza libera circolazione dei capitali da una all’altra delle due nuove zone monetarie.
A supporto, sono certi slogan proclamati da Lagarde, giovedì: Bce è “pienamente impegnata a fare tutto il necessario”, “più determinata che mai”, “abbiamo usato la flessibilità quando era necessario e continueremo a farlo, credetemi”, “lo faremo in qualsivoglia Paese ne abbisogni”, “lo ripeterò ancora”. A supporto, sono le possibilità che si schiuderebbero a Parigi: la Bce “francese”, liberata dalla presenza tedesca, in giugno potrebbe pure decidere per un rilancio alla grande del PEPP, magari tramite l’acquisto di obbligazioni perpetue, ovviamente senza che più alcuno parli di Troika, Mes, condizionalità e simili. Saremmo in un altro mondo.
Qui vivra verra.
Musso
Fonte:
Chi paga il conto della crisi? La soluzione della Bce francese. Ma se domani Karlsruhe dicesse Nein?
“È certo che esiste un modo di dire meraviglioso al mondo da 2000 anni: “ultra posse nemo obligatur”. E dove l’ultra posse sia, questo lo si decide da soli”. Il cancelliere Helmut Schmidt al presidente della Bundesbank Otmar Emminger (30 novembre 1978).
La crisi che ci assale. La crisi economica che ci assale, non è né di offerta, né di domanda: essa deriva essenzialmente dalla decisione dello Stato di imporre la brutale chiusura di intere sezioni dell’apparato produttivo. Spiega Laurent Cordonnier su Le Monde Diplomatique. Alla domanda “chi pagherà?”, parte della risposta è già sotto i nostri occhi: lavoratori ed imprese, i redditi dei quali sono diminuiti o sono scomparsi. Ma impedendo brutalmente ai propri Sudditi di lavorare, lo Stato nega pure a se stesso di incassare le relative tasse.
E, siccome la responsabilità non è di altri che sua, lo Stato sarebbe tenuto a rimborsare i danni inflitti, per via di sussidi in varia natura oggi, di ricapitalizzazioni (che possiamo decidere se chiamare, o no, nazionalizzazioni) domani.
Siccome il bilancio dello Stato è un bilancio per cassa, la crisi degli incassi e la montata degli esborsi non possono che causare la montata del debito pubblico. Per questa eredità, “chi pagherà?”.
Il mercato finanziario no. È bastata la reazione ad una frase della presidente Bce (“we are not here to close the spreads”) per chiudere il dibattito. Allora chi?
La Francia discute. Jean Tirole, il premio Nobel francese, propone quattro alternative.
Prima alternativa, il ripudio del debito. Ma impedirebbe allo Stato di emettere nuove obbligazioni, costringendolo a vivere in regime di pareggio di bilancio, impossibile in tempo di crisi. Aggiungiamo che comporterebbe il fallimento di tutte le banche dunque, ipso facto, il bail-in di massa. Un doppio effetto recessivo che è il contrario di quanto necessita.
Seconda, la “solidarietà europea”. Ma Tirole avvisa che non esiste. Successivamente alla pubblicazione dell’articolo si è assistito all’aborto del Recovery Fund (in ultimo ridotto alla miseria di 320 miliardi per l’intera Ue e declassato a capitolo del bilancio, tanto da venire presto ribattezzato “Iniziativa”), a proposito del quale l’umana pietà nei confronti di Conte e Gualtieri suggerisce di tacere.
Terza, la monetizzazione del debito. Bce acquista le emissioni del Tesoro e le rinnova a scadenza indefinitamente. Aggiungiamo che gli interessi pagati sono ritornati, in forma di dividendo, agli Stati debitori dalla Banca centrale creditrice ma che è sempre lo Stato: una semplice partita di giro, che rende inutile la variante brutalista della cancellazione dei debiti/crediti incrociati. Tirole ha cura di sottolineare che è la soluzione che preferisce. Che la sa incompatibile con il Trattato europeo, ma lo stesso spera di convincere i tedeschi ad ingoiarla. Questa terza è certamente la soluzione francese, come conferma Alain Minc, apparentemente più deciso di Tirole nel negare qualsiasi rischio di inflazione nel breve, anche se entrambi la accettano nel medio termine: Tirole, perché la sa costante storica degli Stati che escono da grandi shock, Minc per via della indisciplina di politica fiscale che la monetizzazione potenzialmente indurrebbe. Lo stesso, Minc giudica di poter convincere “nos partenaires les Allemands”, con un argomento semplice, che tradotto suona: TINA – There is No Alternative.
Quarta, la patrimoniale, pure nella alternativa forma del prestito forzoso. Sulla quale Tirole ha cura di sottolineare che, per far fronte alle forti necessità delle finanze pubbliche, si applicherebbe pure alle classi medie. Nonché di specificare che “sarebbe particolarmente delicata nella zona euro. Richiederebbe un accordo tra i Paesi sul livello di repressione finanziaria consentita in ciascun Paese”. Tradotto, implicherebbe un preliminare accordo con Bce sull’imposizione del controllo movimenti capitali, e ciò gli appare “particolarmente delicato”. Quest’ultima obiezione ci pare di poterla respingere: sappiamo che questa è la soluzione che vorrebbe imporci la Germania, attraverso la Troika, dunque ci pare evidente che la Germania abbia già accettato un adeguato livello di repressione finanziaria per l’Italia.
A Tirole fa fedele eco Patrick Artus, nella sua rubrica su Le Monde, molto seguita.
Così si dibatte in Francia.
La Bce francese. In Italia, nel frattempo, il governo seguita ad aggrapparsi alla patetica speranza di un “Mes senza condizionalità” che spalanchi le porte ad un “OMT illimitato”.
Dibattito spazzato via dalla Lagarde, giovedì, con due perentorie affermazioni. Uno, “lo OMT fu creato nel 2012, chiaramente il Paese richiedente doveva essere sottoposto ad un programma Mes che aveva condizionalità”; ergo, no condizionalità, no OMT..
Due, “non c’è mai stato un trigger automatico per l’OMT. Il consiglio direttivo deve valutare l’esistenza di una chiara giustificazione e obiettivo della politica monetaria”, la quale sussisteva allora, perché il rischio era asimmetrico (riguardava singoli Paesi), ma “non stiamo più affrontando quella situazione”; oggi, “siamo di fronte a una situazione nella quale non è un singolo Paese ma sono tutti i Paesi, nella quale si tratta di uno shock globale che si applica in modo molto simmetrico”. Conclusione della Lagarde, “data la simmetria dello shock, chiaramente il Programma di acquisto di emergenza pandemica è stato progettato specificamente a tal fine”, “davvero lo strumento migliore che abbiamo nella nostra cassetta degli attrezzi è il PEPP”.
Bce ha, quindi, molto chiaramente preso partito contro la quarta alternativa indicata da Tirole (il Mes, cioè la patrimoniale) ed a favore della terza alternativa indicata da Tirole (la monetizzazione del debito).
Berlino all’assalto della Bce francese. Problema: la monetizzazione del debito non è omogenea. Bce, cioè, non distribuisce i propri acquisti fra i Paesi proporzionalmente al loro peso economico (il cosiddetto “capital key”), bensì sovrappesa pesantemente i Btp italiani, un poco pure gli Oat francesi, mentre sottopesa i Bund tedeschi. In misura massiccia, secondo le stime, anche se numeri certi ancora non ve n’è.
È questa la “flexibility”, la flessibilità, continuamente evocata dalla Lagarde. Teorizzata dal capo economista Bce, Philip Lane: durante una crisi, i capitali si rifugiano verso i Paesi a maggior rating, “a causa dell’alta sostituibilità tra i mercati delle obbligazioni sovrane in assenza di rischio valutario” (cioè della libera circolazione dei capitali e dell’esistenza stessa dell’Euro), indipendentemente dal fatto che la crisi abbia una causa esterna, non attribuibile al Paese che subisce la fuga dei capitali, quindi è risolvibile solo dalla banca centrale.
I tedeschi, naturalmente, non sono d’accordo: la crisi è “simmetrica” – dicono – perché, della fuga dei capitali, alcuni Paesi godono, non tutti la subiscono. Essa ha una causa interna, interamente attribuibile al Paese che subisce la fuga dei capitali, quindi è risolvibile solo da una bella Troika. Posizione impersonificata dal ministro olandese Wopke Hoekstra, che proponeva di rispondere alla pandemia di coronavirus con una inchiesta sul perché certi Paesi non avessero abbastanza soldi da spendere.
I tedeschi lamentano, inoltre, come gli acquisti di Btp vengano effettuati (già col QE, ma così pure col PEPP) solo per l’80 per cento da Bankitalia, ma per il restante 20 direttamente da Bce. Di quest’ultima è socia Bundesbank che, quindi, sopporterebbe una parte delle eventuali perdite. È un modo di guardare alle banche centrali, non monetario ma patrimoniale; di considerarle, in altre parole, come dei meri gestori di portafoglio: come un qualunque fondo sovrano. E non dovrebbe avere cittadinanza nel dibattito. Però lo ha, perché l’intera classe dirigente tedesca lo agita di fronte al proprio pubblico, incessantemente fin dalla fondazione dell’Euro, al fine meramente strumentale di condizionare le politiche monetarie, senza riguardo alle esigenze monetarie della Eurozona, bensì tedesche esclusivamente.
A queste preoccupazioni, Lagarde risponde che il PEPP “è eccezionale, è temporaneo, è mirato”, aggiungendo sottovoce che la flessibilità verrà riassorbita nel corso del programma di acquisti. Ma non è credibile, dal momento che i 750 miliardi del PEPP svaniscono a fronte della montagna di nuove emissioni alla quale gli Stati europei sono costretti dalla propria reazione al coronavirus. Tant’è che il suo capo economista dichiara che la crisi durerà tre anni. Sicché, un consigliere della Merkel, Volker Wieland, già annuncia di voler considerare il PEPP nulla più che un nuovo soprannome dello OMT, dunque illegale perché lo OMT richiede prima la Troika.
Karlsruhe. Insomma, l’equilibrio è precario. L’ora d’aria, concessa da Bce all’Italia, è appesa ad un filo.
Giovedì, Bce ha deciso di non decidere. Proponendo sì, un programma di finanziamento delle banche enorme, ma solo apparentemente, in quanto non si capisce perché mai le banche dovrebbero profittarne per espandere i crediti, in piena recessione e sotto la mannaia della vigilanza bancaria europea.
Due le interpretazioni offerte dalla stampa. La prima, risibile, che Bce starebbe attendendo il nominato e già abortito Recovery Fund. La seconda, molto più convincente, che Bce starebbe attendendo la sentenza della Corte costituzionale Tedesca di Karlsruhe, la quale si pronuncerà, sul QE, domani 5 maggio.
Se Karlsruhe non avrà cambiato idea, rispetto alla propria ordinanza del 2017, con la quale chiedeva un parere consultivo (invero, lanciava un ultimatum) alla Corte Europea di Giustizia, la sentenza di domani suonerà più o meno così: “Il QE costituisce un atto ultra vires se le seguenti condizioni non sono rispettate, la Banca Nazionale Tedesca può partecipare al QE solo se le seguenti condizioni sono rispettate; cioè se: • il volume degli acquisti è limitato sin dall’inizio, • i dettagli degli acquisti non sono annunciati, • è possibile verificare il rispetto di un periodo minimo tra l’emissione di titoli di debito sul mercato primario e l’acquisto dei relativi titoli sul mercato secondario; • il Sistema Europeo di Banche Centrali acquista unicamente titoli di Stato degli Stati membri che hanno al mercato obbligazionario un accesso che consente il finanziamento di tali titoli, • solo in casi eccezionali le obbligazioni acquistate sono detenute fino alla scadenza, • gli acquisti non includono obbligazioni che portano fin dall’inizio un rendimento negativo, • la ripartizione all’interno dell’Eurosistema delle perdite sugli acquisti viene fissata ad inizio programma e definitivamente, • la parte di tale ripartizione gravante sulla Banca Nazionale Tedesca direttamente od indirettamente attraverso la sua partecipazione al capitale di Bce ha ottenuto la preventiva approvazione del Bundestag tedesco conformemente ai principi stabiliti dal Senato nella sua giurisprudenza sull’EFSF e sul MES”.
Se Karlsruhe non avrà cambiato idea, la sentenza cancellerà il “reinvestimento” dei titoli acquistati quando giunti a scadenza, cancellerà la “flessibilità” della Lagarde, reimporrà il divieto all’acquisto di titoli di Stato junk, vincolerà l’avvio di qualsiasi grande programma di acquisti al preventivo voto favorevole del Bundestag. Ridimensionerà, insomma, il “whatever it takes” di Draghi a “whatever the Bundestag agrees”, qualsivoglia cosa gradisca il Bundestag.
A valere sul QE, ma praticamente pure sul PEPP, giacché Karlsruhe fisserebbe dei principi giuridici e sarebbe fin troppo facile per i ricorrenti chiedere un ordine sospensivo pure su PEPP, che Karlsruhe non potrebbe rifiutare.
La FAZ ieri avvertiva che, essendo QE e PEPP in corso, la Corte potrebbe usare la cautela di imporre le nuove condizioni solo a decorrere da un eventuale rinnovo dei due programmi di acquisto, ovvero sui programmi di acquisto futuri. Ma ciò non cambierebbe la sostanza, visto che QE e PEPP vanno rinnovati l’autunno che viene.
Dopo Karlsruhe. L’eventualità che Karlsruhe non abbia cambiato idea, è forse estrema, ma non irrealistica. Basti pensare a come la Repubblica Federale di Germania abbia, unilateralmente e senza chiedere alcunché ad alcuno, interrotto il sostegno alla Lira nel 1992 e Schengen nel 2020. Con le parole del cancelliere Helmut Schmidt al presidente della Bundesbank Otmar Emminger, il 30 novembre 1978: “Esiste un modo di dire meraviglioso al mondo da 2000 anni: ultra posse nemo obligatur. e dove l’ultra posse sia, questo lo si decide da soli”.
Tanto vale presentare la posta in gioco.
Dubitiamo fortemente che Bundesbank accetterebbe che le restanti Banche centrali nazionali producano autonomamente effetti, le conseguenze monetarie dei quali si ripercuoterebbero comunque in Germania. In altre parole, non accetterebbe di essere ridotta a mero gestore di portafoglio: come un qualunque fondo sovrano. Forse potrebbe accettarlo per qualche settimana, chissà per qualche mese. Ma col timer già ben innescato.
Per ciò stesso, Bundesbank pretenderà che Bce si conformi. Minacciando, in difetto, di non accettare più in Germania gli Euro creati “illegalmente” da Bce con le banche centrali che le saranno restate fedeli.
Quanto all’Italia, il Corriere confessa che il nostro establishment si sta preparando alla Troika ed alla patrimoniale che essa porta con sé: Merkel “la grande leader per venirci incontro deve poter dire che siamo disposti a usare un po’ dei nostri oltre 4 mila miliardi di risparmi privati per la ricostruzione. Sapremo farlo?”. Ma tale patrimoniale dovrebbe essere imposta da un governo malfermo, su una popolazione inferocita ed un sistema bancario se possibile peggio. Sicché, è più probabile che si andrebbe a cadere su un “preliminare” controllo dei movimenti dei capitali, che da solo basterebbe ed avanzerebbe.
Parigi potrebbe scegliere. Se si sottomette a Berlino (divenendone pure formalmente un vassallo, visto l’eventuale nuovo veto del Bundestag sulla politica monetaria), allora Bce cessa QE e PEPP. E siamo a domandarci: senza QE e senza PEPP, che accadrebbe alla Francia? Beh, a giudicare dalle posizioni di Tirole, Minc, Artus e Lagarde, la Francia non può stare senza QE e PEPP. Ergo, sarebbe più logico aspettarsi che tenga il punto e, quindi, accetti un confine monetario, fra sé e la Germania (entrambe coi relativi satelliti, Italia inclusa): pur entrambe sempre nell’Euro ma senza libera circolazione dei capitali da una all’altra delle due nuove zone monetarie.
A supporto, sono certi slogan proclamati da Lagarde, giovedì: Bce è “pienamente impegnata a fare tutto il necessario”, “più determinata che mai”, “abbiamo usato la flessibilità quando era necessario e continueremo a farlo, credetemi”, “lo faremo in qualsivoglia Paese ne abbisogni”, “lo ripeterò ancora”. A supporto, sono le possibilità che si schiuderebbero a Parigi: la Bce “francese”, liberata dalla presenza tedesca, in giugno potrebbe pure decidere per un rilancio alla grande del PEPP, magari tramite l’acquisto di obbligazioni perpetue, ovviamente senza che più alcuno parli di Troika, Mes, condizionalità e simili. Saremmo in un altro mondo.
Qui vivra verra.
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