Paura, governo, sovranità e coronavirus.
Di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
Quello che segue è un intervento pubblicato sul sito di Nuova Direzione sulla crisi da coronavirus e la dinamica conseguente.
In sintesi:
La crisi in corso comporta l’effettivo rischio che, se non è controllata e ridotta, produca un cambio nella forma politica, da quella che chiamo “sovranità neoliberale”, e post-democratica, nella quale viviamo, ad una “sovranità iperliberista”, direttamente anti-democratica.
Questa paura diffusa, però se mal indirizzata rischia di usare inconsapevolmente strutture neoliberali per inibire l’autodifesa sociale e farci cadere in uno ‘stato di eccezione’ reale, per disperazione e stanchezza. Se tra le tecniche dello “stop and go”, del “massive boming” di tamponi, e del “rintraccia ed isola” tradizionale, scegliamo di fatto il primo per paura del “rintraccia” del terzo, nella pratica impossibilità di dare adeguata massa al secondo (che comporterebbe una militarizzazione della vita), allora avremo continui “Stop”, sempre più duri, e finiremo per disgregare società ed economia. Alla fine il modello “Elysium” al quale tendiamo si compirà completamente.
Ma il “go”, allora va calibrato con saggezza, e combinato con il “rintraccia ed isola” al giusto livello di ampiezza e solidità tecnica (che non è solo tecnologica, ma soprattutto organizzativa ed umana), perché sia sostenibile nel medio e lungo periodo senza ricadere. Questa è la posta dalla quale dipende anche l’arresto delle conseguenze anti-democratiche della paura.
La paura non si combatte facendo “lo struzzo”, ma ponendo in essere quelle difese efficaci, sapendone sopportare il prezzo, al fine di non dover pagare quello maggiore.
…
Se, del resto, non vogliamo pagare il prezzo di passare da una tecnocrazia (economicista) ad un’altra (igienista), dobbiamo saper affrontare politicamente i problemi, non negarli, non ridurli, non fuggire.
Affrontare politicamente una maggiore socializzazione della vita. Dalla crisi non si esce ritornando alla sovranità “neoliberale” che l’ha generata.
La crisi che stiamo vivendo produce e produrrà un profondo mutamento. Questo sarà abbastanza strettamente dipendente da quanto tempo durerà e dal grado di paura che sarà alla fine tollerabile dalla nostra società. Tutto questo va ben oltre l’economico ed il ciclo sanitario, coinvolge in modo molto diretto la sovranità[1], ovvero la forma del potere sovrano definita nelle nostra istituzioni e pratiche politiche. Nella modernità è, infatti, produttore di ‘sovranità’ il processo concreto che implica il potere legittimo di tutti e presuppone la protezione fisica e sociale delle persone. In essa è sempre in tensione dialettica la ricerca di sintesi della volontà politica con i vincoli dell’ordinamento giuridico e la messa in tensione di questi con la politicità diffusa nella società.
Ma se la sovranità è sempre un processo storicamente concreto e se emerge non dall’onnipotenza solitaria di un soggetto, o dalla sua volontà, ma dalla forza costituente delle crisi, allora qui ciò che si sta facendo, o si potrebbe fare se la crisi durasse oltre i limiti di resistenza di sistema, è esattamente una nuova sovranità.
“Nuova” rispetto a cosa? L’attuale, che potremmo definire “sovranità neoliberale”, prevede una debole volontà politica, un fortissimo vincolo dell’ordinamento giuridico (per lo più sottratto attraverso varie forme di governance sovranazionali o infra e sub nazionali), e una quasi inesistente politicizzazione diffusa nella società. È quel che siamo usi chiamare post-democrazia.
La condizione ex ante è, insomma, pessima. Per usare uno slogan famoso, qui non si tratta di tornare alla normalità, perché era quella il problema. Ma una creazione di sovranità per effetto di una crisi potrebbe spingerla in una direzione ancora peggiore. Potremmo passare dalla “post-democrazia” alla “anti-democrazia”.
È questa la paura di molti.
E, naturalmente è ben fondata. La produzione di sovranità è sempre ambivalente, non è solo oscura, come sembrerebbe volere Agamben[2], ma non è neppure chiarezza e pura benevolenza. Nel processo c’è un oscuro che non è nel corpo sovrano, anzi nel processo sovrano, bensì si radica nel potere che questo cerca di disciplinare. Nel disordine che cerca di portare a ordine, e alla luce.
L’emergere di una nuova forma della sovranità dalla forza costituente della crisi è quindi affidato alla capacità che avremo di tenere in equilibrio le sue diverse forze. Inoltre, dalla durata, dall’intensità e dalla catena di effetti mobilitati. Nulla di quanto fatto fino ad ora dall’attuale governo italiano è particolarmente rassicurante in questa direzione, c’è poco equilibrio e molto eccesso.
Elenchiamone la fenomenologia provvisoriamente:
1- è vero che ci sono, sotto la spinta dello stato di emergenza (che può scivolare ma non lo è ancora in “stato di eccezione”[3]) delle forzature istituzionali gravi ed un chiaro eccesso di torsione governista dovuta ad un insieme di fattori (oggettivi e determinati dalla situazione, infra 3; soggettivi e dovuti alla debolezza del governo; inerziali, dovuti al clima neoliberista ed alle sue prassi consolidate). Questo eccesso si manifesta sia nell’abuso dello strumento giuridico scelto (Dpcm), che cerca la sua legittimazione in un D.L. non ancora convertito dal Parlamento, sia nell’abuso di Commissioni tecniche che a loro volta sono tipiche delle condizioni di stress decisionale (si usano i ventriloqui per superare i centri di potere organizzativi interni e la loro tendenza alla rispettiva paralisi). Tutte queste tendenze segnalano, più in profondità, il cattivo disegno istituzionale del paese e le sue prassi malate e post-democratiche.
2- è vero che c’è il rischio di un’ulteriore tecnicizzazione della vita e delle sue forme sociali, per il tramite della progressiva immersione in una rete di controllo sempre più pervasiva; ma questa tendenza è in corso da decenni ed al momento in sostanza è trattenuta solo dai ciclopici costi economici della sua implementazione (per cui si procede privatizzandola e per luoghi di emergente valore, contribuendo non poco a segnare quella divaricazione centro/periferia che sempre segnaliamo) e dai correlati costi politici.
3- Però tutto questo non può far dimenticare, pena ricadere per mancanza di immaginazione e capacità di pensiero complesso, che il fatto sussiste. Lo stato di emergenza è reale. Non giustifica, e bisogna restare vigili e critici, lo scivolamento in uno ‘stato di eccezione’, ma giustifica ampiamente la velocizzazione delle risposte necessarie e anche un certo rafforzamento provvisorio del controllo e dell’automazione (ad esempio nella raccolta ed organizzazione delle informazioni). Chi dice di no deve farsi carico delle conseguenze, anche sulla stessa libertà e democrazia che vorrebbe difendere, ma, invece, mette a maggior rischio.
Vediamo quali sono le alternative che abbiamo davanti[4]. Per ora si sta seguendo quella che sembra la strategia “del martello e della danza”[5] per la quale si alternano fasi di duro contenimento, per abbassare il numero di contagi e far arretrare l’epidemia a fasi nelle quali si compie una “danza” cercando di allentare e restringere le misure, per tenere sotto controllo la stessa.
In che modo:
- Neil Ferguson e l’Imperial College di Londra hanno ipotizzato[6] che il lock down non sia sostenibile fino all’effettiva eradicazione del virus, poiché focolai possono riaccendersi e/o essere reimportati, e quindi quando il fattore R(t) fosse portato molto in basso (in Italia ora è stimato 0,5 dal circa 3 che aveva in Lombardia all’avvio, quando la crescita era esponenziale), converrà comunque riaprire anche se dopo un poco bisognerà richiudere tutto. La strategia proposta, “stop and go”, è quindi di andare avanti con due mesi di blocco ed un mese di riapertura fino a che l’esistenza di cure efficaci, un vaccino o una naturale immunizzazione di gregge, possano riportare la cosa a normalità. Magari facendolo in modo differenziato per territori[7] (ma attivando forti controlli tra questi). La stima è orientativamente di farlo fino alla fine del 2021. Si tratta di una prospettiva tragica.
- La seconda alternativa è stata proposta da un articolo[8] su Lancet, e prevede di fare test, ovvero tamponi, a tutta la popolazione ogni settimana, per diverse settimane consecutive. Anche se condotto solo su alcune regioni questa strategia di “massive bombing” comporterebbe parecchie decine di milioni di test al mese (fino ad ora l’Italia ha fatto 1,6 milioni di test, al quarto posto nel mondo) ed una mobilitazione di tipo militare.
- La terza è il cosiddetto “rintraccia-e-isola”, una pratica normalmente descritta nei manuali epidemiologici, per essa ci vuole una sorveglianza intensiva, test, quarantene mirate. Per avere senso la prima fase deve aver avuto un notevole successo (perché troppi casi rintracciati determinano un sovraccarico non gestibile). In sostanza è la strategia per l’avvio di un’epidemia, per impedirne l’ulteriore sviluppo, non per la fase conclamata, quando gli infetti portatori sono ormai troppi.
La situazione dunque può essere descritta come uno stato di emergenza che non ha soluzioni facili e prevede scelte in condizioni di elevata incertezza tra alternative sfavorevoli. Appunto “stop and go”, “massive bombing” o “rintraccia ed isola”, che se condotte a lungo porteranno comunque rilevanti cambiamenti sociali, politici, tecnici.
Il tempo però è la variabile essenziale. Più durerà la crisi, e più stressante per i sistemi sociali, economici e politici sarà, quanto più probabilmente lo “stato di emergenza” scivolerà, anche sotto la spinta di forze interessate, in “stato di eccezione”. In altre parole, in queste condizioni ci vuole equilibrio perché il permanere a lungo di uno stato “di emergenza” può esso stesso costringere, per paura e stanchezza, la società ad autorizzare l’instaurarsi di quello “di eccezione”, al fine di procedere più velocemente lungo 1 e 2, e, appunto, riavere un “ordine”. Ma un ordine che scaturisca dalla disgregazione e dalla paura fuori del controllo può essere, questo sì, oscuro.
Si tratterebbe, in tal caso, di una sorta di sovranità “iperliberista”. Se quella “neoliberale” è una sovranità con debole volontà politica, forte vincolo e quasi inesistente politicizzazione diffusa, questa sarebbe ancora più debole nella volontà politica (democratica), ma iperpotente nel vincolo giuridico e nelle relative tecnostrutture, e totalmente inibita sotto il profilo della capacità di politicizzazione diffusa.
Insomma, il rischio è che dallo “stato di eccezione” si passi alla sovranità anti-democratica. Al modello “Elysium”[9], nel quale una ristretta élite di ricchi possessori dei mezzi di produzione e dei loro gestori si sganci, lasciando macchine e tecnostrutture di controllo automatiche a gestire la massa disperata del popolo.
Non può essere sottovalutato, il rischio è che il mondo sia avvolto dall’oscurità.
Ma la fonte ultima dell’oscurità non sarà in tal caso la digregazione e la paura che direttamente la provocheranno, bensì sarà la causa di queste. Cadremo nell’oscurità se cederemo alla distruzione sistematica delle condizioni della difesa che la società può opporre. Vi cadremo se falliremo e assisteremo, via via più impotenti, ad una successione di “stop and go” sempre più parossistici in un contesto di crescente disgregazione sociale ed economica.
Del resto, è da tempo che falliamo. Il problema non è il virus, ma la normalità che ha interrotto.
L’attacco alla vita[10] è stato già compiuto dalle strutture che, messe in piedi ed utilizzate da ben specifiche forze[11], hanno reso endemica nella nostra società la disoccupazione, l’angoscia, la deprivazione, la miseria e la fame. Ed hanno messo sotto costante attacco, e ridotto in condizioni di “anoressia” le strutture dello Stato, il welfare e il sistema sanitario in primis, che avrebbero dovuto essere il primo bastione di difesa.
Un bastione bucherellato che ha retto a fatica in alcune regioni ed è crollato di schianto in Lombardia.
Dove ha retto si è trattato di frammenti ancora abbastanza incredibilmente operativi del ‘trentennio glorioso’ erede dell’età moderna[12]. La stessa ragione d’essere dello Stato è quindi chiamata in causa. Esso esiste e pretende di avere il monopolio della forza in quanto e per quanto protegge dalle minacce che turbano l’esistenza delle persone. Viceversa, la scomparsa della centralità dello Stato, o la narrazione di tale scomparsa[13] fa venire meno questa promessa.
È il venire meno di questa promessa che oggi vediamo davanti ai nostri occhi nelle parole di quell’infermiere costretto alla scelta tragica su chi salvare tra sette[14].
Ma il venir meno di questa promessa, oggi dovrebbe essere chiaro, è una minaccia esistenziale per l’intero ordine sociale e per la vita organizzata. Una minaccia per qualunque ordine sociale, sia esso capitalista o no, occidentale o orientale, del nord e del sud[15], democratico o comunista, secolare o teocratico. Vale in particolare da noi, in Europa, dove la riduzione del pubblico nella vita delle persone è passata sistematicamente per una loro maggiore esposizione alla durezza della vita e quindi anche al rischio, alla paura, alla generazione di fragilità individuale. La sinistra ha contribuito fortemente a questo processo, peraltro, valorizzando il lato libertario dell’indebolimento delle macchine protettive novecentesche, reinterpretate come dispositivi di autorità, regimentazione, normazione e, in ultima istanza, paternalismo e patriarcato.
Ciò ha determinato la fragilità, fisica, strutturale e politica, nella quale le nostre società globalizzate sono state trovare dalla sfida del coronavirus.
Questo è il senso specifico nel quale è la normalità ad essere il problema.
Prendiamo come esempio l’Italia del nord. La sanità è stata ristretta a poche macchine di salute, abbandonando il presidio sociale e territoriale diffuso, ha abbandonato anche il modello pubblico che l’aveva caratterizzata ai suoi esordi come Sistema Sanitario Nazionale. Esso, creato nel 1978 come misura chiave della partecipazione del Pci al “compromesso storico”[16], dagli anni novanta è stato investito dal federalismo fiscale[17], ed a partire dagli anni dieci, in seguito alla crisi, è stato investito dalle politiche di consolidamento fiscale imposte dalla Unione Europea[18]. In particolare, la crescita del saldo primario è sempre stata ottenuta anche a carico della spesa sanitaria nella misura di un terzo[19]. Gli ultimi anni hanno visto quindi tutte le regioni disinvestire nella sanità pubblica, in parte spostando risorse sulla presunta più efficiente sanità privata, ottenendo complessivamente un saldo negativo di posti letto, capacità di trattamento, numero di addetti. Tutte queste condizioni, appena sufficienti in condizioni normali sono repentinamente crollate nelle primissime settimane di una epidemia severa, ma non certo paragonabile alle pesti che aprirono la modernità. Il risultato è un’intera nazione bloccata, migliaia di morti non necessari, un crollo verticale del sistema economico.
Non è dunque un caso che tutti i paesi del mondo, in pratica, abbiano avuto, con maggiore o minore reattività, lo stesso ciclo di risposta: scoperta-minimizzazione-attesa-allarme-risposta (misure di lock down). La ragione è che la vera minaccia non è solo alla vita di migliaia di cittadini, quanto alla funzione stessa dello stato di proteggerli. Non appena quindi la minaccia è stata percepita come reale ed imminente lo stato ha reagito enfatizzando, con misure drammatiche, la sua offerta di protezione. Ciò in Cina, Corea, Singapore, Giappone, India, come in Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti. Anche se con le differenze di modo e tempo in tutti i casi si è trattato di una pura necessità di legittimazione[20] e quindi di sopravvivenza della forma regolatoria.
Il problema è che in tutti gli scenari, ridotta l’incidenza della crescita epidemica esponenziale delle prime fasi, nelle fasi successive di apertura e monitoraggio bisognerà graduare luoghi e contatti secondo una scala di rischio di contagio[21]. Chi ne farà le spese? I primi sono tutti i luoghi nei quali si riuniscono molte persone contemporaneamente: ristoranti, caffè, bar, discoteche, palestre, hotel, teatri, cinema, gallerie d’arte, centri commerciali, fiere dell’artigianato, musei, musicisti e altri artisti, luoghi sportivi (e squadre sportive), sedi di congressi (e produttori di congressi), ma anche in qualche misura compagnie di crociera, compagnie aeree, trasporti pubblici che dovranno viaggiare semivuoti con enormi perdite operative. Parliamo di una quota molto importante della nostra economia e della nostra vita. Se passa la linea che i luoghi a basso rischio sono regolati in via generale con pochi obblighi (mascherine e distanza), mentre quelli ad alto rischio restano chiusi o quasi, ci dovremo abituare a fare a meno per i prossimi due o tre anni del livello al quale le nostre città sono organizzate di trasporti pubblici, bar, centri commerciali, sport, congressi ed eventi. In effetti sembra una prospettiva alquanto difficile. Vorrebbe dire tenere quasi in animazione sospesa la società per qualcosa come due anni. E’ molto difficile possa sopravvivere economicamente e socialmente[22]. Qualora crollasse tutto diventerebbe possibile.
Chiaramente a breve termine, nei primi due o tre mesi, dovrà andare così, magari ed al massimo fino alla fine dell’anno. Ma a medio termine non possiamo fare a meno, anche se il virus non sarà ancora stato definitivamente debellato, di mezzi di trasporto alla loro normale capacità, luoghi di incontro, grandi e piccoli, svolgimento delle attività sportive, possibilità di manifestare la propria opposizione liberamente, ecc…
Se provassimo a portare avanti la strategia dello “stop and go”, ma anche del “massive bombing” per molti mesi rischiamo che lo “stato di emergenza” si traduca, per stanchezza, in “stato di eccezione”. Anche solo dal lato economico non sfuggirà che perdere introiti diretti, ma soprattutto molti posti di lavoro diretti ed indiretti, moltissima integrazione del reddito per “lavoretti” di vario genere, quota decisiva del fatturato di settori importanti, commerciali e ristorativi, produrrebbe una dinamica cumulativa che rischierebbe di alimentarsi e diventare travolgente. La perdita di gettito fiscale indurrebbe riduzione dei servizi e peggioramento della qualità della vita e dello stato di manutenzione. È una catena, la perdita di attività, dei redditi e consumi, allontana ulteriori attività, e questo aumenta la perdita, così via. Nel breve termine si può frenare e controbilanciare con misure di espansione monetaria (che in Europa non stiamo facendo), ma nel lungo occorre che si producano beni e servizi e che la società economica si riattivi.
Ricapitoliamo:
- Il mutamento che saremo costretti a vivere dipenderà abbastanza strettamente da quanto tempo durerà lo stato di paura indotto dalla minaccia dell’epidemia da Sars-Cov-2 e della sua malattia Covid-19. Malgrado a molti piaccia immaginare che ci siano sempre oscure volontà dietro le cose che fatichiamo a comprendere, l’unica cosa insolita di questa epidemia è che sia venuta così tardi, dopo innumerevoli colpi a salve. La nostra società la produce direi naturalmente.
- Questo mutamento potrebbe comportare lo slittamento dallo “stato di emergenza” (che, attualmente, è ben giustificato pur essendo sede di innumerevoli, e gravi, errori) allo “stato di eccezione”. Ovvero, in altri termini, potrebbe comportare modifiche della ‘sovranità’. Precisamente potrebbe essere levatrice del passaggio dalla “sovranità neoliberale”, nella quale viviamo, ad una, ben più temibile, “sovranità iperliberista”.
- Il rischio si presenterebbe come estremizzazione e stabilizzazione di due risposte all’emergenza in sé abbastanza normali come il potenziamento del governo e la tecnicizzazione, di cui tra poco diremo.
- D’altra parte, possiamo reagire alla minaccia, evitando una disastrosa reazione “dello struzzo”[23], o reiterando “stop and go”, o con un improbabilissimo “massive bombing”, o, ed è la terza alternativa, con la strategia del “rintraccia ed isola” nella fase del “go”, proprio per evitare un generalizzato nuovo “stop”. L’alternativa, per dirlo in modo semplice, è se per fermare il virus devo necessariamente mettere in quarantena tutti di nuovo (“Stop and go”), o se posso farlo solo con i pochi che sono entrati in contatto. Ma in questo secondo caso come li identifico? O testando tutti coattivamente e continuamente (“massive bombing”) o identificando le catene di contagio mentre partono (“rintraccia ed isola”).
- Bisogna, insomma, usare le armi che ci sono, sapendo che andranno posate prima che prendano il sopravvento e si rivolgano contro di noi.
Non c’è dunque l’arma finale, ci sono solo tentativi. Ma è comunque necessario mettere in piedi tutte quelle risposte che siano in grado di ottenere il successo nel più breve tempo possibile e poi richiederne la pronta rimozione. Queste risposte, in particolare la terza, nel medio termine passano per una strada altamente pericolosa nel lungo: un massivo potenziamento della capacità di creare, registrare e trasmettere informazioni, tracciare e controllare, ed una certa concentrazione della capacità operativa.
È abbastanza noto il menù di base per l’implementazione della strategia “rintraccia ed isola”:
a- Screening approfondito, e per priorità, della popolazione per rilevare chi è immune (se possibile, o è giunto in contatto con il virus[24]), chi è malato asintomatico, ma contagioso, chi non è entrato in contatto con il virus (totale in settori cruciali, come i medici, i poliziotti, gli addetti alla logistica, i gestori dei servizi locali, gli addetti al trasporto pubblico, e a campione per il resto);
b- Potenziamento della capacità di fare tempestivamente tamponi ai sintomatici, e, naturalmente, a tutti coloro che sono entrati in contatto con loro nei precedenti venti giorni[25];
c- Potenziamento massivo della sorveglianza sanitaria attiva sul territorio, e distribuzione di presidi di prossimità, in modo da ridurre il tempo tra la segnalazione di soccorso o allarme e l’intervento qualificato[26];
d- Controllo su base volontaria delle persone circolanti per identificare in tempo reale o retrospettivo chi sia portatore del virus e tutti i suoi contatti[27];
e- Controllo molto più specifico nelle aree di affollamento e di lavoro;
f- Identificazione delle aree potenzialmente contaminate e loro tempestiva sanificazione;
g- Identificazione delle merci potenziali veicoli di contagio e la loro distribuzione;
h- Misure di confinamento e quarantena al confine delle aree in sicurezza per merci e persone (in particolare al confine esterno del paese), per farle entrare.
Questa semplice esigenza potrebbe portare a cercare di implementare progressivamente e quanto più possibile le seguenti pratiche:
1- Controllare gli spostamenti e la localizzazione di ogni cittadino fuori del suo domicilio per l’intero percorso e tracciamento attivo di tutti quelli che sono segnalati, perché a rischio contagio, attraverso il proprio dispositivo di comunicazione (con o senza App specifica[28]);
2- Individuare tempestivamente tutti i contatti intercorsi, anche per semplice incrocio fortuito, con tutte le persone che risultassero contagiate, interrogando la base dati che contiene i tracciati, auspicabilmente distribuita, per l’intero periodo di incubazione e attività;
3- Incrociare i dati ed i tracciati di movimento con punti di controllo sul territorio, come telecamere con riconoscimento facciale, portali attivi in grado di leggere l’identificativo del telefono, e, peraltro, di ogni oggetto facendo anche uso di reti wireless pubbliche e pervasive[29];
4- Tracciare completamente il ciclo di vita delle merci, fino a destinazione, in modo da poter identificare qualsiasi oggetto che sia stato toccato da una persona che risultasse infetta (tecnologia Rfid o simile).
Per ottenere questi risultati servono alcuni dispositivi ed attivatori tecnologici (da graduare a seconda del rischio e delle condizioni locali):
I- Un sistema dati in grado di tracciare potenzialmente ogni persona e tutti i suoi spostamenti sull’intero territorio e soprattutto di essere interrogato rapidamente e con precisione;
II- Una rete di sensori nel territorio in grado di fornire riscontri della geolocalizzazione delle merci;
III- Una rete di sensori nei luoghi di affollamento, in grado di fornire una localizzazione del movimento delle persone e l’identificazione di coloro i quali fossero entrati nel raggio di influenza di una persona potenzialmente contaminata e/o positiva;
IV- L’interfaccia delle telecamere disponibili sul territorio con software di riconoscimento facciale, per fornire punti di incrocio e conferma delle geolocalizzazioni;
V- L’intensificazione dell’automazione, per ridurre la presenza umana e certamente la sua densità, nei luoghi di lavoro e produzione.
Si tratta di una prospettiva che contiene numerosi elementi allarmanti[30]. Certo pretenderemo un’assoluta privacy, e la distruzione dei dati trascorso un certo numero di giorni. Ma per un certo tempo, mentre si sta in un “go” tra due “stop”, potrebbe darsi che sia necessario avere una certificazione del sistema di tracciamento per andare ad un concerto, entrare in luoghi pubblici potenzialmente affollati[31]. Questi rischi non sono nuovi, in quanto è da tempo che la società e la tecnologia vanno in questa direzione, ma indubbiamente se attivata per lo ‘stato di necessità’ determinato dall’emergenza l’implementazione di queste tecniche e pratiche potrebbe essere particolarmente pervasiva e creare le fondamenta di una modifica della stessa sovranità. Appunto potrebbe mettere in piedi l’infrastruttura abilitante di una “sovranità iperliberista”.
Allargando lo sguardo, il ritorno dello Stato alla sua funzione primaria di garanzia della sicurezza della vita stessa, e quindi di garanzia sanitaria, potrebbe insomma comportare qualcosa di simile all’immane trasformazione che le città europee subirono nel corso dell’ottocento. La medicina, come dicevano gli igienisti nella prima parte del 1800, tornerà in tal caso ad avere in modo evidente “dei rapporti intimi con l’organizzazione sociale”; il tema tornerà, o potrebbe tornare, ad essere quello di ridefinire gli spazi urbani e la sua dotazione infrastrutturale[32] per “riorganizzare contatti e transiti”.
Dalla egemonia del tecnico-economista potremmo passare a quello del tecnico-medico (peraltro come normale incerto[33] sul tema).
Potrebbe esserci inoltre anche una nuova forma di digital divide[34], e questo aprirebbe ulteriori dimensioni nella lotta alle ineguaglianze. Tutto ciò potrebbe infatti accelerare in modo decisivo la fuoriuscita dai residui ancora resistenti della società del novecento, quella del lavoro sicuro e stabile, della protezione garantita per grandi unità di senso. Per questa via (appunto “Elysium”), il mondo potrebbe essere condotto ancora più velocemente, sulla spinta della sicurezza e dell’igiene, verso una minoranza di connessi e vincenti, rapidi, flessibili, carichi di energia e di ottimismo, ma anche apolidi, tendenzialmente refrattari alla responsabilità, ai quali anche più di oggi si oppongano maggioranze variegate e frammentate (in effetti una molteplicità di minoranze anche esse). I vincenti capaci di utilizzare ed essere usati nella grande macchina produttiva diffusa, contrapponendosi ad una crescente area marginale degli esclusi a vario grado respinti. I primi, mobili, che accettano i controlli tecnologici, i secondi ancora più vincolati, e fermi.
Siamo davanti ad un enorme punto di ambiguità. Un’autentica contraddizione che non si può sciogliere con la ‘strategia dello struzzo’, ma neppure correndo liberamente dove indica la tecnica.
La contraddizione non si può sciogliere con l’affido ad un’altra tecnica, sia essa quella economica (come vorrebbe Confindustria) sia essa quella giuridica (come vorrebbero molti difensori della “libertà” codificata e borghese). Occorre che sia presa in carico dalla politica costituente. E che questa sia diretta dalla politicizzazione diffusa, e non dalla prima o seconda, ma neppure dalla terza tecnica implicata, quella del governo.
Questa è dunque una delle arene di maggiore rilevanza e di più grande delicatezza che avremo davanti a medio termine, nell’arco dei prossimi due o tre anni. La protezione sociale è necessaria e sempre di più lo sarà, ma deve andare di pari passo alla consapevole condivisione della propria produzione di informazione e nel potenziamento e difesa del “diritto alla città”, ovvero il diritto di ciascuno (diritto sociale, non civile) a disporre di un’esperienza spaziale adeguata a sostenerne la vita e non segregante.
La questione centrale, da rivendicare in modo aspro, insistito e assolutamente intransigente è che attraverso un’ampia discussione collettiva, cui i vari saperi tecnici saranno abilitati a partecipare, ma senza avere l’unica parola, sia posta la questione decisiva del soggetto che è legittimato a chiedere che tipo di territorio vogliamo, che persone vogliamo essere, a quali rapporti sociali aspiriamo, che rapporto intendiamo promuovere con la natura, e, naturalmente, con le tecnologie che riteniamo convenienti.
Bisogna essere chiari, il “diritto alla città” non è un diritto individuale di accesso alle risorse originariamente concentrate nella città stessa, non è il diritto al consumo: piuttosto è il diritto a cambiare insieme alla città, in modo da renderla conforme ai desideri, insieme scoprendoli. Non è una cosa nuova: la visione originaria del socialismo consisteva proprio in questa idea secondo la quale in futuro le società potranno essere interamente ristrutturate secondo il modello di una spontanea comunità solidale per impulso dei propri stessi membri. Cioè per una capacità da essi stessi sviluppata a orientarsi spontaneamente gli uni verso gli altri, superando l’egoismo e dedicandosi ognuno in modo disinteressato all’autorealizzazione dell’altro.
La creazione di informazione, e la consapevolezza insieme della comune interdipendenza, cosa che può essere il frutto migliore di questa esperienza tragica può essere anche occasione per comprendere, finalmente, che gli esseri umani non possono essere liberi da soli, ma solo entro relazioni sociali che li rendano tali, cioè entro la “libertà sociale”[35] che il socialismo intende istituire. Non si tratta solo di realizzare un sistema distributivo più giusto (ottenendo l’uguaglianza, magari al prezzo di un potenziamento dell’amministrazione), ma anche ed insieme di creare le condizioni di una nuova forma di vita comunitaria. Consapevoli della nostra comune compresenza.
Una forma in cui la “libertà” sia determinante sia sul piano dell’individuo, che si orienta verso la comunità per la soddisfazione delle sue finalità (in primis quella di base della propria sicurezza), sia su quello della comunità stessa, che è una creazione consensuale della “fratellanza”, ovvero della “simpatia” reciproca (termine presente nei moralisti settecenteschi, in particolare scozzesi). La cosa è abbastanza semplice da capire: noi stessi usiamo spesso il termine comunità, intendendo una condivisione di finalità ed un senso di comunanza e reciproca simpatia (che si manifesta automaticamente, ad esempio, quando due connazionali si incontrano in un paese estero non familiare) che porta ad un certo grado di disponibilità a farsi carico dei bisogni dell’altro, ovvero un certo grado di essere-sé nell’altro pure nel quadro di unità anonime.
Però la vera via di uscita, per evitare tutto ciò deve essere molto di più. Una profonda razionalizzazione degli apparati produttivi e delle macchine territoriali, riducendo l’inutile differenziazione dei prodotti e le tante fonti di lavoro improduttivo, scegliendo quali attività sono in effetti superflue, inutili, dannose, quali forme di solitudine nella folla sono da disincentivare.
Perché non si crei una forma di sovranità della sorveglianza, un ipercapitalismo ancora più pervasivo ed esteso alla vita, bisogna che sia grande l’attenzione su questo passaggio. Serve un grande lavoro collettivo, a regia pubblica, volto ad ampliare sia l’indipendenza del paese sia la sua robustezza, garantendo la partecipazione di tutti alla produzione, alla sua organizzazione, alla vita, ai suoi frutti.
La battaglia è cruciale. Se la questione posta, nella gestione della crisi, è la questione della sovranità, nel superamento ormai necessario della sua forma “neoliberale”, abbiamo davanti due strade:
– una “sovranità iperliberista”, nella quale ad un massimo di controllo segue un minimo di politica[36];
– o una nuova “sovranità ripoliticizzata” che si ancori in basso e renda possibile la “libertà sociale”.
E’ del tutto chiaro, né si potrebbe avere dubbio, che l’attuale governo (anzi tutti i governi dell’occidente, con varie sfumature), persegue per volontà e per automatismo la prima strada e cerca di cogliere l’occasione per impiantare una “sovranità iperliberista”.
E’ del tutto ovvio che noi, dobbiamo essere contro. Ma non come gli struzzi, dobbiamo invece imporre che dalla crisi emerga una nuova sovranità, finalmente politica.
Socialismo o barbarie.
[1] – Come scrive Carlo Galli, “paura della morte, calcolo razionale dell’utilità, esigenza di pensare la politica come artificio pattizio fortemente unitario che con la legge dà consistenza e sicurezza a una società di uguali, sempre aperta al rischio di dissoluzione; questi sono i caratteri della sovranità razionale” (Carlo Galli, “Sovranità”, Il Mulino 2019, p.79).
[2] – Giorgio Agamben, “Homo Sacer”, 1995-2018
[3] – “Stato di eccezione” è quella condizione nella quale dalla decisione, ovvero dalla lacuna nell’ordine, scaturisce la determinazione di un nuovo ordine. La creazione della sovranità non deriva dalla procedura, perché è questa ad essere giù istituita, ma da un miracolo istituente, una dimensione, sostiene Carl Schmitt, “teologico-politica”, (cfr “Teologia politica”, 1922). Una causa incausata. Quindi una “origine”. Anche se parte dalle lacune, dai vuoti interstiziali esistenti.
[4] – Si veda “Le ripartenze: delle attività o dell’epidemia?”.
[5] – Si veda “Il martello e la danza”.
[6] – Ferguson NM, Laydon D, Nedjati-Gilani G, Imai N, Ainslie K, Baguelin M et al. (2020) Impact of non-pharmaceutical interventions (NPIs) to reduce COVID-19 mortality and healthcare demand. Imperial College COVID-19 Response Team, London, March, 16.
[7] – Il Dipartimento della Protezione Civile ha predisposto al riguardo uno schema che classifica i diversi territori, o meglio il rischio cui sono sottoposti, in funzione dell’incidenza del virus rispetto alla dotazione di strutture di contenimento e trattamento. Le seconde le possiamo potenziare, ma ci sono dei limiti, si possono costruire in teoria quanti posti di ventilazione e soccorso possibili, per “reggere” i picchi, ma quel che non è altrettanto facile fare è istruire medici ed infermieri.
[8] – Peto J et al. (25 co-autori), lettera inviata a The Lancet, 17 aprile 2020.
[9] – Mi riferisco al film “Elysium”, del 2013, diretto da Neill Blomkamp, con Matt Damon e Jodie Foster.
[10] – Cfr. “Coronavirus. Chi è il vero nemico?”.
[11] – La logica specifica della cosiddetta “Unione” europea è uno schema d’ordine, un bondage, nel quale le coalizioni egemoni di alcuni paesi, con la complicità di quelle di altri, creano dei recinti di caccia interni per aumentare la propria capacità competitiva nel mondo grande “esterno”. Un progetto tecnicamente imperiale con alcune fortezze, molti aristocratici, e delle periferie interne. Va così da sempre. Naturalmente parte del legame sono le tante belle parole con le quali il guanto di ferro è rivestito.
[12] – Non è affatto un caso, perché l’età moderna nasce dalla paura, c’è paura sempre ed ovunque (Lucien Febvre, “Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais”, Einaudi, 1978, p.380). È questa l’enorme forza dalla quale scaturisce la soluzione liberale del “male minore” (Jean -Claude Michéa, “L’impero del male minore”, 2007) E dalla quale scaturisce l’affidamento al sistema della tecnoscienza, la cui prima e più essenziale incarnazione è il sanitario.
[13] – Dato che questo al massimo si ritira lontano dallo sguardo e dalle mani dei cittadini, divenuti troppo esigenti, i quali retrocedono per questa via a sudditi. Mi riferisco ovviamente al deficit di democrazia dell’Unione Europea. Deficit che è, si badi bene, del tutto strutturale e non casuale. Ad esempio si può leggere Peter Mair, “Governare il vuoto”, 2016.
[14] – Racconto fatto dal povero “beneficiario” di tale immane prezzo in televisione ad un talk show di questi giorni.
[15] – Per fare un esempio, anche durante i processi di state-building del periodo della decolonizzazione (1945-75) è attraverso l’estensione di servizi sanitari che è stata spesso cementata la proposta di legittimazione del nuovo stato.
[16] – Istituito con la legge 833/1978 in forma di un diritto universale, in attuazione del dettato costituzionale che definisce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. La distribuzione delle risorse, al fine di garantire l’uniformità del servizio, era affidata ad un Piano Sanitario Nazionale ed a livello locale nelle Unità Sanitarie Locali.
[17] – Le riforme che stravolgono questo sistema sono orientate alla riduzione ed efficientamento della spesa sanitaria ai fini espressi ed espliciti di consentire al paese l’adesione all’Unione Europea, costituita secondo parametri di tipo liberista. Ne fa espressione il D.Lgs 502/1992, che trasforma le Usl in Asl, sottoponendole a criteri di mera efficienza economica. Ma è stata anche investita dalle contemporanee e sinergiche (nell’indebolimento dello stato centrale) spinte separatiste, fino alla riforma del “titolo V” (legge costituzionale 3/2001) che ha portato alla definizione regionale della sanità italiana. Svolge particolare rilevanza il D.Lgs 56/2000 che rende autonoma la fiscalità regionale
[18] – La spesa sanitaria italiana è scesa in particolare nel periodo 2010-18, cumulando una riduzione di circa 37 miliardi (su circa 120) e rispetto al Pil attestandosi al 6,85% (rispetto al massimo del 7,4%). Il numero di posti letto è di 3,18 posti per mille abitanti, inferiore alla media Ocse (4,73) e persino alla povera Grecia (4,21). Per un confronto, la Germania ne ha più del doppio (8) e la Francia poco meno del doppio (5,96).
[19] – Si veda Matteo Samarani, “Sanità pubblica: un diritto da preservare dalle logiche di mercato”, 2020.
[20] – La differenza tra le misure (con, al momento, più o meno la metà dei cittadini del mondo in Lock Down, a vari gradi) deriva solo dal grado di allarme, e quindi, precisamente, dal grado di minaccia alla legittimazione.
[21] – Il Dipartimento della Protezione Civile ha predisposto al riguardo uno schema che classifica i diversi territori, o meglio il rischio cui sono sottoposti, in funzione dell’incidenza del virus rispetto alla dotazione di strutture di contenimento e trattamento. Le seconde le possiamo potenziare, ma ci sono dei limiti, si possono costruire in teoria quanti posti di ventilazione e soccorso possibili, per “reggere” i picchi, ma quel che non è altrettanto facile fare è istruire medici ed infermieri.
[22] – Faccio un esempio, Roma ha circa 13 milioni di visite turistiche all’anno, di cui la metà di fascia alta. La spesa diretta di questi turisti è stimata ufficialmente in 7 miliardi (più magari 1 altro miliardo semisommerso dovuto ad Airbnb), il 12% del Pil della città. Complessivamente in Italia sono 100 milioni di visite turistiche. Lavorano nel settore nella capitale poco più di 30.000 persone su 1.700.000, ma c’è un consistente indotto nei settori del commercio, della ristorazione, e ci sono 100 milioni di incassi del Comune per tassa di soggiorno. Il saldo complessivo del turismo vede spese in Italia per circa 40 miliardi e spese all’estero (dei turisti italiani) per 24 miliardi, è quindi una voce attiva della nostra bilancia commerciale.
[23] – Che di fronte ad una minaccia reagisce negandola e mettendo la testa nel terreno.
[24] – Anche se ci sono significative difficoltà tecniche è una cosa in corso di appalto e sta per partire, 150.000 analisi, cui seguiranno altrettante, per avere una mappa abbastanza affidabile per dimensione del campione ed articolata dell’impatto del virus sulla popolazione italiana. In modo da sapere, finalmente, quanti si sono contagiati.
[25] – La nostra capacità è una delle più alte al mondo, siamo nei primi posti per campioni effettuati, ma comunque ancora troppo bassa ed è una necessità cruciale.
[26] – Per questo bisogna potenziare le risorse umane, probabilmente con 15.000 altri addetti, secondo i parametri resi noti dalla Germania che se ne sta occupando.
[27] – In questa direzione l’Oms, in linea con gli esempi orientali, ha proposto una App sul telefonino, ma c’è una fortissima polemica, non completamente ingiustificata, sulla applicazione che sembra sia stata scelta dalla gara emanata qualche settimana fa dal Ministero dell’Innovazione. Su questo tema, per un’ampia ricostruzione si veda “Coronavirus: imparare ad applicare la danza”. Dal punto di vista tecnologico sembrerebbe che questa, come altre App immaginate per lo scopo, utilizzi il BLE (bluetoot a bassa potenza) per agganciare altri terminali attivi e segnalarsi vicendevolmente. Per renderlo interoperabile tra i diversi terminali (ad es. IPhone e altri smartphone) Apple e Google hanno rilasciato dei programmini (API). Quando il SSN segnala all’utente che è risultato positivo ad un tampone, insieme all’obbligo di quarantena gli chiede di scaricare il dato dei contatti registrati degli ultimi tot giorni (immagino venti). I dati solo allora e solo per i casi attivi arrivano sui server del Sistema Sanitario Nazionale e vengono analizzati da un software che sceglie quali devono essere avvisati e messi in quarantena (l’algoritmo includerà durata del contatto, e distanza). In questo modo si spera di rallentare la diffusione e controllarla meglio.
[28] – L’App dovrebbe offrire le seguenti garanzie di sicurezza: la scelta assunta in tutto l’occidente è di non usare il gps, più invasivo, ma il BLE (bluetoot a bassa potenza) per agganciare altri terminali attivi e segnalarsi vicendevolmente. C’è un problema di interoperabilità (ad es. IPhone e altri smartphone) per garantire la quale Apple e Google hanno rilasciato dei programmini (API), che vanno accuratamente controllati. I dati dovranno essere residenti nel terminale e non in rete. Potrebbe funzionare così: quando il SSN segnalerà all’utente che è risultato positivo ad un tampone, insieme all’obbligo di quarantena gli chiederà di scaricare il dato dei contatti registrati degli ultimi tot giorni (immagino venti). I dati solo allora e solo per i casi attivi arriveranno sui server del Sistema Sanitario Nazionale e verranno analizzati da un software che sceglierà quali devono essere avvisati e messi in quarantena (l’algoritmo includerà durata del contatto, e distanza). A questo punto, pena l’inutilità, dovrà arrivare tempestivamente una squadra ed eseguire il tampone. Dopo pochi giorni si saprà se la quarantena resta confermata.
[29] – La cosa si rende necessaria perché l’uso della tecnologia BLE ha forti limiti presa isolatamente. Dato che non geolocalizza l’utente, come quella coreana, l’utilità ai fini della tracciatura è molto relativa perché non si possono sapere quali luoghi (ad esempio una festa) potrebbero essere stati luoghi di proliferazione e, se non ci sono il 100% della app installate, scapperà sempre molto. Inoltre, è molto dubbio che si possa stimare la distanza con qualche precisione, quindi si rischiano tanti “falsi positivi” (ci stanno lavorando, ma ci vorrà molto tempo per settare le soluzioni basate su un algoritmo che “stimi” la distanza nelle diverse situazioni). Infine, è chiaro, è tanto più utile quanto più persone le scaricano e quanti più tamponi si fanno.
[30] – Si potrebbe arrivare, se non vogliamo restare a lungo in stato di semisospensione (con i treni al 20% della capacità, prenotazioni di settimane per salirci, aerei a terra perché il numero di passeggeri non giustifica il carburante, navi da crociera rottamate, e via dicendo), alla situazione nella quale se domani se vorremo prendere un aereo, o forse anche un treno, dovremo poter dimostrare di non essere entrati in contatto con persone potenzialmente infette, o aver attraversato aree a rischio, negli ultimi venti giorni. Ciò per proteggere gli altri, ed in particolare i più deboli. E una tale certificazione, abbastanza inevitabilmente, potrà essere prodotta solo da un sistema informatico come quello descritto (peraltro in tempo reale e senza sforzo).
[31] – Noi potremmo anche non accorgercene, potrebbe essere il nostro dispositivo di comunicazione (che diventerebbe obbligatorio come la carta di identità e la cui assenza potrebbe essere rilevata dai sensori), a segnalarci ed abilitarci.
[32] – La IOT territoriale, come le cosiddette “smart cities”, sono, il grande progetto in cui tutte le più grandi multinazionali e i governi più saggi sono impegnati grazie alla disponibilità tecnologica di diffondere la sorveglianza a due vie tutto intorno a noi. Un settore che, secondo Cisco, prima della crisi era stimato della potenzialità ad espandersi fino a valere 408 miliardi di dollari nel 2020 e connettere almeno 40 miliardi di dispositivi. Attraverso sensori e dispositivi di comunicazione inclusi su oggetti, persone e manufatti (l”Internet delle cose”) potranno essere trasmessi nelle due direzioni dati su consumi e desideri, richieste ed informazioni, e potranno essere ricordati che cosa diciamo, con chi e quando. Sempre. “La rete” ricorderà tutto. Un simile progetto ha l’ambiguo potenziale di servire insieme due scopi di disciplinamento: verso il cittadino reso debole e marginale renderà possibile erogare servizi, svaghi, e creare relazioni a basso costo (al limite nullo), metterà in contatto, ma contemporaneamente, nello stesso esatto gesto, sorveglierà ogni evento, desiderio, contatto e relazione, prevenendo (grazie all’uso di software previsionali e capaci di interpretare i segnali statisticamente più rilevanti) la formazione del dissenso, o meglio il suo addensamento. Una simile infrastruttura potenzierebbe il controllo territoriale attraverso la diffusione di software di riconoscimento facciale, e/o segnali attivi dagli oggetti che abbiamo con noi, in grado di comunicare in tempo reale intorno a noi ciò che di rilevante ci riguardi (a negozi, fornitori di servizi, agenti di polizia). Insomma, l’internet delle cose e la smart city che ne è l’estensione in una società “a coda lunga” può diventare indispensabile. Può contenerci e circondarci.
[33] – Nella marea di interventi medici che si susseguono, con una sorta di assalto alla pubblica visibilità ed a intestarsi patenti di esperto, salvatore, finanche eroe, nel quale medici senza alcuna fama riconoscibile, o con poche pubblicazioni rintracciabili si improvvisano sedicenti “quasi-nobel” o grandi specialisti ed invariabilmente si scelgono il proprio pubblico (quello dei ‘complottisti’ o quello dei ‘maturi e moderati’) e parlano per esso, la confusione è massima. Ma peraltro normale. Del poco che si può dire c’è che è un virus molto infettivo, con molti casi non manifesti ma contagiosi, che se si impianta dopo una decina di giorni e supera le prime difese naturali crea una pericolosa polmonite bilaterale (che non è mai e per nessuno una passeggiata) e in alcuni casi una ipereazione del sistema immunitario che induce complicazioni a volte fatali. Il virus, insomma, uccide, direttamente o indirettamente. Ma soprattutto impegna in modo estremamente severo l’intero sistema sanitario che nei paesi ricchi è stato posto sotto dieta dimagrante ben oltre il prudente da quaranta anni di neoliberismo. Le sue caratteristiche, con una mortalità bassa in casi ottimale e severa in casi di tracollo tecnico-organizzativo dei presidi ospedalieri e grandissima capacità di diffusione, sono quasi esattamente perfette per far crollare le nostre fragili società.
[34] – Quella forma di ineguaglianza che deriva dalla incapacità, o indisponibilità, a disporre di strumenti digitali adeguati ad essere abilitati.
[35] – Termine che riprendo dalla tradizione hegeliana, ed in particolare dalla lettura di questa fornita da Axel Honneth, “Il diritto della libertà”, Codice, 2015.
[36] – Questo sembra il timore fondamentale di Carlo Galli in “Il principio del ciclista”.
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2020/04/paura-governo-sovranita-e-coronavirus.html
Commenti recenti