Gioventù senza futuro ma europeista: qualcosa non quadra?
di L’ANTIDIPLOMATICO (Robin Piazzo*)
La questione non riguarda solo il Regno Unito. In molti paesi del mondo occidentale una parte della popolazione, spesso giovane e ben istruita, si sta radicalizzando a sinistra per via della chiusura di opportunità e del peggioramento di condizione economica. Eppure quest’area fatica a fare i conti col fatto che molte delle tendenze che stanno peggiorando i livelli di vita dei giovani in Europa sono causate o comunque rinforzate dalle politiche economiche promosse dall’Unione Europea. Nelle prossime righe tenteremo di scavare in questo apparente paradosso.
Premessa. Materialisti e post-materialisti
Alberto Melucci, il più noto studioso italiano di movimenti sociali, è stato uno dei primi a spiegare in maniera convincente il declino del protagonismo politico della classe operaia. La spiegazione è tutto sommato semplice: le mobilitazioni di classe si basavano su di una solidarietà di fatto, figlia di una situazione in cui larga parte della popolazione occidentale viveva in una condizione occupazionale tale da renderla parecchio omogenea a livello di interessi e cultura. I decenni ’60-’70-’80 hanno visto invece emergere, dapprima accanto e poi al posto delle rivendicazioni di classe, le lotte dei nuovi movimenti ecologisti, femministi, libertari e anti-tradizionalisti.
A spiegare il mutamento di orizzonte conflittuale ci sono tre grandi mutamenti di struttura sociale, secondo Melucci. Ovvero: crescenti livelli di istruzione, creazione di un vasto ceto medio per effetto dello sviluppo economico e maggiori livelli di informazione ed interconnessione. Questi mutamenti hanno permesso agli individui di ottenere le risorse culturali che permettono loro di pensare all’identità non come ad un dato legato alla propria condizione all’interno della catena produttiva e nella geografia, ma come ad un processo di costruzione e scoperta del proprio sé più intimo e profondo. I movimenti diventano quindi degli spazi collettivi dove, assieme ad altre persone, cercare di elaborare un’identità collettiva e di esprimere sé stessi.
Fine delle classi sociali, dunque? Non proprio. Un altro autore della sociologia mainstream, Ronald Inglehart, ci aiuta a capire che alla radice dell’apparente fine di salienza della lotta di classe risiede una dinamica strutturale che riguarda il mutamento della composizione di classe delle società occidentali. Inglehart è un sociologo noioso, molto quantitativo e meno evocativo di Melucci e degli altri filosofi della post-modernità; ma proprio per questo può dare quel tocco di concretezza che permette all’analisi di non sfigurarsi interpretando male le proporzioni dei fenomeni.
Inglehart è noto per aver partorito il concetto di post-materialismo. Secondo Inglehart i valori degli individui sono “causati” da due fattori: livello di istruzione e sicurezza di vita esperita nella fase formativa – infanzia e giovinezza. Quanto più si è istruiti e si è cresciuti senza doversi confrontare con miseria e paura di morire, tanto più si tenderà ad aderire a valori di tipo “post-materialista”, ovvero legati alla libertà, all’espressione di sé, al rispetto per l’ambiente, l’eguaglianza di genere, al rispetto per le minoranze e al cosmopolitismo. Quanto più si ha istruzione bassa e si è cresciuti nell’insicurezza, tanto più si tende a dare priorità alla sicurezza materiale ed economica e ad avere una propensione a concepire sé stessi su un orizzonte identitario più ristretto, nella regione o nella nazione. Esiste quindi un conflitto valoriale tra materialisti e post-materialisti, siccome risultano opposti su quasi ogni aspetto della scala valoriale.
Dunque non è che le classi sono sparite o non sono più salienti. Più che altro è accaduto che le classi medie si sono espanse enormemente ed una parte importante di queste ha cominciato a maturare possibilità e modi di pensare che prima erano state privilegio delle elites del potere e della cultura, cominciando ad assomigliare a queste, per certi versi, più che a chi aveva animato il ciclo di lotte precedente.
Detto ciò, cosa ha combinato il post-materialismo alla politica occidentale è facile intuirlo. La tesi di chi scrive è che il post-materialismo sia al contempo croce e delizia per chi spera nell’emancipazione dei popoli. I meriti del post-materialismo sono evidenti: le rivoluzioni non si possono fare senza persone capaci di immaginare un futuro diverso, e mai prima di oggi sono esistite così tante persone che hanno le risorse per fare ciò. E queste persone hanno una mentalità aperta e lungimirante, assieme all’indiscutibile pregio di non essere parte di una ristretta elite, ma di essere, esse stesse, popolo esposto agli accidenti di una Storia sempre più burrascosa. Cittadini comuni istruiti e libertari, delizia della democrazia.
Ma accanto agli aspetti positivi, occorre riconoscere senza pietà limiti e tic dei post-materialisti per capirci qualcosa di più e uscire dall’empasse in cui le lotte di emancipazione sembrano essersi cacciate. lllustrerò qui di seguito due eventi che spiegano bene i cortocircuiti e i limiti strutturali della soggettività post-materialista, per poi formulare una possibilità alternativa.
Il Maggio francese: il trailer di cosa sarebbe accaduto col populismo del ventunesimo secolo
Il primo caso studio è quello del ’68 francese, che dapprima ha visto una stretta alleanza tra operai materialisti e giovani studenti post-materialisti. L’alleanza si è sciolta proprio nel momento in cui la divergenza di interessi è divenuta palese: gli operai interessati a concessioni salariali e di welfare hanno mollato la presa non appena hanno capito che i giovani post-materialisti, i quali davano per scontato un certo livello di benessere e davano priorità al mutamento rivoluzionario della società in senso comunitario, erano disposti a portare avanti la lotta anche a rischio di compromettere la stabilità della società.
I risultati delle elezioni francesi del ’68 – dopo l’insurrezione – sono un manuale di ciò che sarebbe accaduto quarant’anni dopo con l’ascesa del populismo di destra. Da una parte si assiste ad un importante spostamento di soggetti istruiti e di ceto medio e medio-alto verso i partiti di sinistra che avevano sostenuto l’insurrezione; dall’altro, una importante parte della Francia materialista, operai e piccoli imprenditori commerciali e artigiani, si sposta con forza verso il voto d’ordine a De Gaulle, preferendo la stabilità della conservazione ai rischi aperti da una parentesi rivoluzionaria – che avrebbe probabilmente colpito più duramente i ceti medio bassi e il cui rischio era sentito più chiaramente dai soggetti materialisti. Il fenomeno in realtà si è ripetuto in quasi tutto l’Occidente e gli osservatori con l’occhio allenato sanno riconoscere che le dinamiche di classe che hanno portato all’ascesa della destra populista non sono poi troppo diverse da quelle che portarono al tracollo della sinistra francese nel ’68.
Post-materialisti contro materialisti nell’Unione Europea: il caso del Labour Party
Qualche giorno fa è uscito un sondaggio di CISE sull’opinione dei cittadini italiani rispetto alla permanenza dell’Italia nell’UE. Dal sondaggio viene fuori che le risposte seguono perfettamente le previsioni di Inglehart e il caso studio del ’68 francese: benestanti e giovani hanno una maggiore propensione a voler rimanere nella UE, mentre operai, disoccupati e piccoli commercianti e artigiani optano per l’Italexit.
Non è questione di stabilire chi abbia ragione. Il punto più che altro è capire cosa produce queste differenza di propensione. L’idea che mi sono fatto è che l’essere umano tende normalmente a formulare la propria opinione politica proiettando la propria esperienza personale e i propri valori sui macro temi che incontra nel dibattito pubblico. Così l’uomo che ha avuto la fortuna di ottenere successo nella vita tenderà ad essere uno strenuo sostenitore della meritocrazia; allo stesso modo il giovane tollerante, aperto, curioso, istruito, abituato ai flussi di informazione globale tramite social e cresciuto in una condizione di relativa tranquillità economica tenderà a desiderare un mondo senza confini. Alla stessa maniera chi si percepisce economicamente più vulnerabile e magari è dotato di un orizzonte culturale più ristretto tenderà a ricercare la protezione delle frontiere nazionali.
La posizione di ceti bassi – anti UE – e alti – pro UE – è perfettamente logica e razionale, molto più di quanto parrebbe nel dibattito pubblico. É una posizione estremamente coerente con le condizioni economiche e culturali di queste fasce di popolo. I ricchi cercano di agganciare i flussi globali perché ciò reca loro beneficio e poco stress culturale – sanno maneggiare la differenza; i “poveri” cercano protezione e riparo dagli scambi globali – che li hanno inginocchiati – e da flussi culturali e dimensioni decisionali che li mettono a disagio. Tutto com’era nel ’68: c’è chi si ritiene di potersi permettere il rischio e chi no.
C’è solo una sezione demografica che, pur rimanendo dalla parte dello schieramento post-materialista, pare essere completamente fuori fase. Sono i giovani. Post-materialisti e cosmopoliti nel cuore, come nel ’68, non hanno però più la possibilità, a differenza del ’68, di poter pensare di poggiare i piedi su di un terreno economico stabile, a differenza dei post-materialisti più anziani. Al contrario: a livello materiale i giovani sono forse la fascia di popolo più impoverita e in condizioni di maggiore precarietà a partire dalla crisi del 2008. Come ha recentemente mostrato Keir Milburn, ai giovani occidentali gioverebbe un ritorno alle protezioni sociali e alle politiche di piena occupazione, le quali risultano quanto mai incompatibili con l’apparato dell’Europa reale, basata su competizione commerciale, deflazione salariale e smantellamento del Welfare. Come mai non se ne accorgono?
In verità molti se ne accorgono. E se ne accorgono prima laddove la mercatizzazione e la riduzione delle protezioni sociali è iniziata prima, ovvero nel mondo anglosassone. Questo dato spiega in larghissima parte i successi tra i giovani della proposta anti-Austerity di Sanders e Corbyn.
Ma cosa succede quando i giovani della generazione più istruita di sempre, nati nell’agio e scopertisi poveri crescendo, devono fare delle scelte politiche? Come tutti, tendono a proiettare la propria esperienza ed i propri valori sulle questioni macro. E dunque: in politica economica svoltano a sinistra perché sono egualitari e perché sentono il morso della “durezza del vivere”. Sui temi culturali e di convivenza sono iper-libertari – libertarismo che, abbinato alla postura critica in politica economica, porta Inglehart a coniare la nuova etichetta di “populisti libertari”.
Cosa succede invece quando la scelta è più complessa, ovvero laddove l’orizzonte materialista e quello post-materialista tendono a essere inconciliabili? Laddove, ovvero, un fenomeno che rappresenta una valenza positiva per i valori libertari e cosmopoliti dei giovani si trova ad avere effetti negativi sulla loro classe sociale?
I giovani corbynisti del Labour Party si sono trovati a dover fare questa scelta, da una posizione di consapevolezza per certi versi incomparabile rispetto a quella dei giovani italiani. Frammento più avanzato della working-class post-materialista, i giovani corbynisti hanno sempre avuto chiaro che l’UE, per come è stata architettata, è per loro un nemico di classe. Al contempo però, l’UE rappresenta, almeno in teoria, un ideale di cosmopolitismo e cooperazione tra popoli: concetti molto cari ai post-materialisti, tanto più che l’UE è stata combattuta in UK soprattutto da una destra liberista, xenofoba e retrograda come poche.
Come è finita la storia lo sappiamo tutti. Il Labour Party è stato squassato dalle lotte interne rispetto alla posizione da tenere sulla Brexit, con i giovani corbynisti che hanno, in larghissima parte, preferito credere nella possibilità di cambiare l’UE, rimanendovi dentro, piuttosto che rinunciare a seguire ciò che il loro istinto post-materialista indica loro.
Il riflesso pavloviano dei giovani post-materialisti
Come si diceva, classe, valori e scelte politiche sono profondamente legati tra loro. Questo perché normalmente gli individui formulano opinioni politiche proiettando le proprie esperienze e i propri valori sui temi macro. Così facendo, però, non c’è davvero una riflessione sulla realtà. Non riflettono i materialisti, forse perché hanno meno risorse o più fretta, e seguono i nuovi barbari populisti. Ma non riflettono neanche i post-materialisti e i giovani cosmopoliti; lasciati a sé stessi non si interrogano sulla reale valenza delle istituzioni e dei fatti politici, ma tendono ad agire secondo un riflesso pavloviano: cosmopolita/globalista=buono, sovranista/statalista=cattivo. Il problema è che, nel contesto europeo e per quanto riguarda gli interessi materiali dei giovani sempre più impoveriti, le categorie in gioco non reggono. E così i giovani progressisti finiscono, inconsapevolmente, ad allearsi e a fare il gioco dei ricchi e dei sostenitori incrollabili del capitalismo predatore, schierandosi contro e disprezzando le fasce di popolazione che condividono con loro la condizione di sprofondamento materiale.
Le propensioni dettate dalla struttura sociale sono qui a dettare la propria ferrea legge probabilistica e i giovani riflessivi non sono più riflessivi dei vecchi populisti. Ognuno tende a seguire ciò che il proprio istinto intellettuale gli suggerisce, proiettando i propri valori ed esperienze di vita sui fatti macro. Ma c’è anche un modo diverso di vedere e pensare: invece di proiettare i propri valori ed esperienze sui fatti macro si può provare a vedere i fatti macro nella nostra esperienza quotidiana.
I due meccanismi sono esattamente agli antipodi. Nel primo caso si tende a proiettare meccanicamente la propria esperienza: chi ha successo, secondo questa logica, tende a sostenere la meritocrazia perché crede che il successo sia possibile per tutti. Nel secondo caso, invece, si tratta di imparare a pensare diversamente rispetto a come si è abituati, attraverso un processo che potremmo definire di scoperta e conversione. Scoprire il macro che c’è nella nostra vita micro vuol dire, ad esempio, scoprire che sono disoccupato non perché ho avuto sfortuna o non sono stato bravo, ma perché il capitalismo oggi funziona così; e se il capitalismo funziona così e non è un caso o incapacità personale, vuol dire che siamo tanti a vivere nella stessa condizione.
Attuare la seconda modalità di relazione tra esperienza personale e società è difficile, se si è da soli. Contravviene alla tendenza naturale dell’uomo a proiettare da sè sulla società piuttosto che vedere la società che c’è nel sé. Ma solo questa seconda modalità è pienamente riflessiva, perché supera – si perdoni il gioco di parole – il riflesso condizionato iscritto nel nostro DNA culturale.
Ed è una riflessione che non può che essere collettiva. Sia perché richiede un meccanismo di riconoscimento tra soggetti, che scoprendo ciò che hanno in comune fanno una sintesi, creando una nuova spiegazione della propria posizione sociale, diversa da ciò che le forze egemoni e il proprio istinto culturale proporrebbero. Ma anche perché, ormai lo sappiamo, solo i gruppi organizzati – movimenti e partiti – sono in grado di scardinare e sovvertire le propensioni sociali statisticamente rilevate. Ad esempio, laddove normalmente sono i benestanti ad avere la propensione a partecipare di più, la forza delle organizzazioni di massa è quella di creare una solidarietà tanto forte da soverchiare la propensione naturale; tanto che, nel corso del ‘900, non di rado i ceti popolari e deprivati hanno partecipato ben di più di quelli benestanti, contrariamente alla normale tendenza statistica.
Alla stessa maniera, l’auspicio è che i millennials e la generazione Z sappiano dare vita a nuove solidarietà volontaristiche radicate in organizzazioni partitiche forti, capaci di ribaltare la naturale tendenza a soccombere ai tic post-materialistici. Non c’è altra alternativa, per gli amanti della libertà: bisogna ribellarsi ora e ripristinare un benessere economico per tutti o tutto sarà stato invano. Se l’insicurezza materiale tornerà a trionfare, il post-materialismo libertario verrà spazzato dalla storia e si tornerà ad una società più povera e retrograda. Non conviene a nessuno.
* Robin Piazzo sta completando un PhD in Sociologia presso il NASP di Milano, con una tesi sul Labour di Corbyn. Ha svolto ricerche sociologiche sulla destra identitaria, la differenza culturale, la riconciliazione in contesti post-genocidio, i bilanci partecipativi e l’antimafia sociale. Nel tempo libero si diverte ad organizzare manifestazioni contro Salvini ed eventi hipster-intellettuali nel centro giovani di provincia DEGA Urban Lab, di cui è vice-presidente.
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