Erdoğan e Macron: le libertà francesi alla prova della geopolitica
di LA FIONDA (Lorenzo Palaia)
Sta creando tensione trasversale, dall’Europa occidentale al Golfo Persico e oltre, il conflitto verbale innescatosi tra il Presidente turco Erdoğan e quello francese Macron. Mentre quest’articolo viene scritto, decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Dacca, Bangladesh, dando alle fiamme immagini del Capo dell’Eliseo. Riassumiamo brevemente gli eventi.
In un recente discorso pubblico Erdoğan ha dato del matto al suo omologo d’Oltralpe, accusandolo di avere invisa la libertà religiosa e di reprimere la minoranza musulmana francese. Oltre a consigliargli quindi di consultare un medico, ha paragonato la condizione dei musulmani francesi a quella degli ebrei in Europa prima della Shoah. La Francia ha richiamato l’ambasciatore per consultazioni, innescando una crisi che ha costretto le cancellerie e la stampa europee a prendere posizione in maniera più o meno netta, e dall’altra parte causando la chiamata al boicottaggio delle merci francesi. Quest’iniziativa, partita da associazioni del commercio dei Paesi del Golfo (Qatar e Kuwait in primis), è stata sùbito fatta propria dalla società civile del mondo islamico, diffondendosi in maniera endemica e poi venendo rilanciata persino da alcuni Stati, inclusa la stessa Turchia. La risposta della Francia è stata speculare, con l’invito al boicottaggio delle merci turche.
Ma per capire veramente quanto successo occorre considerare un contesto molto più ampio, che comprende questioni interne alla Francia (tra cui non ultime, a partire dai fatti di cronaca, la libertà di credo e il rapporto della società francese con la minoranza musulmana), questioni geopolitiche che coinvolgono diversi Paesi europei e non, e questioni interne alla Turchia e al mondo islamico.
Prendiamola alla larga e consideriamo quello che negli ultimi mesi è accaduto al largo delle coste anatoliche e delle isole del Dodecaneso. La disputa di lunga data tra Grecia e Turchia per le acque territoriali e il loro sfruttamento energetico ha avuto di recente una recrudescenza. In séguito alla stipula dell’accordo sulle acque tra Tripoli e la Sublime Porta di circa un anno fa, la Turchia si è vista riconosciuta dalla controparte una vasta area marina in competizione con la Grecia, e questo ha significato di conseguenza il decisivo supporto turco al Governo di Accordo Nazionale di Tripoli e il rovesciamento delle sorti della guerra civile libica (arrivata ora a un cessate il fuoco, sembra, definitivo) che ha tolto le castagne dal fuoco anche all’Italia.
Altra conseguenza è stata che Ankara ha cominciato a trattare quelle acque come fossero le proprie mandando navi a fare indagini geologiche, preludio alla ricerca e allo sfruttamento del gas, provocando l’irritazione della Grecia e di Cipro. In giugno sembrava che la mediazione della Cancelliera Merkel avesse distolto i turchi dal proseguire, ma poi l’accordo sulle acque territoriali tra Atene e il Cairo, del tutto analogo e in conflitto con quello turco-libico, ha riaperto il dissidio. A questo va aggiunto un incidente in estate con una nave francese impegnata nella missione europea di pattugliamento Irini, minacciata da un vascello militare turco con un segnale luminoso che i francesi si sono legati al dito, nonché vari altri episodi che vanno annoverati tra gli sgarbi reciproci.
Ciò che va sottolineato è che la Francia si è sùbito posta a difesa degli interessi greco-ciprioti in asse con Egitto, Haftar, Israele ed Emirati, promuovendo esercitazioni congiunte a largo di Creta. La Germania invece ha mantenuto una posizione mediana per i suoi storici legami con la Turchia, e anche l’Italia – pur partecipando all’esercitazione franco-greca – ha allo stesso tempo partecipato a un’esercitazione con Ankara, per salvaguardare noti interessi energetici e di sicurezza nel Mediterraneo orientale e in Libia. Ciononostante anche il Presidente del Consiglio – in merito alle ultime affermazioni sulla salute mentale di Macron – ha dovuto prendere le parti del Capo di Stato francese, augurandosi che la cooperazione positiva messa in piedi con la Sublime Porta non venga meno. Il nodo sta proprio nel prossimo Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, che dovrebbe decidere quale linea intraprendere nei confronti turchi e se mettere sanzioni, esito comunque improbabile vista la contrarietà di Berlino e già fallito a settembre.
Per mettere a fuoco meglio la strategia turca bisogna guardare anche a cosa succede più a Est. Oltre a intervenire direttamente per risolvere l’instabilità in Libia, Ankara dapprima è intervenuta in Siria e ora sta arbitrando il conflitto territoriale tra Armenia e Azerbaigian soccorrendo direttamente gli amici azeri. Va ricordato che mentre questi sono musulmani, gli armeni sono cristiani e “protetti” dalla Francia, anche qui in aperto contrasto con Ankara dunque. Il Governo turco ha poi provveduto a trasformare la ex Basilica di Santa Sofia, simbolo della cristianità tutta, in moschea; si è dichiarato paladino dei palestinesi – abbandonati da quasi tutti i Paesi arabi – minacciati dal Piano di annessione israelo-statunitense. Non è difficile dedurre da questi elementi la strategia politica di Erdoğan all’interno della Umma, che è quindi anche una strategia di primato religioso.
Ѐ interessante notare come la nostra opinione pubblica, oltre alle cancellerie europee, si sia schierata rispetto agli ultimissimi sviluppi, con alcuni dei più atlantisti come David Carretta critici verso la presa di posizione abbastanza netta (ma aperta al dialogo) di Giuseppe Conte, e quasi più vicini al Presidente francese che al nostro. La stessa Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, ha stigmatizzato fortemente le parole di Erdoğan rispetto al paragone con gli ebrei perseguitati, invitando il Premier a prendere una posizione più decisa. Tra i giudizi più duri vanno annoverati sicuramente quelli dell’olandese Mark Rutte e dell’austriaco Sebastian Kurz, mentre il più equilibrato è stato certamente il Premier maltese Robert Abela: «non possiamo permettere che una guerra di parole renda il mondo molto peggiore»; «speriamo che un dialogo possa ripartire al più presto». Da notare invece che la stampa cattolica italiana ha perlopiù evitato di trattare la questione.
Delineato quindi lo scontro che si sta consumando a tutti i livelli e le varie posizioni in campo, considerato che il Sultano tende a farsi garante anche dei confratelli dispersi nel Vecchio Continente, dovrebbe essere ovvio che la questione religiosa non è un affare scisso da quello geopolitico, ma che anzi l’identità culturale contribuisce a definire la parti e ha lo stesso valore del gas o della sicurezza nazionale. Mentre per il Governo di Ankara questa identità si chiama Islam, per Parigi si chiama laїcité.
Tutti ricordiamo che il 7 gennaio 2015, in un attentato terroristico islamista, furono uccise dodici persone, e tredici rimasero ferite, nella redazione del periodico satirico parigino Charlie Hebdo. La causa scatenante erano state delle vignette che prendevano di mira dileggiandola la figura di Maometto. Anni prima, nel 2005, vi era stato il precedente delle vignette danesi che aveva scatenato furibonde proteste tra i musulmani. L’attentato del 2015 aveva provocato altresì una serie di reazioni di solidarietà in Occidente, ma anche di critica. La manifestazione al grido di Je suis Charlie aveva suscitato in molti l’interrogativo se, per esprimere solidarietà alle vittime e condannare gli attentatori, bisognasse in blocco anche associarsi all’intento delle vignette e al loro contenuto.
Venne in nostro aiuto Papa Francesco che – tornando sulla questione in un viaggio in aereo verso lo Sri Lanka – dopo aver detto che uccidere in nome di Dio è un’aberrazione, dopo aver ribadito il principio della libertà di credo religioso, dopo aver sostenuto che è un dovere oltreché un diritto dire quello che si pensa, aggiunse che c’è sempre un limite che è quello dell’offesa, ché «se qualcuno offende mia madre in contraccambio si deve aspettare un pugno».
In occasione dell’inizio del processo agli attentatori questo settembre, il Presidente francese è tornato sulla questione del terrorismo islamista (che nel frattempo nel Paese aveva generato altri attentati come quello al Bataclan e i suoi 137 morti!), difendendo il diritto della libertà di espressione, anche quando irride e fino al suo estremo che giunge, testualmente, al «diritto alla blasfemia». Va notato quindi che Macron, nel condannare gli attentati e l’Islam radicale, non prende affatto le distanze dalle vignette ma le rilancia. Questa visione è stata fatta propria dal professor Samuel Paty, che ha deciso di mostrare ai suoi studenti la satira de quo per insegnare ai suoi studenti, a suo dire, la libertà di espressione.
Ѐ bene che ognuno guardi queste immagini e se ne faccia un’idea personale, in ordine a valutare se siano idonee a diventare simbolo di libertà d’espressione; ma trattandosi di valutazioni molto soggettive non vi entreremo. Qui interessa solo individuare le differenze tra diverse concezioni di libertà. L’epilogo della vicenda del povero professor Paty è noto: uno studente diciottenne ceceno, rifugiato politico nel Paese dei Lumi dal marzo scorso, lo ha decapitato e successivamente è stato fatto fuori dai gendarmi. Questa volta però non c’è stata la massiccia presa di posizione contro l’attentatore assunta nel 2015 anche da molti Capi di Stato musulmani. Il 2 ottobre Macron è tornato sulla questione in maniera più pesante che nel mese precedente. Pur ribadendo di non considerare tutti i musulmani degli estremisti, volendo fare una differenza, ha però dichiarato l’Islam una «religione in crisi in tutto il mondo» e ha proposto un «Islam illuminista».
Chi ha risposto di nuovo è stato Erdoğan, fino ad arrivare alla recente esacerbazione di cui ormai il lettore è avvertito. Come Macron intenda creare questo “Islam illuminato” è presto detto: una riforma della legge del 1905 che regola i rapporti tra Stato e Chiesa. Tra le novità dovrebbe esserci, oltre a un controllo sui finanziamenti alle moschee, anche una forma di certificazione degli imam, sulla cui educazione e nomina il Governo dovrebbe avere una qualche consistente parte. Inoltre la norma metterebbe uno stop al loro distaccamento da altri Paesi, dovendo essere certificati made in France. Riforma riporta che l’incontro al Ministero dell’Interno con le rappresentanze delle varie confessioni (la legge deve avere carattere di astrattezza e si rivolge quindi a tutti) ha suscitato qualche perplessità e cautela, riassumibile con «attendiamo di vedere il testo».
Yasser Louati, del Comité Justice e Libertés pour Tous, sottolinea come il concetto di «separatismo», che Macron usa per definire un certo tipo di Islam, venga direttamente dal linguaggio coloniale con cui si additavano dalla Francia i movimenti indipendentisti. La critica che molti musulmani francesi rivolgono al loro Presidente è che egli abbia deciso, nonostante i distinguo verbali, di coinvolgerli tutti in questa crociata. La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon è forse l’unico partito che porta avanti una posizione diversificata, soprattutto mettendo in luce le condizioni materiali oggettivamente svantaggiate in cui la minoranza musulmana francese vive. Ma proprio a sinistra, come sempre in quanto luogo di confine, si vedono le difficoltà e le contraddizioni di tale dibattito, riportato in un bell’articolo di Emre Öngün su Jacobin Italia. Anche i più critici sono divisi tra la necessità di riconoscere l’islamofobia come elemento principale del razzismo nella società francese – mentre la destra al contrario parla di “cattofobia” – e la formulazione tipicamente illuminista di un preteso diritto a entrambe (a essere islamofobi o cattofobi) in quanto manifestazioni del pensiero. Ecco quindi il nocciolo della libertà francese, ovverosia il «diritto alla blasfemia» rivendicato dal Presidente Macron.
Ѐ una dottrina molto diversa da quella della Chiesa cattolica, ma anche da quella giuridica italiana che punisce le offese al sentimento religioso in quanto sentimento della comunità. La laїcité si configura come la spinta della religione all’interno delle mura domestiche e dei luoghi di culto, come un fatto privato che non entra nella vita pubblica, salvo poi farlo di prepotenza a colpi d’arma da fuoco. Alcuni denunciano che la legge del 2004 sul divieto dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, che ha vietato alle donne di indossare il velo, sia stata frutto di un’errata interpretazione della laicità: da neutralità dell’amministrazione rispetto al credo, a neutralità dei privati che frequentano i luoghi pubblici. Ma questa lettura rimane invero minoritaria anche se la legge si configura come una discriminazione de facto verso i musulmani, dal momento che gli unici a non dover modificare il loro comportamento sono i perlopiù atei e agnostici francesi.
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