Neanche la morte violenta di Sheikh Mohammad Adnan Afyouni, il mufti di Damasco ucciso il 22 ottobre scorso con una carica di esplosivo nella sua auto, è riuscita a riportare l’attenzione sulla Siria. Afyouni aveva svolto un ruolo importante nelle trattative per la tregua tra i gruppi armati dei sobborghi della capitale e l’esercito di Bashar al-Assad. Eppure il suo assassinio, di certo organizzato dai gruppi islamisti radicali, è passato da noi quasi inosservato.
Allo stesso modo, nessuno sembra più occuparsi di quanto avviene nel Nord della Siria, nella vasta area in cui convivono gli eserciti di Turchia, Russia e Siria e le milizie dei curdi, dei qaedisti di Hayat Tahrir al-Sham (Hts) e dell’Esercito libero siriano. Lì succede qualcosa di strano.
Per tutto l’anno la Turchia ha rinforzato la propria presenza militare al ritmo di due-tre convogli la settimana. Risultato: 140 avamposti dotati di veicoli corazzati, carri armati, cannoni e armi anti-aeree. Secondo il famoso (e contestato) Osservatorio siriano per i diritti umani, tra febbraio e ottobre 2020 quasi 12 mila camion militari turchi sono entrati nella provincia di Idlib.
Lo sforzo è servito alla Turchia anche per rinsaldare gli otto punti di osservazione intorno all’autostrada M4 che sono sotto il suo controllo, benché accerchiati dalle truppe siriane dopo l’offensiva del febbraio scorso. Per bloccare gli scontri, i turchi si acconciarono a firmare a Sochi, il 5 marzo, un accordo con la Russia. Vladimir Putin teneva a freno le smanie di rivincita di Assad e garantiva ai turchi la sicurezza. Erdogan si impegnava a disarmare gli jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham e a non bloccare le autostrade M4 e M5. Il secondo obiettivo è stato più o meno raggiunto. Il primo no. Non solo gli jihadisti sono ancora attestati a Idlib e dintorni con tutte le loro armi, ma la Turchia si è anche data molto da fare per rifornirli e addestrarli.
Ma eccoci al fatto strano. Negli ultimi giorni la Turchia ha cominciato a lasciare i suoi punti di osservazione. Quello di Morek è già stato abbandonato e sono in corso i preparativi per fare altrettanto con gli altri sette. Una «ritirata»? Difficile, dal momento che il Parlamento turco, accogliendo le richieste di Erdogan, ha rinnovato di un anno il mandato per le operazioni militari oltre il confine siriano. E resta vivo il progetto turco di una «fascia di sicurezza» nel territorio della Siria, lungo tutto il confine con la Turchia, per neutralizzare quello che per Ankara è il terrorismo curdo.
Secondo alcuni c’entrano le pressioni del Cremlino. I russi hanno interrotto i pattugliamenti che servivano a garantire la sicurezza delle truppe turche negli otto avamposti, proprio mentre l’esercito siriano dava segni di risveglio e le proteste dei civili siriani (forse meno spontanee di quanto si voglia far credere) crescevano. Sarebbe la dimostrazione che Putin ha gradito poco le promesse mantenute a metà dai turchi e ancor meno l’arrivo nel Caucaso, via l’Azerbaigian in guerra con l’Armenia, degli jihadisti trasferiti da Idlib che Erdogan utilizza (lì oltre che in Libia) come truppe di complemento.
Questa, tutto sommato, è l’ipotesi migliore. Perché ce n’è un’altra, di gran lunga più temibile. E cioè che Erdogan veda all’orizzonte lo scontro con l’esercito di Assad e quindi abbia deciso di abbandonare degli avamposti comunque non difendibili per attestarsi su posizioni più solide. Speriamo che non sia vero.
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