di SIMONE GARILLI (Fsi Mantova)
La narrazione neoliberale sul debito pubblico sta crollando sotto i colpi della pandemia. Alla fine dell’emergenza sarà chiaro a tutti che la sostenibilità del debito pubblico non dipende dal suo valore assoluto né dal suo valore rispetto al Pil, ma dalla disponibilità della banca centrale, sia essa europea o nazionale, a comprare il debito quando necessario per reprimere gli istinti speculativi dei mercati. Cadrà anche l’obiezione neoliberale della minaccia inflazionistica, perché sarà altrettanto evidente che l’immissione monetaria di migliaia di miliardi di euro nell’eurozona non avvicinerà nemmeno l’obiettivo di inflazione ufficiale della Bce, che da sempre è “sotto ma vicino al 2%”. Anzi tornerà, ed è già tornato, lo spettro della deflazione, che aumenta il valore reale dei debiti di famiglie, imprese e Stati. Ciononostante, il crollo del tabù del debito pubblico non si porterà con sé l’ideologia neoliberale, che continuerà ad imperversare. Semplicemente cambierà la narrazione, ma per i rapporti di forza serve ben altro, e cioè uno scontro sul terreno materiale della produzione mediato dalla politica e, nello specifico, dai partiti.
Cosa ci aspetta, dunque, nell’ipotesi che questo scontro non avvenga in tempi brevi? In astratto i casi sono due:
nel peggiore un ritorno dell’austerità europea trainato dalla Germania, con la riattivazione tout court del Patto di Stabilità e Crescita e del divieto di aiuti di Stato.
Nel migliore l’affermarsi della linea Draghi, formulata nell’articolo del 25 marzo scorso sul “Financial Times”: livelli più elevati di debito pubblico come caratteristica permanente delle economie avanzate, al fine di cancellare il debito privato.
Suona bene, naturalmente, ed è un passaggio di per sé necessario, ma il punto è come lo si realizza. E allora occorre riaprire i libri di storia, o forse riscriverli daccapo. Negli ultimi quarant’anni l’Italia ha già affrontato per almeno due volte il problema del debito privato delle imprese, che è il vero e principale fattore di instabilità strutturale delle nostre società dalla fine della parentesi keynesiana e social-democratica (1945-1979). La cosiddetta “finanziarizzazione” non è altro che l’accumulo di debito privato al posto del debito pubblico, così da levare di mezzo l’azione ingombrante dello Stato e sostituire lo stimolo pubblico alla domanda aggregata con i mercati finanziari e le banche.
E, tuttavia, quando il ciclo di accumulazione privato si scontra con l’eccesso di indebitamento finanziario, il debito pubblico torna di moda perché è strettamente necessario per togliere le castagne dal fuoco al sistema delle imprese (le grandi, mentre le piccole falliscono, vengono assorbite o sopravvivono sul pelo dell’acqua fino alla crisi successiva). È già successo negli anni Ottanta, quando il debito privato delle imprese italiane venne di fatto cancellato dal disavanzo pubblico dello Stato, che intanto stava esplodendo a causa della spesa per interessi (l’ingresso nel Sistema Monetario Europeo aveva infatti consentito alla classe dirigente dell’epoca di alzare i rendimenti per attrarre capitali dall’estero e difendere la parità della lira). Augusto Graziani spiegò così quello che stava accadendo: “quando il settore pubblico gestisce il proprio bilancio in disavanzo, quale che sia la destinazione della spesa…c’è comunque un effetto monetario immediato in quanto attraverso il disavanzo del settore pubblico viene immessa nel sistema economico una liquidità tutta particolare, una liquidità, cioè, che per le imprese non comporta il ricorso al sistema delle banche”.
Ciò che più interessa, però, è come venne utilizzato il debito pubblico per raggiungere quello scopo. Basta una manciata di dati:
– la spesa per interessi sul debito lievitò dal 6,8% al 15,3% della spesa pubblica totale
– la spesa per il rimborso del debito salì anch’essa dal 3,7% al 13,8% del totale
– la spesa per il personale amministrativo pubblico scese dal 23,8% al 15,4%
– la spesa per Istruzione e Cultura scese dal 14 al 9% del totale
– e scese infine anche la spesa per investimenti pubblici, sia pure più lentamente (dal 29,8% al 24,8%)
Avete presente i folli anni Ottanta, quelli del debito pubblico alimentato dagli sprechi e dalle ruberie dei nostri padri? Tutte sonore cazzate. Il debito esplose per remunerare gli investitori e ripianare i debiti privati delle imprese, mentre si ridusse sia il deficit primario (il deficit al netto degli interessi) sia lo stato sociale. Oggi ci troviamo alla fine di un altro ciclo di accumulazione, del tutto particolare perché scatenato senza preavviso da una pandemia e perché segue di pochi anni l’esaurirsi del ciclo principale della storia recente, quello culminato nella grande crisi del 2008. Se sarà la linea Draghi a prevalere (ancora una volta), avremo finalmente il tanto agognato debito pubblico e qualche stupida regola europea salterà, ma sulla base delle esperienze passate non possiamo che chiederci: a quale prezzo?
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