L’Occidente non è un modello
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Davide Brullo)
“Arcipelago Gulag” è il libro-monstre con cui Aleksandr Solzenicyn inchioda e denuncia il regime sovietico. Premio Nobel nel 1970, ad Harvard scagliò una serie di salutari bordate contro il “sistema occidentale”
Aleksandr Solzenicyn ha ottenuto il Premio Nobel per la letteratura cinquant’anni fa, nel 1970, ma lo andrà a ritirare quattro anni dopo, dopo aver subito l’esilio dall’Unione Sovietica. Nel suo discorso di accettazione, tra l’altro, Solzenicyn scrive: “L’arte, incontaminata dai nostri sforzi, non si allontana dalla sua vera natura, ma in ogni occasione e ogni volta che appare, ci mostra una parte della sua luce segreta. Riusciremo mai a cogliere l’interezza di questa luce? Chi può osare dire di aver definito l’arte in tutte le sue innumerevoli sfaccettature?… Attraverso l’arte siamo visitati a volte – brevemente, con fragilità – da rivelazioni che non possono darsi con il pensiero razionale”.
Rivelazione meridiana. Tiggì di Rai 2. Un paio di anni fa. Ricordano i dieci anni dalla morte di Solzenicyn. Non è neanche l’ultima notizia, quella di scarto, che nessuno ascolta, con il boccone in gola. Come mai?, mi dico, di solito non ricordano lo scrittore neanche quando muore, figuriamoci lo scampanio dell’anniversario. Nel servizio campeggia una sola immagine: Solzenicyn con un barbone tolstojano che dialoga amabilmente con Vladimir Putin. Al di là delle simpatie, la comunicazione mi pare semplice e aberrante: lo scrittore esiste se dialoga con l’emblema del potere (poco importa che i valori siano ribaltati, che sia Putin a inchinarsi al cospetto di Solzenicyn), lo scrittore è servo del potere. Che paradosso: Solzenicyn, infatti, semmai, è l’icona della lotta contro il potere. Quello sovietico comunista. Il genio di Solzenicyn – che avrebbe voluto essere il Tolstoj del sistema carcerario sovietico, il grande aedo degli inferi russi – è aver inventato un ‘genere’. Arcipelago Gulag è un agghiacciante, informato, cinico, radicale reportage. Ma ha il passo appassionato del romanzo. La letteratura ‘di denuncia’ – per sua natura, storica e contingente, degradabile e degradante – diventa, qui, epica del dolore e della compassione. Sarà imitatissimo.
Di Solzenicyn è stato fatto un totem – forse con l’intento di squalificare lo scrittore, di rabbonire le sue accuse. Solzenicyn, di norma, abbatteva i totem: è spietato, ad esempio, contro Maksim Gor’kij, il grande scrittore, “il maggiore scrittore russo”, l’ideatore del ‘realismo socialista’. “Fu il 20 giugno 1929. Il celebre scrittore scese a terra nella baia della Prosperità… lui sì che parlerà chiaro! lui sì che darà loro una lezione! lui sì che ci difenderà! Gor’kij era atteso quasi come un’amnistia generale”. Gor’kij, invece, impaniato nel potere, “attraversò a grandi falcate i corridoi di alcuni convitti. Tutte le porte delle stanze erano spalancate, ma egli non vi entrò quasi mai”. Terribile lo sketch che racconta Solzenicyn poco dopo. “Arrivarono nella colonia infantile. Com’è tutto civile! Ognuno su una branda separata, con il materasso. Tutti sono timidi, tutti sono contenti. D’un tratto un ragazzo di quattordici anni dice, ‘Senti, Gor’kij. Tutto quello che vedi non è vero. Vuoi sentire la verità? Te la devo raccontare?’ Sì, annuisce lo scrittore. Sì, vuol conoscere la verità. (Ah, ragazzino, perché guasti il benessere appena acquisito dal patriarca della letteratura… Un palazzo a Mosca, una tenuta nei dintorni della capitale…)… Gor’kij esce dalla baracca sciogliendosi in lacrime… Il 22 giugno, dopo la conversazione con il ragazzo, Gor’kij lasciò la seguente annotazione nel ‘Libro dei visitatori’, appositamente cucito per l’occasione: ‘Non sono in grado di esprimere in poche parole le mie impressioni. Non vorrei, e sarebbe vergognoso, ricadere in stereotipati elogi della stupefacente energia di uomini, i quali, essendo attenti e indefessi guardiani della rivoluzione sanno essere, insieme, creatori straordinariamente arditi della cultura’. Il 23 Gor’kij partì. Non appena il suo piroscafo salpò il ragazzino fu fucilato”. Solzenicyn mette alla corda la protervia e l’impudica ipocrisia di Gor’kij, emblema di una intera classe di letterati sovietici, servi del potere costituito. Solzenicyn non c’era, quel giorno del 1929, aveva 11 anni, viveva l’esproprio delle proprietà familiari da parte dei ‘rivoluzionari’ rossi. La forza patetica del suo linguaggio, però, ci fa vivere quel fatto in ‘presa diretta’.
Gli scrittori russi sono eccentrici. Vladimir Nabokov fuggì dalla Russia poco dopo la Rivoluzione: riteneva che la letteratura fosse un affare ‘formale’, senza alcuna implicazione etica. Iosif Brodskij, il poeta premiato con il Nobel per la letteratura nel 1987, pur essendo ben più giovane di Solzenicyn – nasce nel 1940 – fugge da Mamma Russia, dopo essere stato processato e mandato ai lavori forzati, prima di lui, due anni prima, nel 1972. A Brodskij non piacevano i libri di Solzenicyn. Gli rimproverava la “palese incapacità di scorgere, dietro il più crudele sistema politico di tutta la storia del cristianesimo, il fallimento umano, se non il fallimento della stessa dottrina religiosa (e questo valga per il severo spirito dell’ortodossia!). Data la sproporzione dell’incubo storico che Solzenicyn descrive, questa incapacità è di per sé talmente vistosa da far sospettare un’interdipendenza tra il conservatorismo estetico e la resistenza alla nozione di un’intrinseca, radicale malvagità dell’uomo”. Il poeta, come sempre, va all’origine prima, al cuore delle cose.
Solzenicyn, pur riconoscendo la preminenza, la prelibatezza dell’esperienza vissuta da Varlam Salamov (“L’esperienza di Salamov nei lager è stata più amara e più lunga della mia… a lui e non a me è stato dato in sorte di toccare il fondo di abbrutimento e disperazione verso cui ci spingeva tutta l’esistenza quotidiana nei lager”), pur chiamandolo, in un istante, “fratello”, gli rimproverò di aver ‘abiurato’ pubblicamente la propria opera (“Il 23 febbraio 1972 ha ritrattato sulla Literaturnaja Gazeta – perché, se tutte le minacce erano ormai passate? – ‘La problematica dei Racconti di Kolyma è ormai da tempo superata dalla vita’… e così abbiamo tutti capito che Salamov era morto”). Arcipelago Gulag contiene un discreto numero di ‘frecciate’ a Salamov: come mai? Cosa dà diritto a un uomo come Solzenicyn di giudicare la vita e le scelte di Salamov? Esiste forse una classifica nel dolore? Probabilmente Solzenicyn riconosce nei Racconti di Kolyma un’opera formalmente – e perciò, eticamente – più alta di Arcipelago Gulag.
Quando Solzenicyn pubblica Una giornata di Ivan Denisovic, nel 1962, il libro con cui, per la prima volta, viene raccontata la vita nei Gulag, Varlam Salamov piglia carta e penna. “Cos’è quel gatto che secondo lei gira per l’infermeria? Perché non è stato ancora sgozzato e mangiato?”. A Boris Pasternak – il suo idolo poetico, ma a cui rimprovererà la modestia del Dottor Zivago – Salamov scrive: “L’essenziale è nella corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza amore né senso del dovere. Tutto viene a nudo, e l’ultimo denudamento è tremendo… la nostra epoca è riuscita a far dimenticare all’uomo che è un essere umano”. Imperdonabili, gli scrittori russi non perdonano nulla se stessi e agli altri. Ricoverato dal 1979 in una casa di riposo, gravemente turbato, Salamov vi morì nel 1982.
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