Mosler alla conferenza “Debito Pubblico: Strumento di sviluppo sociale o freno alla crescita?” – Roma, ottobre 2012 (1ª parte)
di WARREN B.MOSLER
Per prima cosa affronterò quella che credo sia la questione meno compresa, vale a dire il motivo per cui il debito nazionale dei Paesi dell’Eurozona sia così elevati. La risposta comincia con l’indiscutibile fatto che il debito pubblico è pari al totale degli asset finanziari in euro detenuti dal settore privato. Per ogni “settore chiuso” l’euro è un tradizionale caso di “moneta interna”, funziona come un “giroconto” o un meccanismo di “clearing house”. L’unico modo in cui un agente può avere asset finanziari netti è che un altro sia debitore netto, a ciascun asset in euro corrisponde un debito in euro. Il netto è sempre zero.
Questo tipo di sistema notoriamente non può soddisfare un desiderio netto di risparmio, a meno che si provveda a immettere nel settore asset finanziari netti. Nel caso dell’euro questo significa che il settore privato necessita di spesa in deficit del settore pubblico per soddisfare i propri desideri di risparmio netto, se ce ne dovessero essere. Si noti anche che la spesa pubblica viene utilizzata per pagare le tasse o rimane come risparmio netto nell’economia, in una forma o in un’altra. La disoccupazione, per definizione, è la prova che l’economia non ha sufficiente reddito in euro per pagare le tasse e soddisfare i propri desideri di risparmio netto.
Un’analisi sui “desideri di risparmio” che generano il bisogno di asset finanziari netti dà la risposta al motivo per cui il debito pubblico nazionale sia tanto elevato. La struttura istituzionale europea prevede potenti incentivi al risparmio attraverso l’accumulo di asset finanziari. Storicamente queste sono state chiamate “perdite di domanda” come incentivi fiscali, forme di accantonamento obbligatorio del reddito in fondi pensione, riserve societarie e denaro contante in circolazione. Senza una pari espansione del debito di altri agenti privati che spendono più del proprio reddito, questi desideri di risparmio non possono essere realizzati a meno che il settore pubblico non spenda più delle proprie entrate.
Negli anni immediatamente precedenti all’istituzione dell’euro i Paesi membri con debiti attualmente elevati emettevano valuta propria. Che ne fossero consapevoli o meno, in quanto emettitori essi non avevano problemi di solvibilità, stabilivano i propri tassi d’interesse e soddisfacevano i desideri interni di risparmio con la spesa pubblica in deficit che consentiva di sostenere la crescita e mantenere la disoccupazione a un livello relativamente basso.
Il punto in questo caso è che deficit elevati stavano compensando l’ingente perdita di domanda insita nelle strutture istituzionali. E quest’esigenza non è scomparsa poiché il tradizionale problema della perdita di domanda resta. Si noti poi che il Paese col deficit più basso, il Lussemburgo, non ha mai avuto una propria valuta ma è stato invece obbligato dalle forze di mercato a finanziare i propri asset finanziari netti con le esportazioni nette.
Ciò che è cambiato con l’euro e con i “divorzi” dalle banche centrali nazionali è stata la capacità di finanziare i deficit da parte dei Paesi dell’Eurozona. Le dinamiche finanziarie al loro interno sono diventate molto simili a quelle degli Stati degli Stati Uniti. Essi non possono più “stampare moneta” e sono invece vincolati dagli introiti ma, a differenza degli Stati Uniti, i Paesi sono entrati in Eurozona quando erano emettitori di valuta propria, non costretti dalle rendite e potevano agire per compensare le perdite di domanda quanto necessario a sostenere produzione e occupazione.
Oggi la BCE è la banca centrale dell’euro. Io spesso la chiamo la “segnapunti” dell’euro. Il sistema della BCE spende e presta euro semplicemente accreditando conti. Questi euro non “provengono” da nessuna parte.
Gli euro sono “informazioni digitali”. Quando gli fu chiesto da dove venissero i miliardi di dollari prestati alle banche il Presidente Bernanke rispose: “…noi semplicemente usiamo il computer per aumentare il saldo del conto che detengono presso la Fed”.
Infatti a livello operativo qualunque banca centrale può effettuare pagamenti di qualunque entità nella sua propria valuta. Quando la BCE fa un acquisto di titoli da 500 milioni di euro nessuno chiede da dove vengano fuori gli euro o se la BCE li abbia in qualche modo presi in prestito dalla Cina. Le banche centrali non sono costrette dalle rendite nell’utilizzo della propria valuta. Questo le mette nella posizione unica di essere in grado di agire anti-ciclicamente durante un rallentamento dell’economia.
Al contrario i Paesi dell’Eurozona, come quelli degli Stati Uniti, quando l’espansione creditizia del settore privato fallisce e le economie rallentano non sono in grado a livello finanziario di reagire anti-ciclicamente all’aumento dei desideri di risparmio.
Solo la BCE può, come mi piace dire, “staccare l’assegno” per soddisfare la domanda di asset finanziari netti da parte della struttura istituzionale, domanda evidente se si considera l’elevato tasso di disoccupazione e l’output gap esistente.
Dato il livello del credito del settore privato e quello delle esportazioni nette, l’Eurozona attualmente necessita di livelli di spesa pubblica in deficit ancora più elevati per sostenere crescita e occupazione. E solo la BCE può staccare l’assegno. E sì, sono cosciente delle difficoltà politiche che ciò implica, tra cui la questione più pressante è quella del moral hazard [1].
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