L’avventura istituzionale che chiamiamo ‘democrazia’, salvo una manciata di casi, ha vita breve. Inizia ad avere una qualche diffusione in forme limitate nell’ultima parte dell’800, giunge alla prima forma di suffragio universale agli inizi del ‘900, e diviene fenomeno di massa nel mondo occidentale solo dopo il 1945. Si tratta insomma di un’assoluta novità sul piano storico.
Nonostante le infinite chiacchiere sul ‘mondo liberaldemocratico’ in verità esiste di diritto solo un mondo liberale o un mondo democratico, che solo occasionalmente possono fare dei pezzi di strada assieme.
Nella visione liberale il diritto di voto, i diritti politici in generale, sono correlati al diritto di proprietà: ha propriamente diritto a decidere solo chi ha economicamente ‘qualcosa da perdere’. La tendenza naturale della prospettiva liberale va dunque verso un’oligarchia censitaria, estendibile fino a divenire una semi-democrazia censitaria (posto che il ceto proprietario sia assai diffuso).
Siccome gli interessi delle società liberali e quelli della democrazia sono solo in piccola parte coincidenti, le società cosiddette ‘liberaldemocratiche’ nate nel secondo dopoguerra hanno dedicato solo limitate energie alla coltivazione delle condizioni per l’esistenza di una democrazia.
Per una ventina d’anni, finché il ricordo delle distruzioni 1914-1945 era ancora vitale (e finché il comunismo sembrava un’alternativa) le novelle società democratiche hanno preso sul serio la necessità di prendersi cura della democrazia. Lo hanno fatto sul piano istituzionale, ma soprattutto sul piano formativo, ampliando la base della pubblica istruzione e attribuendo al sistema mediatico pubblico alcune funzioni educative.
Ma quei 2-3 decenni del dopoguerra sono stati abbattuti dalla svolta neoliberale, che ha invertito il senso di marcia, ritornando a grandi falcate a condizioni da inizio ‘900.
Oggi, come cent’anni fa, il fattore di gran lunga più decisivo per la formazione di un soggetto (un cittadino) è il retroterra famigliare di cui si può giovare, e questa è anche la base più importante per sperare in una collocazione socialmente ed economicamente dignitosa.
L’ascensore sociale è fuori servizio, il classismo (un classismo senza classi riconosciute) imperversa sotto mentite spoglie, la forbice tra ricchi e poveri è nuovamente ai suoi massimi storici, e con la neoproletarizzazione di sezioni sempre più ingenti della società cresce anche l’esercito dei nuovi cafoni di Fontamara: ignoranti, ingenui, perfettamente manipolabili.
Ora, quando parliamo di ‘crisi della democrazia’ la mente va, per riflesso consolidato, a modelli come quello del collasso della Repubblica di Weimar, dove l’incapacità di un sistema di democrazia parlamentare di fornire risposte alla popolazione finì per aprire la strada al più noto e malfamato dei dittatori.
Ed è certamente vero che il fallimento di una democrazia può sfociare nella ricerca dell’uomo forte, che prenda con mano salda le briglie del paese e metta fine all’inconcludente “chiacchiericcio dei politicanti”.
Questa tipologia di rimpiazzo di una democrazia in bancarotta è tuttavia rozzo e rischioso, e ha in sé ancora elementi premoderni e preliberali: il dittatore, l’autocrate non è che una versione laica del vecchio modello regale, che a sua volta richiama le società gerarchiche tradizionali. Qui l’uomo forte è la proiezione moderna, nostalgica, del condottiero antico e cerca di trovare un’investitura facendo leva su questo aspetto, cioè sulla forza militare, sul monopolio della violenza all’interno. Il dittatore è innanzitutto uomo d’arme, o almeno così si dipinge, e in ogni caso conta innanzitutto su quella dimensione di potere. Dall’ammiraglio Horthy al generalissimo Franco, dal generale Pinochet al caporale Hitler, il dittatore con le sue pretese ascendenza guerriere è in effetti un’alternativa obsoleta, con tinteggiature quasi romantiche, alle democrazie.
In quest’ottica il nostro timore che il fallimento di democrazie sempre più scricchiolanti porti una volta di più al passo dell’oca e alle adunate oceaniche è un timore malriposto.
Non che non possa ancora accadere, ma quel tipo di esito del collasso democratico non è all’altezza dei tempi. Il suo richiamarsi a virtù guerriere e decisionismi roboanti è estraneo alle forme sociali contemporanee.
La medesima funzione oggi può essere invece giocata in modo appropriato dal Tecnocrate.
Il Tecnico, proprio come era il Dittatore, è il soggetto che promette la semplificazione del discorso pubblico e il ripristino dell’ordine nel caos della politica politicante. Il Tecnico non ha più alcun bisogno di ridurre il parlamento ad un bivacco di manipoli, perché un bivacco lo è già. Al contrario, egli in forza del suo carisma tecnico, riporta l’ordine formale anche all’interno di questi luoghi della recita democratica.
Come il Dittatore, il Tecnocrate è investito di charisma (χ?ρισμα), in quanto portatore di salvezza, come in passato era il condottiero. Egli possiede il dominio delle nuove competenze belliche, quelle economico-finanziarie, che sono il modo in cui oggi ci si fa prevalentemente la guerra.
Qualcuno potrebbe pensare che l’Italia, con la sua predilezione per i governi tecnici (Ciampi, Dini, Monti, ora Draghi) sia un caso estremo e particolare. Ma ci sono tutti i segnali perché, come fu già per il fascismo, l’Italia sia anche questa volta un precursore. Altri governi, in altri paesi, sono spesso governi tecnici nelle loro fondamenta: i loro leader incarnano già gli indirizzi della tecnocrazia economica, o si adeguano senza remore alla stessa.
Il ricorso ad un tecnico esterno è solo un passo di drammatizzazione, richiesto quando i partiti (per incapacità o volontà) non sono già a guida tecnocratica.
La direzione in cui vanno evolvendo, o meglio involvendo, tutte le ‘liberaldemocrazie’ è quella di un deterioramento progressivo della componente democratica, ridotta a pura gesticolazione preelettorale, e di una sua sostituzione con una tecnocrazia liberale, come oligarchia degli abbienti e di chi ne cura gli interessi.
Non c’è quasi nulla che vi si opponga. Le sconcertanti invocazioni da parte di prominenti e sedicenti democratici (addirittura ‘di sinistra’) di un governo della “competenza” seguono una logica interna ferrea, logica di cui chi le pronuncia è ignaro.
La competenza viene invocata a fronte del collasso delle istituzioni democratiche, collasso che ha ragioni del tutto manifeste, ma che nessuno vuole riconoscere come tale.
I nostri eroi della liberaldemocrazia ci hanno spiegato per decenni, con la consueta saccenza, che non c’era alcun bisogno di ‘prendersi cura della democrazia’, di coltivare il ‘demos’. Ci avrebbe pensato la mano invisibile del mercato, che aborrisce i biechi paternalismi.
Naturalmente, queste idee segnalavano semplicemente la loro integrale subordinazione ad un paradigma liberale, che si immaginavano
magicamente coincidente con quello democratico, sì da esimerli da qualunque compito e fatica: è un mondo bellissimo quello in cui non devi fare alcun progetto, non devi tentare riforme o promuovere indirizzi, ma basta che persegui a testa bassa il tuo proprio interesse e magicamente questo produrrà il migliore esito per tutti.
I liberaldemocratici sono gli officianti del culto della Provvidenza Laica, dove lasciar fare e farsi gli affari propri si convertono nel migliore dei mondi possibili.
Alla fine di questo processo la Provvidenza si è rivelata, portando provvidenzialmente alla luce non la democrazia, che è agonizzante, ma la tecnocrazia dell’interesse privato.
Infatti la ‘competenza’ che viene richiesta e invocata (l’elenco di editorialisti che lo ha fatto in questi giorni è impressionante), non ha alcuna parentela con la saggezza dei governanti di una qualche Repubblica di Platone, ma è l’abilità nella gestione delle regole economico-finanziarie del tardo capitalismo, aderendovi senza resti.
Nessuno può dire se o quanto successo avrà il nascituro governo Draghi, ma sul piano storico questo ha una relativa importanza. Il punto è che viene percepito, giustamente, come un salto di qualità nella chiarezza dei processi in corso. Si tratta di un governo che si è visto arrivare da lontano. Un governo in cui il profilo di ciò che era ‘all’altezza dei tempi’ era cristallino a prescindere dalla persona chiamata ad occuparlo.
Quando il presidente della Repubblica ha conferito l’incarico esplorativo a Draghi è stato come se d’un tratto la configurazione gestaltica avesse raggiunto la sua unità: tutte le caselle ora erano a posto.
Qui non siamo di fronte a nessuna forzatura, e questo è ciò che sconcerta anche tutti quei partiti e politici che si figuravano di fare chissà quali sfracelli in parlamento: scoprono che un abile Tecnocrate è semplicemente proprio la figura che era predisposta ad essere occupata da tempo, e sono dunque interiormente stupiti di quanto ‘giusta’ gli appaia quella scelta.
Il punto di fondo, punto che non verrà ammesso ancora a lungo, ma che è un dato di fatto, è che questo è l’emblema della fine di un’epoca e dell’inizio di un’epoca diversa: per quanto a lungo si possano ancora trascinare i dinieghi e le rimozioni, la breve favola della democrazia è già finita.
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