Quale politica sarebbe necessaria per far rinascere la sinistra
Da: Striscia Rossa (Paolo Borioni)
La lezione delle ultime settimane è questa: per quanto Pds-Ds-Pd si predispongano a fare l’ala timidamente progressista dell’europeismo ortodosso, per quanto siano disposti a salvare le élite economiche e mediatiche dai loro incubi (prima Berlusconi, poi Salvini), nulla cambia. Alla fine arriva sempre l’ordine perentorio: “non fatevi illusioni né idee minimamente più ambiziose: servite esclusivamente a sostenere la tecnocrazia a-politica, o sovra-politica”. Con Ciampi, Dini, Monti presidente del consiglio, o prima con Prodi e Padoa Schioppa ministro-tutore.
Ciò frustra anche i timidi ma leggibili tentativi per acquistare maggiore dignità e minima autonomia: se non come leader di un vero movimento, almeno come corporazione di politici professionali. Il gruppo dirigente, eseguendo le barocche manovre di Goffredo Bettini, ha cercato esattamente di operare una riscossa. Essa era professionale e poco più, ovvero cercava una minima autonomia dei politici, perché certo non era una rinascita ideologica e di cultura politica. Infatti, per esempio, non cercava un pur indispensabile contatto con le masse popolari perdute in questi decenni di centrismo responsabile.
Ma la novità (va ammesso) esisteva, seppure solo nella manovra: la rinascita corporativo-professionale avveniva alleandosi ad un movimento come il M5S il quale, fra i molti difetti di impolitico plebeismo che ne hanno caratterizzato la genesi, non ha (perciò stesso) quello di essere “tecnocraticamente affidabile” come in passato erano stati Prodi, la Margherita o i marchietti minori del centro-sinistra. Questa manovra, dalle nostre élite mediatiche e finanziarie, è stata sopportata e supportata al principio, ma solo fino a che il Covid ha dato a Conte l’opportunità (e il protagonismo sul campo) per gestire in modo diretto risorse ingenti come mai si sarebbe creduto.
Per la verità andrebbe aggiunto che dopo il crollo del ponte Morandi era anche affiorata (come già per le ferrovie britanniche, le scuole svedesi e tante altre situazioni) tutta la vuotezza del precetto per cui “privatizzare è sano”. Di più: Mariana Mazzucato, dopo avere dimostrato che il miracolo della rete telematica e della ICT dipendeva da immensi investimenti dello Stato USA e non dal geniaccio di Jobs e Gates, era stata chiamata a dare consigli ai nostri dicasteri economici. Inoltre, Emanuele Felice e Peppe Provenzano avevano lanciato dibattiti in cui la fine dell’era neoliberista era dichiarata in modo che precedentemente nel PD sarebbe stato impensabile. Erano pochi accenni, lo so, ma insieme al resto erano molto più che abbastanza per suscitare la reazione: anche la teorica possibilità di tornare ad essere politici in senso proprio, con una fetta di decisionalità economica riguadagnata, è stata repressa. Per decreto tecnocratico ritorna tutto come sempre.
Le umiliazioni del Pd
Ma adesso proviamo a ragionare su come mai la progressiva, ripetuta umiliazione sia accettabile per il PD. Perché anche questa volta esso si accinge a dire “grazie va bene anche così, anche stavolta, sempre”. Se non c’è scelta è perché per decenni, dai tempi dell’ultimo PCI anni Ottanta, generazioni di dirigenti hanno solo gestito il radicamento popolare residuo, e infatti ormai, come è inconfutabile, com’era inevitabile, molto ristretto e sempre meno “popolare”. Lo hanno consumato per spenderlo appunto in coalizioni moderate semi-tecnocratiche, o al servizio della pura tecnocrazia. Mai si è cercato un nuovo progetto popolare, socialista e democratico. Massima conferma è che anche la tenue novità della alleanza con il M5S era frutto di questo: una manovra nella sovrastruttura politica, in cui l’opera di raccolta degli strati popolari vilipesi da decenni di precarizzazione inutile ed inefficace era già stata fatta, e non certo dal PD. Si agiva per rimorchio, non per costruzione autonoma.
Per una serie di motivi storici, credo che il PD sia nato esattamente con il peggio delle convinzioni degli anni 1980-90: quella per cui non si può ricostruire un radicamento popolare, perché la fine del PCI segna la fine di ogni politica socialista e popolare. Così, gli ex dirigenti del PCI sono entrati nell’asfittica socialdemocrazia di Bruxelles senza saperla criticare.
E faccio solo un esempio del perché: se chi è appena entrato pensa che la socialdemocrazia vinceva solo perché (e finché) l’URSS faceva paura alla borghesia, la conseguenza è obbligata: ne discende una scarsa cognizione di cosa la sinistra europea faceva di giusto quando era egemone. E peggio: una ancora più scarsa nozione di quali limiti però avesse anche allora, e ha oggi al quadrato. Perché con le premesse che senza la paura dell’URSS nessuna conquista è possibile la sinistra europea viene spogliata da ogni soggettività, negativa come positiva. È una visione povera sia della socialdemocrazia, sia del comunismo italiano. Ne esce (parafrasando Musil) una sinistra senza qualità. Non può essere un caso che in nessun luogo la sinistra è residuale e asfittica come in Italia.
Rendite di posizione e progettualità
Eppure, un’organizzazione politica meno avvilita ed avvilente avrebbe potuto tentare una strada diversa. Condizionare per esempio, nelle varie crisi, l’appoggio indispensabile ad una durevole politica per la competizione: escludere gradualmente la precarietà, sostituendola con produzioni più qualificate, che della precarietà ben presto non hanno bisogno per competere. Ribaltare il tavolo: rendere cioè il lavoro forte lo stimolo per compere. Un progetto vero, incomparabilmente più qualificante di quelli concepiti e attuati finora, di quelli che fanno lavorare meglio più persone e davvero poi ripagano il debito. A differenza di tagli, contoterzismo declinante e impoverimento dei redditi. Qualcosa di degno e di davvero razionale insomma. Ma questo avrebbe comportato consolidare e anche mobilitare i segmenti di lavoro autonomo e dipendente stufi di decenni di declino ansiogeno. Invece non ci si crede, per i motivi detti.
Il punto è questo: il primato della politica può essere semplice e fasullo, oppure autentico e complesso. Quello semplice e fasullo è usare una rendita di posizione, agganciando di volta in volta un soggetto o un “compito ineludibile” che le possa dare vitalità: questo era la manovra di aggancio Pd-M5S. Quello complesso ed autentico (ed anche elevato) è mettere insieme soggetti sociali, interessi di parte e progetto di miglioramento del tutto. A questo punto la presenza e il radicamento popolare diverranno stratificati ed ampi. È solo questo primato della politica che vince sulla tecnocrazia. E che non può essere abbattuto da un solo, sordido sicario.
Il primato della politica autentico si distingue nettamente dalle sue imitazioni. Nel primato della politica autentico sarà complesso il lavoro di costruzione sociale ed ideologico, ma poi sarà limpida l’esplicitazione della linea, evidente la distinzione dagli avversari, inappuntabili le ragioni dei necessari compromessi, trasparente la loro gittata, la loro durata e la loro scadenza. Se invece si confonde il primato della politica con la pura manovra saranno i riferimenti sociali ad essere (troppo) semplici, fino a divenire scontati ed asfittici. Mentre sarà contraddittoria e contorta l’azione politica, nonché sempre più percepita come politicante.
Purtroppo le ultime generazioni di dirigenti della sinistra non hanno storicamente la mentalità e la cultura politica di costruire il complesso rapporto di relazioni sociali necessario. Non si è mai osato pensare che se è complesso trovare i riferimenti di classe, di ceto, e valoriali, ciò non è perché questo “appartiene al passato”. È perché una lunga egemonia avversa ha polverizzato i diritti, e con essi la certezza che uno sviluppo senza sfruttamento ha radici più salde e dà frutti più sicuri. Perciò è scomparso per quasi tutti il senso di appartenere a organizzazioni democratiche, che avevano combattuto per questo, ma hanno poi cominciato a preferire la semplice manovra. Hanno cioè cominciato a distinguere l’avversario grazie al bipolarismo di volta in volta ritenuto necessario dall’ultima manovra di sopravvivenza politica, e non grazie ai diversi interessi e le diverse idee di sviluppo.
Proprio come al principio del movimento socialista, costruire il vero primato della politica non è il passato: è l’unico presente e l’unico futuro. Se una vera forza politica, che sia quindi insieme istituzione e movimento, ha un rapporto saldo con fasce ampie della popolazione, essa sa e afferma che si può avere un progetto alternativo e insieme “tecnicamente” inappuntabile. E se saprà e dirà questo, da un grave trauma sociale sarà essa ad emergere come soluzione. Non i populismi di protesta, non le tecnocrazie.
Fonte: https://www.strisciarossa.it/quale-politica-per-far-rinascere-la-sinistra/
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