Recovery: troppi italiani senza voce, dopo Draghi serve un pensiero politico
Di: Striscia Rossa (Di Rosa Fioravante)
La nascita del Governo Draghi ha riportato in auge dibattiti dal sapore antico: europeismi e anti-europeismi, stimoli pubblici keynesiani o distruzioni creatrici schumpeteriane, nomine tecniche e nomine politiche. Dibattiti sepolti sotto la mole di provvedimenti per fronteggiare l’epidemia che nell’ultimo anno hanno caratterizzato la discussione politica e quella dell’opinione pubblica, che oggi tornano a galla prendendo il sopravvento anche sulla vicenda del piano vaccinale, del numero dei morti, del diffondersi delle varianti.
Sotto la coltre di “siamo tutti sulla stessa barca” e dei ristori, infatti, un anno è passato nella convinzione che esistesse un destino “italiano” nella mondiale questione Covid e che il sistema sanitario nazionale e il sistema produttivo potessero reggere l’urto della pandemia o affondare insieme. La sfida della scrittura e gestione del piano da presentare all’Europa per il Recovery Fund ha invece cambiato radicalmente i termini del dibattito: a chi sono destinati gli aiuti? Chi sarà salvato e chi sommerso? Chi peggiorerà strutturalmente la propria condizione e chi la migliorerà?
“Noi” contro “gli altri”
Ecco che la presunta unità italiana viene sostituita da una lotta senza quartiere, dai “noi” contro “gli altri”. Una crisi di Governo aperta al solo scopo di cambiare le maggioranze che si sarebbero spartite i fondi europei ha evidenziato come in questa partita tutti i grandi interessi stiano muovendo le proprie squadre al fine di ricavare una fetta di torta maggiore possibile, anche ovviamente a scapito degli altri.
Il Governo Draghi è divenuto così non un governo di progetto (o “a progetto), di ideazione dell’Italia futura tramite un patto tra forze politiche distinte ed eterogenee, bensì una fotografia dell’esistente e degli interessi già rappresentati. Le categorie che già dopo le elezioni del 2018 esprimevano deputati, senatori, forze politiche a salvaguardia dei propri interessi hanno accresciuto la loro rappresentatività, le altre continuano ad essere escluse.
Chi è dentro e chi è fuori
Così, da una parte (dentro) troviamo il mondo dell’imprenditoria che chiede sussidi ma chiede altresì che siano annullati i sostegni al reddito e di contrasto alla povertà per lavoratori e disoccupati, dall’altra (fuori) troviamo finte partite iva, freelance, precari, lavoratori a nero che da un anno sono pressoché esclusi dagli aiuti o che ne ricevono abbastanza da sopravvivere ma non da progettare una sostenibilità futura per sé, per la propria attività, per la propria famiglia; così, da una parte (dentro) troviamo i protagonisti dei ristori, gestori di pub, discoteche, locali, strutture turistiche ecc. e dall’altra (fuori) professionisti dei beni culturali e dello spettacolo, artisti, costumisti, tecnici del suono ecc. che non avendo già prima contratti dignitosi sono oggi privi di sostegni e avvenire; così, da una parte (dentro) si trovano i manager che vorrebbero indirizzare i fondi per l’innovazione verso le aziende in direzione della privatizzazione della ricerca, dall’altra (fuori) si trovano i dottorandi e ricercatori degli atenei pubblici, da un anno spesso non in condizione di lavorare, ai quali non viene concessa alcuna proroga di borse e assegni, abbandonati all’incertezza più totale sul futuro e ad una miriade di impedimenti per portare a termine i propri progetti nel quotidiano; così, da una parte (dentro) si trovano gli interessi economici del Nord, dall’altra (fuori) le aree interne e il Sud, dove le conseguenze in termini di aumento di povertà e diseguaglianza del virus si fanno sentire più forti e, specularmente, sono più ignorati.
La diseguaglianza di potere
Questa istantanea così desolante per i giovani, per i precari, per chi vive nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo, della musica, del sapere umanistico, della ricerca, ma anche per chi allo sblocco dei licenziamenti andrà incontro alla fine di un rapporto di lavoro nell’impossibilità di ricollocarsi, per milioni di persone nel Paese, insomma, l’esecutivo Draghi è semplicemente una riconferma della loro inesistenza politica.
Non certo per “colpa” di Draghi: certo vi è molta differenza se egli seguirà un indirizzo di politica economica maggiormente teso all’incoraggiamento della domanda interna e ad un significativo mix di investimenti pubblici e privati o no, ma l’indirizzo di politica economica non basta a cambiare i rapporti di forza all’interno della società. Quello che intendo dire è che, come insisteva Erik Olin Wright, la lotta tra potere economico e potere politico è importante ma esiste un tema di potere sociale altrettanto significativo. La politica economica può intervenire sulle diseguaglianze di ricchezza e in larga parte di reddito ma lascia ancora scalfita la diseguaglianza di potere, che è la fonte della mancanza oggi di rappresentanza della maggioranza degli italiani e delle italiane che per vivere devono lavorare e che vivono di stipendi troppo bassi rispetto agli affitti e al costo della vita.
Ciò che incide sull’organizzazione del potere sociale è la capacità di sindacalizzazione, di costruzione di legami di solidarietà e orizzonti di lotta comune in quei mondi – atomizzati e frammentati – che oggi non sono organizzati. Ciò che incide sono le prassi di democratizzazione dell’economia: non solo welfare state, non solo investimenti in scuola, università e ricerca pubbliche ma anche una nuova concezione dei rapporti di produzione che renda i lavoratori protagonisti dell’impresa, che crei spazi affinché questi possano decidere come cosa e per chi produrre.
L’Italia che, dall’inizio della pandemia particolarmente ma già prima, costruisce reti di mutualismo e che organizza le lotte sul posto di lavoro, semplicemente oggi non dispone di una voce in Parlamento. Non lo fa l’Italia che vorrebbe organizzarsi ma non sa come farlo perché il proprio datore di lavoro è un algoritmo o un pulviscolo di committenti che la rendono finto-autonoma ma de facto dipendente senza le tutele dei dipendenti contrattualizzati.
Un pensiero politico che non c’è
Non esiste ad oggi un pensiero politico solidamente fondato sull’idea che il mercato sia un’istituzione sociale e non una sorta di dittatura senza volto, sull’idea che il tessuto produttivo debba essere considerato una rete di attori sociali e non solo economici e dunque dipendere dalle comunità locali e dai lavoratori e non solo dai capitali di rischio che vi si allocano, un pensiero politico che progetti la riconversione ecologica e la messa in sicurezza del territorio insieme ad un discorso sulla qualità della vita che consenta di fermare l’emorragia di forze e talenti da sud a nord, dalle aree interne alle città, dalle città all’estero.
Se venga prima l’uovo o la gallina, cioè se la mancanza di pensiero politico derivi dalla mancanza di organizzazione sociale o viceversa, è difficile a dirsi ma, come nel noto adagio, il fuoco si fa con la lega che si ha.
Dunque, per chiunque abbia a cuore un modello di società fondato sull’articolo 3 della Costituzione, è tempo di concentrarsi sui nodi strategici del potere sociale. Un compito reso solo più arduo dal non disporre di voci istituzionali che cerchino di dirottare i fondi europei sulle realtà che sono realmente in difficoltà e, soprattutto, sulle realtà che più potrebbero contribuire allo sviluppo culturale, intellettuale e materiale del Paese se fossero sostenute.
D’altro canto, per fare una valutazione di quali queste siano, servirebbe un’attrezzatura umanistica di cui quasi nessun esponente del Governo dispone e di cui anche nel Paese si cerca continuamente di far smarrire le tracce: la capacità di valutare è infatti una capacità che prevede un apparato concettuale antropologico, sociologico, teorico di cui “i tecnici” sono sprovvisti e a cui le forze politiche sembrano impermeabili, schiacciate su visioni di brevissimo periodo e di tattica spiccia. Serve un’attrezzatura umanistica anche per interpretare il mandato europeo della transizione ecologica, perché essa ha a che fare con questioni di carattere filosofico etico e di sociologia culturale almeno quanto ha a che fare con il sapere ingegneristico.
La necessità di nuove regole
Per fortuna, i limiti del Parlamento non sono i limiti della società. Non è oggi impossibile che dalle comunità, dai lavoratori organizzati, dalle reti di solidarietà e dai lavoratori della conoscenza venga una spinta all’utilizzo della crisi come opportunità per i molti per costruire nuove regole, invece che come alibi per i pochi nel continuare l’accentramento di potere e ricchezze. In questo senso, è tempo che ciascuno si chieda, dal proprio schermo, dal proprio lockdown, dalla propria quarantena, come dare il proprio contributo. Ricordando quello che Lelio Basso suggeriva già molto tempo fa:
“D’accordo, l’Italia è un Paese dove cambiare le cose è molto difficile, dove c’è una tendenza indomita al pasticcio, dove non c’è un retroterra culturale, dove tutto sembra incrostato d’un indifferentismo impenetrabile. D’accordo. E io devo ammettere di non essere riuscito a realizzare neanche una piccola parte degli scopi che m’ero prefissi, delle aspirazioni che avevo da giovane militante socialista. Su tutto questo d’accordo. Ma guai se un uomo di sinistra si rassegna. E poi non è vero che in Italia non cambia nulla. […] A sinistra bisogna battersi senza stancarsi, vigilare e battersi ininterrottamente. Anche se si sa che a uno sforzo cento corrisponderà un risultato dieci o cinque o magari uno. Molti anni fa fui colpito da un motto di Guglielmo il Taciturno, che m’è rimasto impresso per tutta la vita e che in una certa misura ho cercato di fare mio: “Non occorre sperare per intraprendere, non occorre riuscire per perseverare”.” (Lelio Basso, La mia utopia, «Panorama», 16 mar. 1972, n. 308, pp. 68-76.)
Fonte: https://www.strisciarossa.it/recovery-troppi-italiani-senza-voce/
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