Il PCI dalla metamorfosi al crollo, raccontato da Canfora
di Kritica economica (Luca Paterlini)
Il 21 Gennaio è ricorso il centenario della scissione di Livorno, dalla quale nacque il Partito Comunista d’Italia (PCd’I), diventato poi PCI nel 1944. A tal proposito, ci soffermiamo qui sul libricino La metamorfosi dello storico e filologo Luciano Canfora, che descrive la storia del comunismo italiano e la colloca all’interno della lunga parabola della socialdemocrazia.
I partiti ottocenteschi
I partiti figli della Rivoluzione francese, e quello socialista-democratico tedesco del 1848 fecero da modello per tutti i partiti continentali. Si trattava di organismi viventi, in continua evoluzione, che svolgevano proselitismo tra le masse in nome di idealità e programmi e che avrebbero dato forma alla storia dei secoli XIX e XX.
Questi modelli non erano eterni e una loro specifica forma di deperimento è rintracciata dall’autore nell’adesione a un certo sistema di pensiero – in questo caso il deperimento avviene per un progressivo distaccarsi dalle premesse ideali con una trasfigurazione – mentre, a volte, la longevità può essere garantita dalla “liquidità” ideologica, la cui mutazione, almeno apparentemente, non è misurabile.
Il caso della tradizione socialista è inscrivibile all’interno di questo fenomeno. Ne è un esempio la dialettica socialdemocrazia-leninismo/rivoluzione: l’allontanamento dal sistema di pensiero originario, ovvero il marxismo, era parzialmente già avvenuto in Germania prima della Grande Guerra con Bernstein e Bebel.
Dal fallimento dei partiti socialisti nacquero i nuovi partiti dell’Internazionale comunista di Lenin, il cui giacobinismo si rivelò vincente, almeno in Russia. Tuttavia, la storia successiva vide a sua volta un distacco dai forti presupposti “di pensiero” per una mutazione della realtà: vi fu la ripresa del capitalismo, la spinta dell’economia americana (con la fine delle istanze rivoluzionarie nei Paesi vincitori), l’intervento del fascismo per bloccare le istanze rivoluzionarie (mascherato da “rivoluzione nazionale”) e infine il fallimento del “diciannovismo” che segnò il neonato Partito Comunista d’Italia.
L’avanguardia leninista e il “partito nuovo”
La necessità di affrontare e superare il fascismo, che aveva cambiato lo scenario politico, impose ai comunisti italiani l’archiviazione del leninismo, la ricerca di un’unità del fronte antifascista e la collaborazione col mondo cattolico.
Fu un’inevitabile e salvifica revisione, una nuova strategia di lunga durata il cui artefice fu Palmiro Togliatti. Personaggio d’esperienza carismatico, storicista di formazione, fautore di una pedagogia costante verso il corpo dei militanti, trovò le ragioni della sua fortuna nell’aver tenuto insieme “il vecchio e il nuovo” e nell’essere rientrato nel gradualismo. Il “partito nuovo”, per Togliatti, doveva essere:
“Un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema della emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione“(1).
Un partito, dunque, che svolgesse non solo un ruolo critico, ma di intervento nella vita del Paese. Questo mutamento di prospettiva rispetto ai dettami del ’21 – tra i quali c’era l’espulsione dei riformisti richiesta dal Komintern – era dato dal profondo radicamento del fascismo. Le nuove parole d’ordine erano democrazia politica (“progressiva”), riforme, inclusività delle alleanze e partecipazione all’Assemblea Nazionale Costituente, nonostante i malumori di molti alla base del partito, assuefatti all’idea che la Resistenza fosse il preludio alla rivoluzione socialista e contrari all’azione comune con i democristiani. Era implicita la critica degli errori commessi e delle illusioni coltivate precedentemente.
Con l’inizio della guerra fredda, le alternative erano accantonare l’illusione di dirigere una coalizione di unità nazionale (con il partito nuovo come “forza decisiva”, perno della democrazia progressiva) o mantenere quell’opzione in una situazione generale sfavorevole (ricordiamo le pressioni degli USA che non volevano i comunisti al governo e le difficoltà del PCI nel seguire l’URSS). A tal proposito Canfora ritiene che la grandezza di Togliatti stia nel tentativo di tenere il partito in vita quando tutto cospirava per un ripiegamento identitario e rifiuta la retorica della sua “doppiezza”, interpretando la virata del PCI come una scelta di grande realismo politico:
“Il transitorio si colloca in una situazione in sviluppo e si regge sull’aderenza a questa situazione da un lato e sulla tendenza e capacità di trasformarla muovendo in una direzione determinata. […] Scavando in questo concetto si può scoprire veramente quale è e deve essere la sostanza di una politica comunista“(2).
Si trattava di muoversi verso il socialismo all’interno della Costituzione, nella considerazione che la borghesia monopolistica esercitava una dittatura anche nelle “forme della democraticità”, e di placare i rivoluzionari “a buon mercato“.
Nel decennio ‘53-’63, durante la quasi estinzione dei partiti comunisti occidentali, Togliatti inizia a parlare di riformismo e tenta nuovamente l’intesa con il mondo cattolico; nel ‘62-‘64 è sull’orlo della socialdemocrazia, avendo come sfondo un’Italia diversa con un benessere più diffuso e l’incrinarsi del mondo socialista.
Berlinguer e la mancata riscoperta della socialdemocrazia
Ciononostante, la proclamazione della democrazia politica è generalmente ascritta a Berlinguer per la rottura con l’ortodossia sovietica con il discorso del ‘76 a Mosca e la difesa del Patto Atlantico il 15 giugno dello stesso anno. Secondo l’autore, il “berlinguerismo” è difficile da definire, date la sua stratificazione in diverse esperienze e la sua ambiguità che comprenderebbe un’”altra idea” di rivoluzione, la mai chiarita “terza via”, un po’ di spontaneismo sessantottesco nell’erronea convinzione che fosse quello lo strumento per “agganciare” le nuove generazioni, l’ambientalismo e il vagheggiamento di “una diversa qualità della vita”. Difatti, nel decennio ‘72-’84 vi fu un’oscillazione tra diverse alternative fallimentari: dal “compromesso storico” dopo il golpe in Cile e dal rilancio del togliattismo verso le masse cattoliche – entrambi falliti con il sequestro Moro – alla proposta dell’”alternativa di sinistra” con il PSI rifiutata da Craxi e all’ arroccamento sulla “questione morale” (“Noi abbiamo le mani pulite!”).
Canfora sostiene che dopo la rottura con l’Urss “Berlinguer non ha maturato (né fatto sorgere nel Partito) alcuna convincente e organica visione (e tanto meno opzione) alternativa”(3).
L’errore maggiore dell’era Berlinguer e, in realtà, di molti comunisti italiani, fu la mancata riscoperta della socialdemocrazia:
“Questa ostinata volontà di non prendere atto che, a partire dalla “seconda nascita” nel 1944, il Pci aveva man mano percorso una strada che gli imponeva, come compito storico, di occupare lo spazio della socialdemocrazia nel panorama politico italiano è stata la matrice della crescente inconsistenza progettuale e “svogliatezza” pratica, oltre che della progressiva perdita di contatto con i gruppi sociali il cui consenso veniva dato ottimisticamente per scontato”(ivi).
Tra le conseguenze ideologiche più evidenti ci furono il cambiamento del “Paese guida” che non era più l’Urss, il “Paese del socialismo”, ma gli Usa ovvero la” grande democrazia americana” e la riscoperta dei lati positivi del capitalismo e dunque la necessità del profitto per il bene dell’economia.
Internazionalismo e “questione nazionale”
L’autore traccia una panoramica della parabola del comunismo di notevole interesse. Il movimento comunista fu originariamente una forza politica internazionalista, in opposizione ai socialisti “socialpatrioti” finiti nel disastro della Grande Guerra. La sua massima espressione si ebbe nel ’17 russo e nella proclamazione del “decreto sulla pace”. La torsione nazionale fu una modifica profonda e strategicamente necessaria i cui esempi teorici furono i Quaderni dal carcere di Gramsci e la Storia del Bolscevismo di Arthur Rosenberg e, sul piano dell’azione, il “socialismo in un Paese solo” e la “grande guerra patriottica” in Russia, la Resistenza e il “partito nuovo” e nazionale in Italia. Canfora afferma che si trattò di un “ritorno pieno alla socialdemocrazia come strada maestra dopo la lunga (e storicamente necessaria) parentesi «comunista»”.
Riprendendo il pensiero dell’ultimo Engels, per l’autore è possibile cercare un’analogia tra il progresso del cristianesimo e quello del socialismo: Lenin come Lutero, i bolscevichi come gli “eretici” che chiedono alla Chiesa – ovvero i socialdemocratici – un ritorno all’originario. Assolto il ruolo propulsivo e innovatore, la Riforma perse progressivamente le ragioni della sua affermazione: le chiese riformate imitarono sul piano organizzativo la Chiesa, che volle un ricongiungimento ecumenico. La riforma era necessaria come lo era il comunismo, e la stessa socialdemocrazia
“[…] ha recepito non poche istanze e mimato non poche conquiste empiriche del comunismo fattosi realtà statale, mentre a sua volta il comunismo o è rifluito, di fatto dissolvendosi, nell’alveo di partenza […] o ha malauguratamente assunto, in alcune aree dell’Asia, forme aberranti (quale fu la funesta meteora Pol Pot in Cambogia)“(ivi).
Il Pd, la “sinistra” contemporanea, trova nell’europeismo il suo articolo di fede: può sembrare una nuova forma di internazionalismo, un ritorno alle origini, ma si tratta niente più che di un “internazionalismo dei benestanti” il cui epicentro è finanziario e che sta comportando la destrutturazione dello Stato sociale con la conquista del gradualismo socialdemocratico negli ambiti nazionali, il divieto degli aiuti di Stato alle aziende nazionali e dunque l’abbandono di qualsiasi progetto economico fondato sulla partecipazione statale o ad economia mista. In altre parole, la sinistra contemporanea si è rivelata alfiere di valori antitetici a quelli sui quali era nata, ha trasformato il più grande partito comunista d’Occidente in una forza liberal-liberista. Pertanto è consolatorio obiettarsi che si parla di qualcosa che continua a vivere sia pure in forme nuove.
La morte dei partiti politici
La forma-partito descritta all’inizio è caduta insieme ai partiti socialdemocratici. Non è fallito solamente il “partito nuovo” di Togliatti, ma tutto il sistema di partiti sorto dalla fine del fascismo (e non solo in Italia), ovvero tutte quelle formazioni politiche che proponevano un rinnovamento radicale, descritto da Fanfani nel 1946 come “rivolta universale contro la civiltà capitalistica”. Sullo sfondo di una trasformazione sociale profonda (sbriciolamento delle classi sociali, sessantottismo individualistico, “vittoria” del capitale finanziario nella guerra di classe) sono sorti partiti e leader fragili ed effimeri, agglomerati ondivaghi senza programmi di respiro, che fiutano l’aria (ovvero l’opinione pubblica conquistata da miti primordiali-consumistici) e non svolgono alcuna funzione educativa:
“Il mondo che è finito, e nell’ambito del quale si è consumata la storia dei partiti politici (tra cui il Pci), era, sul terreno delle formazioni politiche di massa, un mondo ordinato e, se si vuole, ‘arcaico’. Il ‘capo’, e via via i vari dirigenti ai più diversi livelli, erano selezionati dalla prassi e dall’impegno quasi totalizzante; ed erano perciò accettati e riconosciuti. […] Ora, lo spazio politico è diventato sempre più un business economico, e la prateria spalancata davanti agli appetiti personalistici degli arrivisti senza princìpi è vastissima. Lo spazio politico è sempre più lo spazio di chi “ha i soldi”, mentre le corporazioni sono sempre più settorializzate e, in tale prospettiva, agguerrite. L’americanizzazione della politica procede come una marcia trionfale, mentre la tenuta e la serietà dei corpi portanti dello Stato (la burocrazia in primo luogo) vengono fortemente intaccate da un lobbismo “all’americana” sempre più sfacciato. La nascita di volgarità assolute come “Movimento 5 Stelle” o “Lega Salvini”, o, in paesi più chic, di formazioni a denominazione ginnica come “En Marche”, è la controprova, se non il coronamento, della disintegrazione della politica in direzione affaristico-plebiscitaria“(ivi).
E ora?
Canfora precisa che il suo è un “libro di storia antica”, senza nostalgia. Le domande aperte di oggi sono: quale partito sarà in grado di affrontare il mondo nuovo? La socialdemocrazia può reggere la vittoria planetaria del capitale finanziario? Di fronte alla vittoria della finta saggezza secondo cui le diseguaglianze e le divisioni di classe sono eterne, i problemi quali l’avanzata delle destre in vari Paesi, la tecnologia che supera il lavoro umano e la lotta tra superpotenze non dovrebbero essere lasciati in mano a oligarchie del denaro il cui aumento di potere inizia a mettere in pericolo la democrazia stessa:
“Oggi sappiamo bene quanto quella diagnosi sia vera ben oltre ciò che Togliatti sessant’anni fa potesse immaginare: oggi che il capitale finanziario regola la vita della cosiddetta “Unione europea”, e i governi nazionali (per quel poco che contano) e la pomposa “Commissione europea” (che nessun elettorato ha designato) ne eseguono gli ordini e ne rispettano scrupolosamente le istanze. Anzi, si è determinata, col passar del tempo, una situazione in cui quelle “forme di una certa democraticità” di cui parlava allora Togliatti si sono di molto ridotte. […] democrazia ed economia fondata sul profitto capitalistico non sono affatto un binomio indissolubile; corollario di tale constatazione palmare (se si pensa – guardando alla storia – alla perfetta convivenza tra grande capitale e fascismo) è che “nelle società cosiddette occidentali” il principio e la pratica democratica stentano a “penetrare nella direzione della vita economica” (ivi).
Fonti:
(1) Discorso pronunciato il 24 settembre 1944 alla conferenza della Federazione romana del PCI, citato in L. Canfora, La metamorfosi, Laterza, Bari-Roma 2021, p. 18, sottolineature nostre.
(2) «Rinascita», n. 6, giugno 1960, cit. in Canfora, L., La metamorfosi, p. 39.
(3) L. Canfora, La metamorfosi
Fonte: https://www.kriticaeconomica.com/pci-da-metamorfosi-al-crollo-canfora/
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